Non era tornata, ma lui aveva continuato a scrivere poesie nonostante l’oceano degli anni diventasse sempre più vasto aumentando la distanza tra il Sud America e la panchina del parco della loro promessa.
... Q
uando erano ragazzi. Lui la guardava negli occhi, stringeva nelle proprie mani le mani di lei, accarezzava la terra dove lei era passata, tornava a casa beato, si rifugiava nella sua stanzina confidandosi con i pesci rossi del vaso accanto alla radio, i pesci parlavano e lui si precipitava a scrivere poesie per lei. Così aveva scritto infinite poesie per lei, per i suoi capelli con le mollette, i suoi occhi spalancati, la sua bocca indicibile in ogni dire, la sua vita stretta dalla cintura di seta colorata, le gambe, le ginocchia, le caviglie, i piedi, il passo alato, il battere le mani, il ravviarsi i capelli, il sospirare con gioia, seduta vicino a lui sulla panchina del parco sotto l’albero di foglie e uccelli, intanto che l’estate passava in altezza di nuvole per il mare del cielo. Loro due, come foglie trepidanti, perché il mondo finiva lì, su quella panchina, lui seduto accanto a lei e lei seduta accanto a lui, lui e lei, lei e lui … Aveva scritto infinite poesie su foglietti zeppi di punti esclamativi: sì, sì,sì!!! pagine piegate e ripiegate dovendo i fogli trovar luogo nel pugno stretto di lei, nelle tasche di lei, sotto la pila della biancheria di lei, nella camera di lei, con le pareti dipinte di giallo arancio e il lampadario di stoffa leggero come un mongolfiera sfuggita alle gomene, in volo sopra mari e monti. Solo il lampadario, guardiano della notte, sapeva del loro patto stipulato sulla panchina del parco: andare a vivere per sempre in un posto irraggiungibile dove fosse costantemente mattina di giugno nel sospeso silenzio degli uccelli che hanno smesso di chiamarsi per ascoltare il giuramento dei due ragazzi: sì, sì, sì…! Ignari, i passeri ed i fringuelli, che lei, di lì a poco, sarebbe partita con la famiglia diretta oltre oceano: Argentina, Buenos Aires, Tucuman, Cordova, le stesse città degli Appennini alle Ande, perché laggiù suo padre aveva impiantato un commercio di pellami e da là, lei, cintura di seta colorata, non sarebbe più tornata. Non era tornata, ma lui aveva continuato a scrivere poesie nonostante l’oceano degli anni diventasse sempre più vasto aumentando la distanza tra il Sud America e la panchina del parco della loro promessa. Aveva continuato a scrivere poesie portando con sé le più recenti, come una quarantena che potesse salvargli la vita e, di fatto, così succedeva perché le poesie lo salvavano dalle angustie quotidiane armandolo di un sorriso timido, di un dire ad ogni piè sospinto scusi, prego, accompagnato da leggeri inchini anche verso i muri che gli si paravano davanti : mi scusi signor muro, mi indichi lei dove posso passare senza pestarle i piedi. Grazie infinite signor muro, tanto il muro non avrebbe potuto nulla contro le sue poesie. Così erano passati gli anni, si era sposato, aveva avuto tre figli, due maschi e una femmina pur coltivando la solitudine delle notturne letture quando il russare della famiglia gorgoglia nei bassifondi dei sogni. Infine i suoi parenti, come uccelli spaventati da uno sparo, erano volati via, la moglie con un piccolo gemito da gattino, i figli, a loro volta sposati, ma residenti lontano, si erano cancellati con la distanza. Erano trascorsi gli anni, tanti anni, belle e brutte stagioni, inverni di nebbioni dove andava barcollando fino a dar di capo contro un fatuo lampione, quindi cadere in ginocchio e così prono abbracciare il ferreo stelo invocando l’antico giuramento. Infine aveva cessato di lavorare ed era rimasto con le mani in mano tornando spesso nel parco davanti alla panchina di un tempo. Stava là, solo pochi minuti, perché il cuore gli andava in schegge.
L’ultima volta invece di tornare a casa col solito tram era salito su quello della circonvallazione che faceva il giro della città. Sul tram, pur essendovi tanti sedili vuoti e pochissimi passeggeri, perché era domenica, era rimasto in piedi in fondo alla carrozza, aveva tirato fuori dalla tasca le sue poesie, aveva spiegato i foglietti ed aveva cominciato a leggere, prima con voce sommessa, poi sempre più chiaramente, a voce alta, quasi gridando, facendo voltare i quattro passeggeri verso di lui, con aria interrogativa, stupiti a sentire uno che parlava di capelli al vento, occhi chiari, cintura di seta colorata…eccetera eccetera come fosse matto. A quelle grida il guidatore aveva fermato il tram, avvicinandosi a lui come se lui stesse male: no, non sto male, eppure piange, no, non piango, mi bruciano gli occhi, si calmi, sono calmo, mi pare che non sia calmo, sono calmissimo, si sieda, no, preferisco stare in piedi, si sieda per favore, per favore mi lasci stare e il passeggero si era inchinato al tranviere e timidamente gli aveva sorriso. Il tranviere aveva scosso le spalle ed era tornato alla sua guida. Anche gli altri viaggiatori avevano ripreso i loro posti e si erano disinteressati di lui che aveva aperto il finestrino affacciandosi come se gli mancasse l’aria, invece guardava fuori cercando qualcuno, sporgendo pericolosamente la testa e quando gli era parso di riconoscere una persona aveva preso i suoi foglietti e uno dopo l’altro li aveva fatti volare via sperando che raggiungessero chi aveva veduto. Povere poesie… si perdevano nell’aria della circonvallazione, dove le case sono rare, cominciano i prati e le strade sono pressoché deserte nonostante siano segnate dalle loro belle targhe di marmo: via Buenos Aires, via Tucuman, via Cordova…Aveva lasciato andare l’ultima poesia mentre il tram, a luci basse, entrava nella rimessa dove sarebbe stato in riposo per tutta la notte e dove nessuno si sarebbe accorto di uno che scriveva sui vetri dei finestrini che, purtroppo, non prendevano l’inchiostro.
Bibliografia. Edmondo De Amicis. Cuore.