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Sono caduto in ginocchio raspando la terra con le mie mani intirizzite. Che terra nera! Te ne ho portato una manciata. Ecco qua, terra della valle di Giosafat: carbone d’alto forno, vera antracite.

Ssst…mio abatjour della notte non aprire gli occhi, non svegliarti. Questo è un sogno, un sogno vero. Ssst…sono accanto a te, seduto sulla poltroncina di legno che avevamo comperato nel negozio dei mobili usati della vecchia Fanny, quando siamo andati a vivere in campagna. Avevamo comprato anche il tavolo, il comò con la specchiera. Il letto no, il letto era stato un regalo di tua cugina Clara.

Sono tornato per ringraziarti per tutto ciò che sei stata per me, per la tua vita che hai messo nelle mie mani e che io ho lasciato cadere perché le mie mani sono fragili come rami d’inverno. Avrei dovuto resistere, battermi contro vento, col cappello calato sugli occhi e le braccia strette al petto. Non ne sono stato capace: il vento mi ha sradicato senza che io avessi modo di mettere ordine intorno a me.

Mettere in ordine le mie scarpe nello sgabuzzino delle scope e degli stracci. Mettere in ordine i miei abiti nell’armadio in camera da letto. Piegare e appendere bene i miei vestiti che tu hai cucito, stirato, accarezzato. I bottoni..? I bottoni, che tu hai rinfrancato, il filo dei bottoni che tu hai spezzato con i denti dopo l’ultima gugliata.

Ora non ho più un bottone. Li ho ceduti, come lasciapassare, ai militari della dogana. Irsuti come cinghiali, mi interrogavano con le lanterne sbalzate contro il mio viso: “Chi sei tu? Da dove vieni? Dove vai? Perché hai il cappotto rivoltato?”

“Il cappotto rivoltato..?” Non mi ero accorto di avere addosso il cappotto rivoltato. Cosa era successo?

“Io, io non lo so”

“Come non lo sai!”

I militari mi dondolavano le lanterne in faccia come se volessero bruciarmi gli occhi: “ Come non lo sai, sai, sai, sai…?”

Ho lasciato a loro tutti bottoni dei miei abiti. Li ho strappati uno per uno. I doganieri hanno intascato i bottoni, mi hanno dato uno spintone facendomi ruzzolare nell’aldilà. “Kaputt, Kaputt!” gridavano e ridevano sbattendo i loro denti di ferro.

Sono caduto in ginocchio raspando la terra con le mie mani intirizzite. Che terra nera! Te ne ho portato una manciata. Ecco qua, terra della valle di Giosafat: carbone d’alto forno, vera antracite.

Prendi questa polvere in cambio del volume dell’Eneide che avevi lasciato per me sul comodino e che io mi sono portato via quando sono svaporato del tutto, dopo i  bisbigli dei parenti che in punta di piedi erano venuti a salutarmi per l’ultima volta. “Che bel viso “ dicevano i miei cari  “e che baffi, sembrano code di topo. Come se fosse vivo.”

L’Eneide mi è stata utilissima  all’ufficio anagrafe dove mi hanno sottoposto a nuovo interrogatorio: “My Lord, cappotto rivoltato? Tu ti vuoi camuffare!” mi inquisiva il capataz dell’ufficio tirandomi per la cravatta. Per tutta risposta gli ho letto in faccia, a voce  stentorea, una pagina dell’Eneide e lui, come pulcino bagnato, si è tolto il cappello, ha chinato la testa lasciando spegnere, tra le bolle di saliva sulle sue labbra, tutte le domande protocollo: “Chi sei? Dove vai?” eccetera eccetera.

Ora che ho superato dogana e ufficio anagrafe  posso finalmente andare. Già? Andare dove? Qui non c’è nessun cartello, la valle di Giosafat è il più grande deserto del mondo. Qui sono passati tutti, ma in terra, in questa polvere di carbone, non c’è nessuna impronta.

