La trapezista… già la trapezista, ma era volata giù dalla fune tesa e l’avevano portata via dentro una carriola e il sogno era svanito.
Io e mia madre, la regina, ci incontravamo per la colazione del mattino, un poco prima dell’alba, per essere solo noi due, senza la peste dei cortigiani. Lei faceva bollire il latte, io gustavo l’aroma della panna schiumante. “Speriamo che trabocchi.” Pensavo, mi piace il bruciato sui cerchi roventi della stufa. Mangiavamo pane inzuppato nel latte: ciop, ciop, ciop…pane raffermo, avanzato da ogni pasto e conservato assieme all’altro cibo che dura: castagne secche e carrube. Tra un cucchiaio e l’altro lei si puliva la bocca con l’orlo del fazzoletto e m’interrogava: “I boschi?” Mi aspettavo la domanda e rispondevo di mala voglia : ”So, so. Bisogna liberare i boschi dai vecchi alberi:” Ciop, ciop, ciop…”I canali?” “So, so. Si devono rinforzare le rive con nuovi alberi.” Ciop. Ciop, ciop…sempre alberi da sradicare e da piantare. Non solo, ma sgombrare le foglie dalle grondaie, sostituire le tegole che il vento soffia via, dare l’olio ai cardini delle porte… E’ una vita da re questa? Bevuto il latte, guardavamo dalla finestra: il giardino, i pioppi, le loro cime che diventavano nitide nel fulgore ascendente. Sorgeva il sole. Mia madre aveva cercato di insegnarmi a confidare nella luce, senza gran risultato, ma in quel momento, come se l’alba sciogliesse il mio ghiaccio, mi lasciavo andare. Pur a denti stretti parlavo di me stesso. Ciò che amavo: leggere, scrivere, fantasticare… Mia madre si chinava verso me con trepidazione per accogliere quel ritaglio delle mie confidenze, sbirciare di straforo il fondo del mio animo come se non vi fossero altre occasioni se non quell’ attimo in cui il sole, ancora acerbo, balenava su di noi prima di salire la maiolica della cucina verso lo sfavillante pentolame appeso sui muri. Borbottavo le delusioni della mia vita. Avevo cominciato gli studi di chimica ma li avevo piantati a metà, al capitolo dell’acido solforico. L’acido solforico…? Ricordavo vagamente la formula: quanti atomi di ossigeno ? Quattro, cinque, sei ? Era proprio ossigeno?O azoto, o peggio qualche atomo ignoto che solo da morti si sarebbe conosciuto? Assieme al tirarmi indietro dall’acido solforico mi veniva in mente quella altra mia paura quando ero andato fino al mare, cadendo in ginocchio davanti alle onde in burrasca? Deus, Deus! Mai visto tanta acqua in tumulto! Ma non avevo avuto il coraggio di imbarcarmi e far vela fino a scoprire dove finisce il mondo. E il teatro che metteva le tende sotto il castello? Mi pareva un sogno! Il cavallo che recitava, la trapezista che volava. La trapezista… già la trapezista, ma era volata giù dalla fune tesa e l’avevano portata via dentro una carriola e il sogno era svanito. Che dire ancora? Dicevo a mia madre che mi bruciavano gli occhi.
“Leggi troppo.”
“Devo leggere.”
“Perchè devi, perché?”
“Perché sì!”
“Cosa hai dentro?”
“Dentro?”
“Dentro nel cuore.”
“Niente”
Così è, nel cuore non ho niente, niente e buio, come la campagna notturna del mio regno piena di gufi. Poi arrivavano le vecchie maggiordome, sorde e balbuzienti, a prendere ordini dalla regina, ma prima volevano far colazione anche loro. Masticavano senza denti, biascicando i bocconi di pane che affogavano nel latte finchè diventavano pasta molle e intingevano nello zucchero per farne melassa. La tavola, per carità! una mangiatoia da polli. Si asciugavano la bocca nelle maniche e si grattavano in testa tra i pochi ciuffi color topo. Sazie, incrociavano le mani sulla pancia e chiedevano alla regina il da farsi.
“Lavare i pavimenti?”
“Tre volte al dì!”
“Lucidare gli ottoni?”
“Tre volte al dì!”
“Pulire i vetri?”
“Tre volte al dì!”
“Stirare?”
“Tutti i giorni!”
“Attaccare i bottoni?”
“Con filo di ferro!”
“Cucinare?”
“Poco!”
“Pranzo?”
“Saltare”
“Cena?”
“Patate lesse!”
“Solo patate?”
“Solo patate!”
“Patate con la cicoria?” Insistevano petulanti.
Dovevo intervenire io: “Niente cicoria! La regina ha detto patate e basta”.
Perché tanta penitenza? Io lo sapevo: il re non c’era più e il mondo doveva essere come il venerdì santo. Ma le maggiordome ridacchiavano sotto i baffi (mustacchi come barbe di pannocchie). A loro erano morti tutti i mariti, di primo, secondo, terzo letto e chissà quanti altri materassi e paglioni, ma non per questo erano in lutto. Sanguigne e ingorde, per sé stesse mettevano in tavola ben altri menù. Sbafavano, ammonticchiate in casa dell’una o dell’altra, in assenza di qualche nuora: Risotto in cagnone, stufato d’asino, cipolle fresche, formaggio…fettone di taleggio con crosta e muffa. Campavano cent’anni, senza brucior di stomaco, mal di testa, singhiozzi. Ingollata la colazione, che chiamavano petit dejeuner, ma era una grand soupe, si alzavano da tavola al levarsi della regina. Uscivano con lei, in fila come formiche, per ossequio zoppicando anche loro al toc, toc, dell’ombrello di mia madre. Nessuna aveva rassettato la tavola, lasciando scodelle e cucchiai in balia delle due mosche invernali divenute eterne nel tepore della cucina.
Bibliografia
Antoine – Laurent Lavoisier: La chimica dell’acido solforico ed i suoi doppi legami con l’aldilà. Parigi, 1790.
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