Con le scarpe in mano aveva disceso la scaletta scricchiolante, sussurrando una “madonna” ad ogni sospiro dei gradini. Con le scarpe in mano si era calato in cucina dove l’aspettava la cartolina del re con l’ordine di presentarsi domani alla caserma più vicina
Quando soffia il vento di marzo l’Angelo di Dio si desta dal letargo e leva l’indice verso i pissi pissi delle stelle primaverili. Si scioglie il ghiaccio siderale e il buio diventa trasparente come il vetro della finestra su cui poso la fronte per lo struggimento dei ricordi.
Un tempo, e non so più di quale tempo si tratti, tanto è il tempo trascorso, la casa dei miei nonni arcuava la sua gobba di gatto e sbadigliava spalancando la bocca irta di pentole, stoviglie e sedie spagliate. Solo la “Bibbia” e “L’Orlando furioso” nello scaffale dei santini di gesso, non battevano ciglio, corrucciati con la ruga profonda in mezzo alla fronte. Non ardivano fiatare avendo annusato l’infausto ronzio dei bombardieri inglesi. Le vespe della morte avevano già passato la Manica, trasvolato la Francia, scavalcato le Alpi, imbucata la rotta sopra Ventimiglia, la Mortola, e a capo Noli avevano sterzato verso il retroterra per piombare a Pavia sulla facoltà di chimica della università segretamente intenta alla nuova polvere da sparo nominata “Fumo di Londra”. Ma
essendo già le due di notte, i laboratori erano spenti e gli scienziati rincasati pedalando in fretta sulle bici senza fanali per paura del coprifuoco.
I quadrimotori della RAF, avevano chiamato in patria: “Churchill che facciamo?” “Dove capita capita!” Era stata la risposta e le fortezze volanti avevano ripiegato sui coltivi di riso del pavese: Belgioioso, Villanterio, Gerenzago, per finire in picchiata sull’orto di mio nonno Siro, bombardando la lattuga, il cicorietto, i fagioli, i pomodori, perfino le patate sfollate sotto terra in casa delle talpe. Senza scampo il gallo, ritto col becco verso l’Inghilterra, i bargigli tremanti di collera, l’occhio livido di fulmini. E le galline? Povere ovaiole in cerca di un buco dove sprofondare, così le oche col mal di testa a furia di girare su sé stesse, col becco intruso a piluccare i pidocchi rifugiati tra le penne con le poche lire risparmiate lungo una vita di stenti proprio da pidocchi.
Colpito in pieno anche il cane Tobia, orecchio finissimo, reo di aver percepito le bestemmie di Winston Churchill mentre caricava le bombe sulle fortezze volanti ed una pillola di quelle, al fosforo pentavalente, gli era scappata di mano rotolando sul suo piede gottoso, da veder le stelle. Ma il gatto Miao non si era accorto di niente tanto pisolava in fondo al letto dove, pur col timor di Dio, lo zio Ivo e la zia Adelina celebravano la loro prima notte di sposi consacrati: Finché morte non vi separi.
Non si era accorto di niente il gatto Miao, neppure quando lo zio Ivo, dopo aver dato l’ultimo bacio alla sposa che russava, era scivolato dal letto e in punta di piedi, scalzo sulle mattonelle gelate, aveva raccolto i suoi panni sparpagliati nella furia di cavarseli la sera prima, mentre, al contrario, le vesti della zia erano pudicamente piegate sulla panca, composte come petali di rosa aulente. Nel buio cieco lo zio Ivo si era ficcato addosso le stoffe alla spavalda: la maglia sopra la camicia, le braghe dietrofront, il gilet a bottoni dispari, in testa il berretto di sbieco per fare in fretta, senza svegliare nessuno.
Con le scarpe in mano aveva disceso la scaletta scricchiolante, sussurrando una “madonna” ad ogni sospiro dei gradini. Con le scarpe in mano si era calato in cucina dove l’aspettava la cartolina del re con l’ordine di presentarsi domani alla caserma più vicina: “Viva l’Italia!” Che fare? Povero zio Ivo! Svegliare la zia Adelina, baciarla ancora, sussurrarle: Addio, mia bella addio..? Scappare, dove? Di là dal Po? Su per le colline di Broni? Renitente alla leva? Disertore?
Il podestà e le camicie nere erano già alla porta, scalciavano, bestemmiavano, si arrampicavano sul tetto per calarsi dal camino. Che fare? Lo zio Ivo aveva schiuso l’uscio e nello spiraglio si era presentato come un fantasma. “Chi sei?” “Sono io.” “Io chi?” “Io di me…” “Ah, sei tu!” “No, non sono nessuno.” Il poveraccio straparlava. L’avevano preso per il collo e spinto sul trattore già stipato di commilitoni pallidi come la morte e come la morte taciti per il magone che li strangolava da non poter urlare aiuto, aiutooo!
Povero zio Ivo! Il trattore l’aveva scaricato davanti alla caserma per il vaccino contro gli scarafaggi: febbrone a quaranta! Poi, via col treno cambiando tradotta ad ogni binario bombardato. Il Po deviato nel Panaro, Bologna sparita, la torre di Pisa puntellata con le stecche da biliardo. Con le ossa rotte era giunto a Brindisi affollata di topi di giorno e pipistrelli di notte. Là si era imbarcato sull’incrociatore Littorio. Col mare mosso aveva vomitato anche le budella, ma finalmente aveva posto il piede in Africa: l’Affrica…! Dio, Dio! mai vista tanta sabbia. Sabbia e vento da non poter aprire bocca per non venir soffocati dal polverone, e cavalli con la gobba detti dromedari, con due gobbe detti cammelli. Quindi a piedi sotto un sole di fuoco: avanti march! Un due, un due, un due… senza mangiare e senza bere fino alla mitragliata, che nessun se l’aspettava tanto c’era silenzio. Chi aveva sparato? Il generale Montgomery? Rommel, la volpe del deserto? il Negus Menelik? Qualcuno che andava a caccia? Ma dove credeva di essere, nelle risaie di Gerenzago? Nessuno, non aveva sparato nessuno. E’ passato troppo tempo. Chi si ricorda? C’è solo una lapide sepolta nella sabbia, tra le tante lapidi nel cimitero di Giarabub: Zio Ivo, riposa in pace.
Ed io stacco la fronte dal vetro trasparente per non ricordare: meglio solo che accompagnato dai fantasmi.
Bibliografia: Capitano Mario Meticolosi Cimici e pidocchi nella guerra d’Africa. Compendio di studi balistici Pinerolo, 1953