Ora mio padre è là, nel monumento funebre eretto davanti al castello. Lo chiamano il Re di legno perché la sua statua è proprio di legno, secondo la sua volontà lasciata scritta a mia madre: “Se mai mi accadesse di morire e precipitare dalla immortalità nella quale i tuoi occhi mi tengono sospeso, sia prescritto che la mia persona non sia scolpita né in muto granito, né in sordo bronzo. Mi sia dedicata una statua di legno e l’opera non sia collocata su alcun piedistallo, ma posata a terra, come se fossi ancora vivo tra la gente.”
Non era stato facile trovare un falegname capace di tale compito, finchè ne era saltato fuori uno che faceva cavalli a dondolo. Convocato nel castello, egli aveva letto con attenzione lo scritto di mio padre, poi si era sfregato le mani: “Si deve trovare un legno da re..” Si era guardato in giro e si era soffermato davanti al lettone dei miei genitori passando la mano sulla testata. Su e giù la mano accarezzando il Paradiso terrestre che vi era scolpito: l’albero del bene e del male folto di mele. “Questo.” Mia madre si era illuminata come una lucciola , lei non aveva più bisogno del letto matrimoniale, avrebbe dormito nella cassa dove erano riposti gli abiti di mio padre. Prima di cominciare il lavoro Il falegname aveva voluto visitare il castello per ravvivare la sua ispirazione. Una sera, mia madre l’aveva accompagnato sulla torre dove c’era ancora il suo cannocchiale. L’artigiano aveva posato l’occhio sulla lente ed era restato incredulo con le braccia spalancate :”Quante, quante stelle, un formicaio!!!” “Guarda bene.” Aveva detto mia madre e lui aveva guardato di nuovo mentre mia madre adagio, adagio ruotava il cannocchiale: "Guarda qua!” Si vedeva un sole, un sole di notte che faceva fiamme. Il falegname non credeva ai propri occhi “Lui abita là!” aveva detto mia madre e l’uomo era caduto in ginocchio come se avesse visto Dio. Un altro giorno erano scesi in giardino, sotto la pergola, dove i miei genitori usavano pranzare d’estate. Si erano seduti al tavolo di marmo restando in silenzio come chi aspetta un ospite e mio padre era apparso con lo sguardo smarrito in cerca di mia madre. Non aveva detto una parola come se gli fosse vietato esprimere ciò che ardentemente desiderava. Mia madre aveva abbassato il viso come ubbidendo a una fatalità ineluttabile. Un attimo. il fantasma era svanito e subito era tramontato il sole. Il falegname aveva chiesto a mia madre di assistere al suo lavoro, nella sua bottega piena di cavalli a dondolo. L’aveva fatta salire su uno di quei dondoli e le aveva acconciato l’inclinazione del capo e le pieghe dell’abito come se fosse lei a dover essere ritratta. Segava, intagliava il legno e guardava mia madre e la sagoma prendeva le fattezze precise di mio padre. Mia madre lasciava fare raccomandandosi solo che la statua risultasse affabile, con un bel sorriso sulla faccia. “Non dubitare.” Diceva il falegname. Alla fine il re, mio padre, era risultato bonario e affettuoso, ed anche un po’ più grande di come era stato, come se la morte l’avesse alzato di statura, quel tanto da farlo alto come mia madre. Ora la statua è in piedi, davanti al castello, nell’atto di conversare con il popolo. Purtroppo la gente che gli passa davanti non si scappella e non risponde al sorriso che fiorisce sulle labbra di legno. Il simulacro si rivolge a qualcuno che appena appena si ferma, lì sui due piedi, come se gli bruciasse la casa: ”Come stai?” chiede il monumento. Il suddito alza le spalle e scappa via. Passa un altro: ”Come stai?” Quello grugnisce e scappa via: tanto è un pezzo di legno. Tutti scantonano tranne qualche vecchia che da anni cerca notizie di un figlio andato via. Il re di legno ascolta, la vecchia ragguaglia. Poi, dopo qualche tempo, arriva dalla Francia un mercante di stoffe. Parbleu, mais oui! Lui ha visto uno così e così. La vecchia giunge le mani: “è mio figlio, è vivo!”. Si ferma anche qualche ragazza, col velo sopra la testa per non essere notata, si avvicina, si alza sulla punta dei piedi, si accosta all’orecchio di legno, sussurra, diventa rossa, si mette un dito sulle labbra come per raccomandarsi che il legno non dica niente a nessuno. Poi, dopo qualche tempo, celebrandosi un matrimonio con grande gala di musica e cavalli impennacchiati, la sposa si assente un momento, corre dal re di legno e depone ai suoi piedi la propria coroncina di fiori d’arancio. “Grazie,” gli dice “ grazie per la grazia che mi hai fatto.” Ma le visite più numerose accadono di notte. Animali! Animali in processione, cani, gatti, oche, fagiani, anche qualche scimmia scappata dai circhi di passaggio nel mio regno. Gli animali si mettono davanti al monumento e parlano. Sì, parlano come fossero persone, discutono col monumento e commentano tra loro. Il re di legno risponde, dà consigli, spiega. Tutti parlano una lingua sola, quella in vigore prima della torre di Babele. Io e mia madre siamo in cima alla torre, ma senza sporgersi perché nessuno ci veda. Non riusciamo a capire granchè perché non conosciamo quella lingua, ma ci basta intuire la gentilezza e la curiosità che circola in quel consesso. Io immagino che parlino della felicità perché, a un certo punto, sento mia madre singhiozzare e devo trattenerla per le braccia per impedire che si butti giù.
Bibliografia
Galileo Galilei. Le fiamme del sole nelle notti d’inverno. Arcetri, 1620