«Lei era di una classe avanti a me, aveva dieci in latino ( io sei meno meno), aveva i pattini, aveva un gatto che si chiamava Fifì, gli alberi si inchinavano al suo passaggio.»
Dopo che i russi avevano sfondato il fronte sul Don e da noi cominciava ad arrivare una babilonia di reduci affamati, la nostra famiglia si era divisa i compiti per la sopravvivenza. Mio padre davanti al Municipio nella fila di chi aspettava la farina, mia madre davanti alle scuole nella fila per lo zucchero, io nel viale dei platani a raccogliere le schegge degli alberi che nella notte erano stati abbattuti, fatti a pezzi e portati via in fretta e furia, da non dare tempo agli uccelli di reclamare, anzi a diverse nidiate di passeri era stato tirato il collo e spennato il piumaggio per essere messe subito in padella. Ma il più delle volte il bottino era nullo: niente farina, né zucchero, né schegge di legno. Le cene erano malinconiche intorno al pentolino con la colla - minestra della mensa che mio padre portava a casa dalla fabbrica Magneti Marelli dove torniva le pericolose spolette delle mine anticarro, perciò gli toccava anche una cotica di lardo. Mia madre faceva le parti: a me il primo boccone, poi a mio padre, infine a sé stessa che leccava il cucchiaio ringraziando la Madonna: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mio padre lasciava correre). Della colla – minestra niente del tutto agli scarafaggi sortiti dalla canna del lavandino che aspettavano invano sullo scolatoio dei piatti. Stessa miseria agli uccelli che tremavano di freddo sul davanzale della finestra. Poi la casa piombava nell’oscuramento, solo lo smorto languore della lampada a petrolio su mia madre che rammendava le camicie, su mio padre che scriveva nuovi Vangeli dettatigli direttamente da Dio durante il sonno, e su di me che leggevo e rileggevo il Guerrin meschino e il Milione (Qualche sbirciata anche alle Mille e una notte). Finito il petrolio era buio fitto. A tentoni andavamo a letto: i miei genitori nell’immenso catafalco pieno di tarli e sospiri, io nella branda ai loro piedi. Non dormivamo subito, sentivo i miei genitori bisbigliare e discutere i luoghi segreti dove nascondere i pochi ori della famiglia: “Nell’ultimo cassetto del comò, sotto le maglie pesanti, no, meglio in cucina, dentro la pentola di terracotta, sei matto? Il posto più sicuro è sotto la piastrella del bagno che balla.” Poi l’orchestrale russare di mio padre (fagotto e contrabbasso) dava segno che la casa era ormai salpata verso l’accigliata maestà della notte. Io tardavo ad addormentarmi, stavo all’erta percependo i più esigui rumori: gli scarafaggi che masticavano a vuoto, gli uccelli che sospiravano sul davanzale della finestra, finché, da chissà dove, sorgeva l’improvviso ronzio dei quadrimotori alleati in rotta verso i loro mortali obiettivi: Scilla e Cariddi, Roncisvalle, Cartagine… Mia madre era la prima a buttar per aria le coperte, afferrava mio padre per i capelli e lo tirava fuori dal sonno, incurante del fatto che lui, proprio allora, parlava con Dio. Io saltavo in piedi per mio conto e mi rivestivo al buio con gli indumenti che capitavano a caso. Poi la prima bomba. Chissà dove, sull’Atlandide riemerso…? La seconda bomba, sugli Urali rifugio di mammuth? Ma i quadrimotori tornavano indietro: “Ach! Sorry, pardòn, excusè moi! We forgot Magneti Marelli, ja, ja…Magneti Marelli. Yes sir, I bag your pardon! Retromarcia, retromarcia! Yes sir, quickly! !!!” Quella notte del tredici dicembre gli aerei erano in picchiata su di noi, sul palazzone popolare di quattro piani più solaio e cantina dove alloggiavano il signor Simon e famiglia, il signor Trocon e famiglia, i Brioschi, i Merluzzi, eccetera, eccetera…dove alloggiavo io, mia madre, soprattutto mio padre, il cottimista delle mine anticarro Magneti Marelli. (più di cento spolette all’ora. Vedi segreto rapporto della Raf inglese! Yes sir!!) Il casamento era scosso da forsennato risveglio. Ogni famiglia scappava dal suo abitacolo precipitandosi verso le cantine rifugio. Tutti giù, pallidi e discinti, schiacciati sulle panche, tutti svegli, gli occhi negli occhi a domandarsi cosa sarebbe accaduto. Maria Vergine, Maria Santissima! Sentivamo crollare le case, gente invocare aiuto, cani piangere ed abbaiare. Chi sarebbe morto prima, chi sarebbe scampato? Nessuno, nessuno si salverà! Le donne pregavano a voce altissima per ammutolire gli schianti del bombardamento: “Ave Maria gratia plena, hanno colpito lo scalo merci, Dominus vobiscum , è venuto giù l’acquedotto. Kyrie eleison…il mezzanino delle biciclette è in fiamme!” Le madri abbracciavano i figli, i padri davano pugni ai muri, i figli più grandi si scambiavano le figurine dei dadi Liebig. D’improvviso si era dischiusa la porta della cantina per lasciare entrare la ritardataria famiglia T. Il signor T. severo, naso a becco d’aquila, occhiali d’oro, impiegato di concetto, unico cervello del palazzo, scarpe sempre lustre, anche quella notte calzature brillanti come non si erano mai viste, (era sua moglie che s’inginocchiava ai suoi piedi con lucido e spazzola?) La signora T. Lucilla T. mani gonfie di geloni, al collo il cammeo della madre morta. La figlia Licia, filo d’erba, sulle spalle due ali d’angelo, tanto leggera da non toccare terra, luminosa nonostante si stringesse nelle braccia conserte. Ma non altera, piuttosto assente tanto i suoi occhi risiedevano lontano, in qualche città portuale dei libri di Jack London. Lei era di una classe avanti a me, aveva dieci in latino ( io sei meno meno), aveva i pattini, aveva un gatto che si chiamava Fifì, gli alberi si inchinavano al suo passaggio. Si era avvicinata a me, mi aveva chiesto di farle posto sulla panca, io avevo preso fuoco e con la mano che balbettava per la trepidazione avevo spazzolato il legno dove lei si era posata come una foglia che cade. Era il tredici dicembre del 1944. Soltanto molti, moltissimi anni dopo, casualmente, venni a sapere che Licia T. era morta suicida. Nessuno, nessuno si salverà!
Bibliografia
Vecchio testamento. Genesi. Distruzione di Sodoma e Gomorra.