“Tu mi sogni?” L’amata diventa di fuoco. Non dirà mai che razza di sogni sospirano nella sua camera da letto. Ovunque, per la platea, dove siede un’amata compagna ardono improvvisi falò.
C
ari lettori, va in scena il secondo atto della Traviata, un’opera sui generis appena presa in considerazione da Giuseppe Verdi mentre era costretto a letto da un brutta pleurite. A letto, col gatto sui piedi per tenersi al caldo mentre fuori nevicava. Violetta va avanti e indietro sul palco torcendosi le mani. Due passi e una sosta, due passi e una sosta e in punta di violino canta la romanza “Sogno d’amore” “Sogno d’amore ?” “Sì, Sogno d’amore.” “Ma questa romanza non è nella Traviata. E’ un pezzo di Franz Liszt: Liebestraum” “Ah no?” “Nossignore!” “Che importa, questa sera, in questo teatro, la nostra soprano canta Sogno d’amore.” Cala il sipario. Qualche spettatore si frega le mani e si accosta all’orecchio della sua amata compagna: “Tu mi sogni?” L’amata diventa di fuoco. Non dirà mai che razza di sogni sospirano nella sua camera da letto. Ovunque, per la platea, dove siede un’amata compagna ardono improvvisi falò. La maschera accorre con un secchio d’acqua finché tutte le fiamme sono spente. Si alza il sipario. Nuova scena. Violetta è seduta davanti alla toilette e immerge le sue nude braccia in un secrétaire di bijoux: anelli, orecchini, collane, braccialetti, spille, astucci di ciprie, rossetti e trucchi in un brillio di vetri e ottoni perché tutto è cianfrusaglia. prova e riprova, si trucca, si strucca, si allaccia le collane, si appende gli orecchini, si guarda nello specchio: no, no così non va. Tira fuori la lingua, si sberleffa, vuole male a sé stessa, finalmente si aggiusta due turcheschi fermagli d’argento. Sì, sì così va bene. Leva il viso, superbamente scuote la testa. Gli orecchini tintinnano, il loro suono si propaga, circonda la cantante, scivola per il palco e di là precipita nella platea ammutolendo il pubblico che da quel rimbombo cerca scampo tirando i piedi sulle sedie. “Aiuto, aiuto!” Il suono degli orecchini trottola, traballa, non sta rinchiuso nel teatro, spalanca gli oblò, apre le porte, via, via, fuori nella piazza dove il vento turbina e accoglie a braccia aperte il subisso argentifero: “Dove andiamo?” “Sulle colline!” E’ una folata. Vento e tintinnio fuggono, lasciano la città, salgono di gran corsa il pendio folto di ulivi che torcono i rami, frusciano le foglie, sfollano gli uccelli che traslocano dai nidi verso le scale del cielo. Che cielo stellato! Gli astri risuonano in coppia con gli orecchini di Violetta. Cielo, cielo stellato! Sul palco piovono code di comete mentre Violetta canta Il sogno d’amore. Fine della scena, cala il sipario. Il professore è riuscito a rientrare ma ha dovuto pagare una mancia alla maschera. La trattativa non è stata semplice. Il professore ha offerto una cifra, la maschera ha preteso il doppio. Si sono accordati su una via di mezzo, più la penna stilografica del professore, ma lui ha dovuto sistemarsi dietro le quinte, tra le macchine teatrali a ridosso del meccano che mette in scena i temporali. Con pochi giri di manovella la macchina produce fulmini, tuoni e scosci d’acqua, anche finestre che sbattono e gatti che fuggono. Per il vento c’è una lunga manica di tela che sale fino al tetto e di là s’ingolfa nella vera buriana che incessantemente impazza sul teatro. Il professore è accolto dal giovane macchinista. Il ragazzo è seduto e scrive sul quaderno che tiene sulle ginocchia. Il professore è in piedi alle sue spalle e sbircia la scrittura. “Cosa scrive?” Per capire è costretto a piegarsi sul giovane. Così può leggere. Il suo sguardo scorre le righe ed il suo cuore tumultua. Legge ciò che lui stesso ha scritto in gioventù, parola per parola. Come se il ragazzo fosse la sua copia. “Un dì s’io non andrò sempre fuggendo…” “Ma cosa leggi? Questo è il Foscolo!” Il professore si scusa, ha preso lucciole per lanterne. Una lacrima spunta nei suoi occhi, gli scivola sul viso, e cade sul quaderno. La scrittura annega nella lacrima e si scioglie in un microscopico mare azzurrastro. Il giovane si volta sorpreso e incontra gli occhi del professore. I due sguardi si abbracciano: padre e figlio? “Cosa scrivi?” domanda il professore. “Non lo so, è la mia mano che scrive.” “Chiedi alla tua mano.” “Neppure lei lo sa. Lei segue il comandamento.” “Chi comanda?” Il giovane alza un dito. I due guardano verso il buio soffitto. Chi comanda è lassù. Il professore si rivolge alla propria mano destra. Vorrebbe interrogarla, ma è trascorso troppo tempo dalla sua ultima pagina scritta. Troppo, troppo tempo. Ora la sua mano non scrive più. La sua mano trema e quando solleva la chicchera del caffè, il caffè trabocca e gocciola sulla camicia del professore. “Sudicio, vecchio maiale!” Il professore è atterrito. Chi grida? C’è una macchina per fare le grida del passato. Intanto, sul palco, Violetta gioca a carte. Fa un solitario. E’ uscito l’asse di cuori. Povera Violetta, quanta malinconia! Fine del secondo atto. Arrivederci alla prossima puntata. Mi raccomando: scarpe ben lucide e una goccia di parfum sul fazzoletto da taschino. La Traviata gradirà!