Ora che la guerra è finita la Luisa Ramaioli è la maestra del paese. Siede affettuosamente in cattedra rivolgendosi ai bambini come se fossero figli suoi, figli di lei e del suo Mario.
L
a scaldina della maestra Luisa Ramaioli è il ferro da stiro riempito di carbonella accesa. Il ferro resta caldo fino a metà pomeriggio, quando la donna posandovi sopra la mano rabbrividisce e volti gli occhi alla finestra le viene da piangere vedendo la neve cadere in silenzio. Oltre che sulla sua casa, sul paese di Gerenzago, sui paesi limitrofi: Turris eburnea e Belgioioso, nevica anche sul suo tempo passato, nevica sul remoto giuramento tra lei e il fidanzato Mario Paullo: “Io, tu, tu, io, io, io, io per sempre, finché morte non ci separi…” Quella volta che si erano nascosti nel fieno della cascina (lui aveva perso le scarpe, lei aveva lasciato andare la gonna). I parenti li avevano cercati invano per giorni e giorni, chi dice per anni, temendo una disgrazia: caduti in un pozzo, assunti in cielo? Li avevano chiamati su e giù per i campi: Luisaaa…Marioo…!!! Invece gli scomparsi erano sotto la paglia: si accarezzavano, si baciavano (la bocca mi baciò tutto tremante…) un bacio dietro l’altro, finchè si erano addormentati nella dimenticanza. Quando si erano svegliati c’era la luna. Ma quale luna? Quella vera o quella dei sogni? Ma lui, il Mario Paullo non c’era più! Scappato? Fuggito perché era stato chiamato di leva per la campagna di Russia? In realtà era stato tutto combinato. Quando i due erano scivolati giù dal pagliaio, lui era finito direttamente dentro il sacco che lei teneva aperto e incespicando dentro la tela, ben chiusa sopra la sua testa, lui aveva seguito lei per i campi, lontano, proprio in fondo all’orizzonte dove, dal tempo dei tempi, c’era la capanna del lebbroso. Lei l’aveva supplicato: “Stai qua, non mettere fuori neppure il naso. Stai qua finché la guerra sarà finita!” “Disertore?” “Nascosto!” “Ma..?” “ Ma, ma…non lo sa nessuno. Tutti credono che tu sia coscritto in Russia, e basta.”. Lei aveva provveduto anche a pregare un cugino commilitone (già in Russia con la prima leva degli alpini) che per carità di Dio fingesse di scrivere a lei, Luisa Ramaioli, come se fosse la sua fidanzata. Scrivesse pure tutto ciò che gli passava per la testa: “Tesoro, amore, amor ch’a nullo amato amor perdona…” tutto ciò che gli saltava in mente purché lei potesse declamare la lettera sotto le finestre del Podestà: “Amor ch’a nullo amato amar perdona…camerata Podestà ascoltami! Mario mi scrive dalla Russia! Camerata Podestà che non ti salti in mente di cercalo qua, lui è là, nella trincea di Stalingrado dove scrive come un matto: “mia cara, mia cara, mia cara…” in mezzo alle bombe che scoppiano e alle case che bruciano: “mia cara, mia cara, mia cara!!!” Il Podestà si tappava le orecchie: “Quante svenevolezze con i tempi che corrono!” Erano i tempi quando la guerra cominciava ad andare male , i tempi della ritirata di Russia: Stalingrado, Mosca, Smolenks, Lissa Gori, Vattelapesca... Gli alpini dell’Armir morivano come mosche. Il Podestà scuoteva la testa e tornava a chiudersi nel municipio sopra le carte annonarie che non quadravano con gli iscritti all’annona. Doveva rimetterci lui il burro che mancava? Altro che burro a borsa nera! Gli eroici alpini dell’Armir resistevano a più non posso. Resistevano anche da morti, ma i morti erano troppi, urgevano altri vivi per colmare i vuoti. Proclama: “Alla patria littoria: mancano alpini, signor sì! mancano alpini. Arruolate maschi purchessia. Firmato: Dux, Dux,Dux!!!” Il Dux aveva telefonato direttamente al Podestà di Gerenzago che sull’attenti, davanti al telefono che muggiva, aveva spergiurato che lì, da lui, non c’era più nessuno abile-arruolato. Gli abili, di ogni fattispecie, erano già partiti per la guerra: “Addio mia bella addio e se non partissi anch’io sarebbe una viltà, Eia. Eia Alalà!” Il Dux aveva capito l’antifona e aveva messo tutto in mano alla Muti, insediata nella “Casa del Fascio” sullo stradone per Pavia. I muti stavano in una buia palazzina che aveva lamiere invece che vetri alle finestre e davanti alla porta militava uno con la gamba di legno (guerra di Spagna) e il pugnale in bocca. L’ordine era:” Rastrellare, rastrellare! Buttar per aria pagliai, cantine, pozzi , dovunque un renitente si fosse cacciato.” E ne avevano scovati! Poi avevano allargato il giro. “Perché non dare un’occhiata anche in mezzo ai campi?” “Ma ci sono solo melgasci” “ Melgasci o non melgasci mandiamo avanti i cani”. Una notte, in mezzo ai campi, si era sentito latrare, poi spari, urla e si era levato un falò che aveva incendiato anche le poche stelle che tremavano nel cielo. Avevano preso il Mario Paullo, tirato fuori per i capelli da sotto il letto del lebbroso. Ora che la guerra è finita la Luisa Ramaioli è la maestra del paese. Siede affettuosamente in cattedra rivolgendosi ai bambini come se fossero figli suoi, figli di lei e del suo Mario. Spiega loro i numeri, le parole, la geografia, niente storia. Non ce la fa a parlare delle storie degli uomini, delle guerre, neppure delle guerre puniche, così lontane. Spiega l’aritmetica, la grammatica, le foreste e i deserti, ma quando deve parlare della Russia volta pagina e si copre gli occhi col fazzoletto per nascondere il pianto. No, non va mai al cimitero, non passa mai per quella strada, per il timore di alzare gli occhi sul cippo dei caduti. Sul cippo dei caduti non c’è il nome del suo Mario. Nessuno sa che fine abbia fatto. La maestra preferisce seguire la riva della Colombana fino alla slargo dove si vede la distesa dei campi. Campi e campi a perdita d’occhio; dove una volta si vedeva la capanna del lebbroso ora non c’è più niente.
Dizionario
Colombana: Affluente dell’Acheronte
Gerenzago: villaggio sul confine dell’aldilà
Melgasci: stoppie del granoturco
Muti: Ettore Muti, camicia nera della prima ora
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Ottobre 2011