Moebius diceva «Siamo stufi di storie a forma di casa, con una porta per entrare, una finestra per guardare fuori e il camino per far uscire il fumo. Vogliamo storie a forma di farfalla, di campo di grano o di fiamma di cerino.» Le “case” di Chris Ware, Art Spiegelman, Robert Crumb, Roberto Innocenti e Richard McGuire.
Costruire storie
Frank Zappa diceva che parlare di musica è un po’ come danzare di architettura. Per evitare di precipitare in questo paradosso, i migliori teorici del fumetto hanno fatto del fumetto il loro mestiere.
Prendi, per esempio, il teorico più grande di tutti, Chris Ware. Con Jimmy Corrigan ha tracciato una rotta: 380 pagine per raccontare la più menzognera tra le autobiografie (o, se preferisci, la più personale tra le vite inventate). Se non hai ancora letto quell’incredibile romanzo di formazione, facciamo così: smetti di leggere queste righe e corri a comprarlo, rubarlo o prenderlo in prestito… Io resto qui, non mi muovo, ti aspetto volentieri. Davvero.
Il libro di Ware è la costruzione perfetta che assembla tutte le ossessioni e le narrazioni che hanno attraversato l’autore fino a quel momento. A un certo punto, questo signore dal cranio enorme – che la moglie Marnie, suscitandomi un brivido, definisce “extremely focused” – decide di raccogliere i frantumi di racconto sparpagliati in vari formati e li compone in un oggetto perfetto dal punto di vista visuale, narrativo e perfino cartotecnico. L’edizione statunitense con copertina rigida è avvolta in una sovraccoperta che si apre come un poster: un oggetto sublime che mostra assurde simmetrie e non ha solo funzione decorativa. Quella sovraccoperta è una gigantesca mappa del racconto e il lettore farà bene a usare per muoverti agevolmente tra le tre generazioni che vivono nel libro.
L’idea che il fumetto sia uno spazio fisico in cui muoversi, è il nucleo del lavoro di Ware, prendi, per esempio, Building Stories, che è… qualcosa che non so dire con precisione. Cioè, se vuoi lo trovi in libreria ma, te lo garantisco, non è un libro. Sembra la scatola di un gioco da tavolo ed effettivamente, quando lo apri, dentro trovi perfino un tabellone, ma è insieme a un sacco di altri manufatti cartacei. Una quindicina in tutto. Di tutti i formati possibili. E ti tocca di fare delle scelte: devi capire cosa leggere prima e cosa dopo; a quale personaggio affezionarti; su quale poltrona sederti; se puoi mangiare un altro biscotto e allontanare ancora un po’ la fame e l’ora di cena e tirare tutta la notte tra quelle storie.
Chris Ware costruisce storie ospitali o freddissime, proprio come abitazioni. Dentro c’è tutta la vita (e, qualche volta, anche la morte). Ma non è mica il solo.
C’è un altro gigante americano, Art Spiegelman, che da decenni cerca il formato perfetto per i suoi racconti. È lento, puntiglioso in modo preoccupante e pigrissimo; dichiara senza paura che si mette a lavorare solo quando non farlo gli costerebbe più fatica di quanto gliene costerà farlo; e ci ha regalato uno dei capolavori del Novecento, Maus. Quando parla di fumetto, storie e definizioni, i suoi interlocutori si ritrovano all’improvviso di fronte a un impresario edile. Dice:
«Il mio dizionario definisce la striscia a fumetti come “una sequenza narrativa di CARTOON”. Se cerco “narrativa” mi risponde “una storia”. La quasi totalità delle definizioni di “storia” mi lascia freddo. Eccetto quella che dice “la divisione orizzontale di un edificio [dal latino medioevale HISTORIA… una fila di finestre su cui vetri sono presenti disegni…]” La parola CARTOON si riferisce alle intenzioni umoristiche… un desiderio di divertire e intrattenere. A me non interessa così tanto l’intrattenimento… la creazione di evasione. Molto meglio di CARTOON è la parola DISEGNI, o meglio ancora DIAGRAMMI!»
