E fuori, contro i vetri delle finestre, si affollano i più gagliardi venti: lo scirocco delle steppe spinge il ghibli del deserto, la tramontana delle Alpi balla con l’aliseo artico, il libeccio trottola su sé stesso.
Martedì, ineffabile giorno quindici del mese di ottobre, uno stralunato buffo di vento fuoriuscì dalla cappa del camino scompigliando barba e capelli del Professore e, con subitanea giravolta, precipitandosi sui fogli del teorema di Pitagora, noto come equivalenza dei quadrati e dei triangoli, soffiò la risma delle pagine che surse dal tavolo ed aleggiò nell’aria infine adagiandosi qua e là sul pavimento, sulle mensole, sulla credenza dei piatti e bicchieri, nonché sul cucito ove Madama aveva posato il capo vinta dal sonno – sogno in cui era inabissata e dal quale non voleva, a nessun costo, uscire poiché, in quella fantasticheria, il professore urgentemente la stringeva al petto interrogandola bocca sulla bocca: “Mi ami?” “Come?” “Ti ho chiesto se mi ami ancora?” E lei scoppiava a ridere, un riso da paradiso che si arrampicava dal più profondo del profondo di sé stessa: ”Mais, oui je t’aime toujours” e per giunta giurava che sì, che certo, che in ogni modo e maniera lo amava, lo inzuccherava, lo stirava e lucidava superlativamente, nonostante gli anni trascorsi, i dispiaceri intervenuti, gli oblii occorsi, i dolori dappertutto specie alle gambe, lo amava nonostante il vento invernale che arruffava le nuvole, sbatteva gli alberi, gridava nella notte impaurendo il cuore di lei che non riusciva a prender sonno, mentre lui, stretto a lei, russava della grossa, non avendo altra cura che la digestione dell’oca cucinata la sera prima con contorno di patate, da lui gradita in doppia dose che avrebbe triplicata se lei non avesse levato a diniego l’indice della mano, cosicché lui aveva obbedito strofinandosi la bocca da destra a sinistra e viceversa e, levatosi adagio dalla tavola e fatti i due passi, che a sera tarda sono un pellegrinaggio, era giunto alla seggiola accanto al camino per immergersi nella beatitudine dell’Eneide di Virgilio passando e ripassando il capitolo più amato dove il timoniere Palinuro, ingannato dal sonno, precipita nel mare sciogliendosi come sale nell’acqua, poiché di lui nulla era mai stato rinvenuto, né fibbia, né stringa, né medaglia di bronzo con l’effige della donna amata.
Il giorno seguente, l’ancor più ineffabile mercoledì 16 ottobre, nel tardo pomeriggio, il Professore e Madama si recano all’ospizio comunale, aula quinta, in fondo al corridoio, dove lui siede alla cattedra e lei sullo sgabello accanto in attesa degli studenti iscritti al doposcuola pitagorico.
Alla spicciolata, uno dopo l’altro, giungono gli attempati discenti: chi tanto curvo da doversi sostenere con la stampella, chi orbo, accompagnato da grosso Fox Terrier, chi in pantofole, altri in vestaglia, altri incerti come se avessero dimenticato dove andare e tra questi, i più audaci, tenendosi l’uno alla martingala del cappotto dell’altro.
Finalmente, tutti seduti ai banchi, Madama controlla che le ampie finestre siano ben chiuse essendo annunciato un ventaccio in arrivo dai monti Urali, o, chissà, dalle Ande della Terra del fuoco. In ogni modo il professore con la stecca di gesso alla mano, volta le spalle alla classe ed inizia la lezione disegnando sulla lavagna un triangolo rettangolo.
“Ecco!” sentenzia voltandosi verso gli studenti: “Che cosa è questo?” “Un triangolo rettangolo” “Nossignori!” “Come, non è un triangolo rettangolo?” “Assolutamente no!” “E allora cos’è?” A quel punto si leva Madama “Ma come, non l’avete riconosciuto?” “Madama no!” La donna lascia cadere le braccia e levando gli occhi al cielo avvampa di rossore: “È l’amore!” “L’amoreee?” “L’amore!” Gli studenti sono annichiliti: “Ma come?” “Il triangolo rettangolo?” “Pitagora? Possibile anche Pitagora?” “Ed allora Euclide?” E già qualche vecchio studente cerca la mano di qualche vecchia studentessa e qualche vecchia studentessa lascia penzolare la propria mano come un’esca per le trote.
E fuori, contro i vetri delle finestre, si affollano i più gagliardi venti: lo scirocco delle steppe spinge il ghibli del deserto, la tramontana delle Alpi balla con l’aliseo artico, il libeccio trottola su sé stesso. Solo il grecale sta impassibile guardando esterrefatto il triangolo sulla lavagna, poiché, lui, unico tra i venti, non ha ancora conosciuto l’amore.
È per pietà del grecale che Madama corre alla finestra, la dischiude quel tanto che basta ai venti per intrufolarsi nell’aula e abbattersi sui titubanti studenti che vagano di qua e di là, si scontrano, si respingono, si incontrano di nuovo, abbracciandosi, sospirando e strillando, taluni contando fino a cento, tali altri rispolverando vecchie orazioni, tutti infine balbettando: “Per l’amor del cielo!” finché il professore gira l’interruttore e spegne la luce.
Ed è giovedì diciotto ottobre, poi venerdì diciannove, quindi sabato venti e domenica e il giorno dei santi e dei morti, e Natale, e Pasqua, e il solstizio d’estate, e quello d’autunno, e cadono le foglie, e poco dopo nevica, e ghiaccia sugli alberi in forme cristalline, nominate galaverna dalle stelle che incredule di tanta bellezza si spengono per ripicca. Cosicché fa buio, buio pesto come nel letto del professore e di Madama quando lei sospira e interroga se lui dorma, o sia ancora sveglio, e poiché lui è desto più della luna piena, lei e lui parlottano della gente che conoscono, dei libri letti, dei ricordi di quando erano giovani e avevano una casa sul fiume, ma, a quel punto tacciono perché si sono avvicinati troppo al pensiero di quando non ci sarebbero stati più ed è indecifrabile chi dei due se ne sarebbe andato prima. Parlano, parlano finché, senza quasi averne contezza, diventano tutt’uno, essendo il quadrato costruito sull’ipotenusa tale e quale i quadrati costruiti sui lati come ha lasciato detto Pitagora di Samo nell’anno 570 avanti Cristo, o giù di lì.
Busillis:
Virgilio, Eneide, Libro quinto
O nimium caelo et pelago confise sereno,
Nudus in ignota, Palinure, iacebis arena!
“O troppo fidente nel mare e nel cielo sereno!
Nudo su ignota spiaggia giacerai, Palinuro!”