“Tu dov’eri?” “In guerra.” “E tu?” “Ti cercavo da un campo di prigionia alll’altro.” Meno male che la vita ricomincia.
Dopo la morte di mio fratello Apollo, Dio aveva tolto la mano dalla nostra casa e aveva posto il silenzio sulla bocca di mia madre. Lei non parlava più se non a cenni. “Fai il segno della Croce.” Avrebbe voluto dirmi, ma stava zitta e con il dito tracciava una croce sul tavolo. “Lavati i denti.” e mi mostrava i suoi denti, uno incapsulato d’argento. “Ripassa la lezione.” e fingeva di picchiarsi in testa per mostrare che io ero una zucca e dovevo studiare per diventare grande. Per il resto si chinava sul proprio lavoro e cuciva, cuciva, cuciva senza badare all’ago che le trafiggeva le dita e, in senso lato, il cuore (Mater dolorosa: in chiesa c’era un quadro dove la Madonna teneva in mano il proprio cuore su cui erano puntati degli spilli). Mio padre copiava da lei, invece di parlare rimuginava. Nell’angolo della cucina, a bassissima voce, mi raccontava storie incredibili, tipo quella di Annibale che aveva passato le Alpi con gli elefanti. Poi, con le mani dietro la schiena, andava su e giù per la casa guardando i muri come se da loro si aspettasse la grazia della resurrezione di mio fratello. Ma i muri non facevano miracoli, anche loro stavano zitti. C’era troppo silenzio nella nostra casa! Non ne potevo più e quando stavo per schiattare mi buttavo in qualche improvviso fracasso. A martellate piantavo chiodi nello sgabello di legno su cui mio padre saliva per prendere i libri sull’ultimo ripiano della credenza. Tac tac tac…! Piantavo chiodi con un fragore da fabbro, chiodi di ogni misura, da quelli corti che conficcavo nel legno con una sola martellata a quelli più lunghi che necessitavano almeno quattro o cinque colpi. Mia madre restava con l’ago sospeso, mio padre si irrigidiva davanti al muro, il rubinetto del lavandino non gocciava più, gli scarafaggi che invadevano la nostra cucina risalendo la tubazione di scarico del lavandino facevano dietro front. Finalmente mia madre si ricordava, oltre del figlio defunto, anche di me e mio padre. Ci chiamava con un cenno e quando eravamo alla sua portata allungava le braccia come ali e con quelle ali ci stringeva fino a toglierci il respiro. Con il poco fiato che restava i miei genitori parlavano: della tessera annonaria, del carbone che non c’era più, ma c’erano mattonelle di paglia pressata che facevano fumo e basta. Soprattutto discutevano del mio futuro. Profetizzavano gli studi che avrei dovuto seguire. Mio padre propendeva per farmi studiare da maestro, mia madre da chimico. Io non ero interpellato. Nel mio intimo mi sarebbe piaciuto fare il cercatore d’oro come racconta Jack London nei suoi romanzi. Comunque mi bastava che fossimo abbracciati e che i miei genitori parlassero: pissi pissi e pissi pissi… “Fratello Apollo” dicevo dentro di me “ fai che il silenzio se ne vada dalla nostra casa.” Finalmente mio fratello mi ascoltò. Era una domenica di giugno e come ogni festività andavamo al cimitero. Era proprio estate nel senso di formose nuvole nel cielo azzurro e di profumo di erba dappertutto. Il cimitero era bellissimo: un giardino con una moltitudine di statue di angeli in mezzo ai fiori. Mio fratello non aveva l’angelo, sarebbe costato troppo, c’era solo la sua foto sulla lapide, una foto dove lui rideva, rideva come un matto, mentre mia madre davanti a quella foto si mangiava il fazzoletto per soffocare i singhiozzi. Mio padre aveva cominciato a strappare le erbe spuntate tra i sassolini bianchi della ghiaia, mia madre passava lo straccio sulla lapide e un fazzolettino pulito sulla fotografia. Io dovevo togliere i fiori appassiti del cespuglio di rose sulla tomba. Allungo la mano, strappo un fiore secco..., non faccio in tempo a scostarmi che un’improvvisa nube viva e fremente sobbalza dal cespuglio.. Forse grilli, maggiolini, farfalle, api, creature alate che insieme si mescolano in un ronzio sterminato che si propaga alle tombe vicine in modo che l’aria si riempie di una vitalità mai vista. Io penso che sia la replica della creazione del mondo. Mio fratello è in mezzo a quel turbine: agita le braccia, grida, aizza quel palpitare, frinire, volare verso il cielo dove le nuvole sembrano un consesso di opulenti matrone che filano, poi fanno la calza, poi chiacchierano, poi diventano mucche, poi balene, poi castelli, poi, poi… mi gira la testa e credo di volare. I miei genitori sono basiti, ma non per molto. Prima si scuote mia madre, poi si scrolla mio padre che si butta nelle braccia di lei e lei lo riceve a braccia aperte. Finalmente ritrovati dopo tanto tempo, persi chissà dove: “Tu dov’eri?” “In guerra.” “E tu?” “Ti cercavo da un campo di prigionia alll’altro.” Meno male che la vita ricomincia. che loro si accarezzano, che mia madre toglie qualche bruscolo dalla camicia di mio padre e che lui è felice. Parlano, parlano del mio futuro. Discutono, insistono, negano: “Sarà un maestro!” “No, sarà un chimico!” “Maestro!” “Chimico!”. Sono ad un soffio dal litigio pur continuando a restare abbracciati. Per fortuna interviene mio fratello: “Sarà un maestro chimico!”. Così è stato. A tempo debito mi sono iscritto all’istituto di chimica industriale Ettore Molinari in piazza Vetra a Milano e nello stesso tempo ho cominciato ad imparare a memoria la Divina Commedia, che tutt’ora conosco a menadito, caso mai si presentasse l’occasione di fare il maestro, anche come supplente, anche in una scuola di montagna dove d’inverno la neve sigilla le strade così sarei costretto a mangiare e dormire nello sgabuzzino dei bidelli dove nessuno verrebbe a distogliermi dai romanzi di Jack London. Nessun rumore nella scuola deserta! Un grande silenzio.