Mi viene in mente quella volta quando ci eravamo persi sulla riva del mare. Avevamo tanto camminato da smarrire ogni riferimento della strada. “Dove siamo, dove mai siamo finiti?” Intanto veniva sera. Non c’era nessuno, proprio nessuno e le nostre mani che si cercavano e si stringevano erano di ghiaccio. Camminavamo a casaccio, andando a zig zag sulla riva tra il fragore delle onde che ingrossavano ed il buio delle ombre che salivano dal mare.

Poi, d’un tratto, era apparsa al largo una luce: il faro di un nave. Ci eravamo fermati, stupiti da quel chiaro che ballava sulle onde. Nonostante il rimbombo  della risacca ci era parso di sentire qualcosa come un suono che veniva a respiri da quel natante. Musica? Sì, sì. Sulla nave facevano musica.

Quanto tempo è passato da quando hai lasciato l’Eneide accanto alla mia anima distesa sul nostro letto? La mia anima che tu stessa avevi rivestita con i pantaloni a righine, la camicia bianca col collo inamidato e i gemelli di madreperla ai polsini, la giacca a doppio petto, le scarpe che avevi lucidato per l’ultima volta. Infine il mio cappotto! Il mio cappotto col collo di pelo e la

martingala…

Mi viene da piangere nel ricordare come, ad un certo punto, mentre mi abbottonavi il cappotto, sei insorta contro la mia dipartita. Ti sei impennata, hai sciolto il nastro dei tuoi capelli e con le  mani salde come chiodi infissi mi hai tolto il cappotto e, di punto in bianco, me lo hai rimesso addosso rivoltato, con la smagliante fodera verde bene in vista come un paludamento reale.  

Singhiozzavi, piangevi: “Tu non sei come gli altri, tu sei un uomo speciale. Nell’aldilà, tutti, alla prima occhiata, si stupiranno del tuo cappotto rivoltato e ti riconosceranno come un soggetto esemplare, una specie di re d’Inghilterra o zar delle Russie.”

Molto bene, mio abatjour della notte. Tutti dovrebbero

togliersi il cappello al mio passaggio. Togliersi il cappello davanti a me che vado impettito dentro il cappotto rivoltato, smagliante per la fodera di seta verde smeraldo. Nessuno dovrebbe azzardarsi e chiedere: “Chi sei, dove vai?” ”Io sono quel che sono e vado in cerca di lei.”

Sì, mio abatjour della notte, in cerca di te che ancora mi aspetti davanti al mare, in vista della festosa nave che passa a fumaioli impennacchiati: brillano le luminarie, suonano, ballano, stappano lo champagne, gettano in mare corone di fiori, si abbracciano, si baciano…

           

“Chi sei, da dove vieni?”

“Chi sono? Sono Enea. Dove vado? Vado, vado…dove vado?”

 La voce mi si spegne in gola… il sogno è finito.

Virgilio, Eneide, Libro II

Lungo esilio ti aspetta, tanto mare da solcare:

E alla Terra verrai del Tramonto, dove l’etrusco

Tevere scorre tra fertili campi con lenta corrente.

Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum:

Et terram Hesperiam venies, ubi Lydius arva

Inter opima virum leni fluit agmine Thybris

 

20150113 valigia dei libri 064

Gli autori di Vorrei
Adamo Calabrese
Adamo Calabrese

Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore. Ha pubblicato con Einaudi il romanzo "Il libro del re", con Albatros i libri di racconti "L'anniversario della neve", "La cenere dei fulmini", "Il passaggio dell'inverno", con Joker "Paese remoto". Ha illustrato i propri libri ed edizioni di Dante, Gibran e Pascutto. Scrive e disegna per il quotidiano "Il cittadinio" di Lodi, per le riviste "Vorrei" di Monza e "Odissea" di Milano. I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e Iacopone. Nel 2012 RAITREha trasmesso un suo testo. Nel 2014 è stato finalista del premio internazionale di grafica satirica "Novello". Insegna letteratura presso le Università della terza età di Sesto san Giovanni e Milano (Università Cardinale Colombo)

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.