Dall’altra parte dello spettro del racconto c’è Moebius che, quella volta che ha dovuto scrivere il manifesto programmatico per un collettivo di autori (eravamo all’inizio degli anni Settanta) gli è venuta una cosa che suona più o meno così:
«Siamo stufi di storie a forma di casa, con una porta per entrare, una finestra per guardare fuori e il camino per far uscire il fumo. Vogliamo storie a forma di farfalla, di campo di grano o di fiamma di cerino.»
Be’… A questo punto quelle case sono inevitabili. Non ci resta che gettarci un’occhiata dentro.
La prima
Guardala con attenzione. Compare nella terza vignetta della prima pagina di A Short History of America. Nel 1979, anno di realizzazione di quel breve fumetto, Robert Crumb è già il grande fumettista che sappiamo: ha già subito l’influenza di Harvey Kurtzman e ha esordito su una rivista da lui diretta, “Help!”; ha disegnato Yum Yum Book, un meraviglioso fumetto lunghissimo (un “graphic novel” prima che chiunque sentisse il bisogno di chiamarlo così) per cantare il suo amore per la moglie Dana; ha già creato – e ucciso – Fritz the Cat; ha inventato – e portato a fine corsa – la rivista “Zap comix”; ha messo in pagina la sua ossessione per le droghe, le donne «a forma di fagiolo» e la musica che vale la pena di ascoltare; ha pubblicato diverse antologie, alcune delle quali classificate (senza esagerazione) come pornografiche… Quando pubblica A Short History of America, Crumb è un maestro, capace di gestire tutti i registri del racconto a fumetti e di controllare il movimento dello sguardo del lettore sulla tavola. Disegna quattro pagine, ognuna delle quali suddivisa in tre vignette. L’inquadratura è fissa. Non ci sono personaggi ricorrenti. Non si sente un solo suono. Niente segni cinetici che rappresentino movimento. Niente nuvolette di fumo piene di parole. Il lettore assiste allo spettacolo della storia che succede all’inseguimento della freccia del tempo.
Nella prima vignetta c’è solo il bosco; nella seconda, il verde si è ritratto perché la ferrovia si srotolasse e permettesse il passaggio del treno; nella terza, ecco comparire la casa.
Il mondo evolve intorno a quell’edificio: strade, lampioni, palazzi, locali, negozi, benzinai… nell’ultima pagina, la casa scompare per lasciare spazio a un parcheggio.
Il tempo passa, sgocciolando attraverso quell’inquadratura fissa, e così facendo, lascia che sotto i nostri occhi si sviluppi la breve e inarrestabile storia degli Stati Uniti.
La seconda
La seconda casa è già lì dalla prima grande immagine. Roberto Innocenti l’ha posta a destra in una serie di grandi illustrazioni che raccontano il Novecento e l’Italia. Al disegnatore non interessa l’urbanizzazione: il suo sguardo si concentra su una casa di campagna, lontana dalla città. Ma in quello scorcio di paesaggio passa il mondo. Databile e riconoscibile grazie agli eventi, alle mode, alle auto, alla tecnologia. Un gigantesco trattato di storia contemporanea che bisognerebbe guardare con attenzione spasmodica per capire il XX secolo.
L’editoria è una bestia troppo spesso cattiva. Erich Linder, un tipo che ha contribuito a inventare quella bestia, diceva che è l’anti-industria per eccellenza, perché costruisce oggetti artigianali che vorrebbe trattare come saponette, lucchetti e automobili, per garantirsi la marginalità più alta. Alla ricerca di questa redditività – inattuabile su larga scala – gli editori cercano spesso un’ambiguità, un equivoco, per vendere un prodotto che a loro pare avere poche speranze.
La sequenza di illustrazioni di Innocenti viene intercettata da Creative Editions e questo non è certo il peggiore dei destini che ti possano capitare. La casa editrice prende quell’infilata di immagini e le confeziona in un volume intitolato semplicemente The House. Le illustrazioni sono riprodotte benissimo e, a ognuna di esse, è dedicata una doppia pagina. Colmo di sfiducia nei confronti del lettore, l’editore però decide di raddoppiare lo spessore del volume, alternando a quelle riservate alle immagini altre pagine di inutili parole, commissionate a uno scrittore specializzato in libri per ragazzi. Didascalie inutili e ridondanti che interrompono la magia. È un po’ come se due amanti venissero continuamente fermati mentre assecondano i loro desideri da un individuo pedante che decidesse di spiegare loro, a parole, la bellezza di quello che sta succedendo in quella stanza.
La terza
La terza casa, infine, è qui, intorno a noi. Siamo al centro di una stanza che si presenta ai nostri occhi come se fosse una Y rovesciata. Compare in Here, fumetto del 1989 di Richard McGuire. L’inquadratura è sempre la stessa e viene riproposta in ciascuna delle sei vignette che compongono ciascuna delle sei pagine. In cima a ciascuna vignetta c’è una didascalia con una data. A partire dal quinto quadretto della prima pagina, all’interno della vignetta si aprono una o più vignette, ognuna con una sua data. Le date riportate sono indifferenti alla direzione del tempo e saltano avanti indietro. Il lettore è costretto a ricostruire la storia (e la Storia) facendo a botte con tutte le definizioni di “arte sequenziale”.
Ti ricordi Chris Ware? Ti dicevo di lui qualche minuto fa. Quando parla di Here, quel signore ossessionato dalle case dice:
«È uno dei migliori fumetti che siano mai stati disegnati. La prima volta che l’ho visto è stato come se all’improvviso avessero disseppellito un edificio che era in gran parte sepolto. Mi sono detto: “Allora si può fare molto più di quello che pensavo”. Non riesco a trovare nessun altro singolo fumetto che abbia cambiato il mio pensiero in modo più radicale. E so che molti altri fumettisti, grazie a Here, hanno iniziato a pensare a quello che potevano fare.»
Una volta ho avuto la fortuna di cenare con Richard McGuire. Era appena uscito un suo libro che espandeva quella breve storia universale, facendola diventare un volume di quasi 400 pagine. Quel libro, proprio come il breve fumetto di sole sei pagine, si chiama Here.
McGuire è un tipo simpatico. Mi diceva dell’incredibile corso di calligrafia giapponese cui aveva appena partecipato (con esiti vergognosi, a suo dire), delle sperimentazioni musicali con il suo gruppo, della meditazione e dei giochi che gli piace costruire. Poi siamo arrivati a parlare di quella casa e della costruzione perfetta di quel fumetto che dispone l’immagine giusta nel posto giusto della pagina. Interrogandomi su quella sublime forma di perfezione, gli ho chiesto come fosse venuto in contatto con Art Spiegelman e Françoise Mouly che erano i curatori di “Raw”, l’incredibile «rivista che sopravvaluta il gusto del pubblico americano» su cui le sei pagine di Here erano uscite per la prima volta. Mi ha parlato di casualità newyorchesi, smussando ogni elemento di straordinarietà: si era limitato a mandare il suo fumetto in redazione.
Ma come? “Raw” aveva cambiato editore e formato proprio con il numero che aveva pubblicato Here. Fino a quel momento era stato un albo gigantesco: pagine patinate molto grandi – quasi un tabloid – tenute insieme da punti metallici. Da quell’uscita era diventato un volume brossurato del formato più pratico in cui oggi troviamo la gran parte dei fumetti che chiamiamo “graphic novel”. Come era riuscito McGuire a sapere del nuovo formato e a proporre quel gioiello dalla meccanica narrativa perfetta?
«Non lo sapevo», mi ha risposto, «la versione di Here che ho spedito a “Raw” si sviluppava in quattro pagine di nove vignette ciascuna. Ho dovuto rimontarle, per adattare il fumetto al nuovo formato.»
Il potere della casa aveva consentito di allineare le finestre disegnate ottenendo un nuovo diagramma che non aveva perso nulla della sua forza narrativa.