Le quattro del mattino! E’ l’alba. Il fuoco sui monti non c’è più. Menippo ha fatto un brutto sogno, si stropiccia gli occhi. Gli scarafaggi? Spariti! All’ora dovuta si presenta nell’aula. Davanti a lui una classe di svogliati
Menippo, il maestro di aritmetica, è scampato alla distruzione di Troia. Si è nascosto nell’armadio dei vestiti e non ha fiatato finché gli incendi si sono spenti e le urla degli achei sono cessate. Silenziosamente è sgusciato dall’armadio e coperto dal suo lungo cappotto invernale si è avviato verso i monti. Va da un villaggio all’altro offrendosi come supplente. Sulle spalle e sul davanti ha appeso un duplice cartello con la scritta: “Aritmetica e fisica.”
Cammina, cammina si ferma davanti al municipio di un operoso villaggio. Pazientemente aspetta finché il Podestà si affaccia al balcone: “Chi sei?” “Menippo.” “Cosa vuoi?” “Qualche supplenza: aritmetica, fisica, anche botanica, anche rebus…” “Indovinelli?” “Sì, indovinelli. Cosa c’è dopo la morte?” Il Podestà non lo sa né vuole saperlo, quindi taglia corto: “Quanto vuoi per supplenza?” “Vitto e alloggio. Un po’ di riso, qualche patata bollita. Per dormire posso accomodarmi dentro la scuola.” Giustappunto la maestra di matematica è in licenza matrimoniale. “Affare fatto!” conclude il Podestà.
Menippo può dormire nel ripostiglio dove i bidelli tengono le scope. Certo deve adattarsi, la scuola passa solo mezza candela al giorno e lui può leggere non più di un’oretta dopo il tramonto. Menippo accetta. Da leggere non ha che le lettere di Agaste che del resto conosce a memoria: “Caro, caro Menippo, ti scrivo con la mano che trema perché questa mano desidera accarezzarti, cioè vorrebbe, magari fosse possibile, dunque se io, se tu… la mano che trema, il cuore che sbatte, vorrei, vorresti…caro, caro Menippo …” Basta, basta! Menippo ripiega la lettera e la ripone con le altre nella borsa dove custodisce i suoi libri.
Nel buio che segue al tramonto Menippo si accuccia nella branda e si tira le coperte fin sopra la testa. Chiude gli occhi e aspetta il sonno che tarda. Mezzanotte, l’una di notte, le due di notte…qualcosa striscia sul pavimento: zampette, antennucole…scarafaggi? “Giove Olimpico fa che non siano scarafaggi!” Di nuovo silenzio: gli scarafaggi si sono accomodati nelle sue scarpe? Le tre di notte. Fra poco sarà chiaro. Menippo sporge il capo dalle coperte e sbircia verso il finestrino che ha di fronte. Sì, c’è un barlume, un alone rossastro. Fuoco sui monti, grida ? Menippo tende l’orecchio mentre il suo cuore accelera.
Un altro incendio crepita nella sua memoria: gli achei saccheggiano Troia: urla, strepiti, crolli, fiamme, fumo. Lui si precipita in strada, corre verso la casa di Agaste. In ogni dove gente disperata, nemici inferociti. Pirro mostra orgogliosamente la testa di Priamo. Menippo sbanda come un uccello che ha perso la rotta. Agaste gli corre incontro! Menippo! Agaste! Si gettano l’uno nelle braccia dell’altra, ma le braccia di Menippo si congiungono sul suo petto: fantasmi!
Le quattro del mattino! E’ l’alba. Il fuoco sui monti non c’è più. Menippo ha fatto un brutto sogno, si stropiccia gli occhi. Gli scarafaggi? Spariti! All’ora dovuta si presenta nell’aula. Davanti a lui una classe di svogliati: chi si caccia le dita nel naso, chi salta sui banchi, chi fa correre topi. Menippo non fiata. Sta in piedi, dietro la cattedra, le braccia conserte. Uno scolaro, croste sul naso, gli si fa sotto. Menippo è di sasso. Il ragazzo leva una zampa e tocca il maestro. Menippo non batte ciglio. Il ragazzo è stupito: intinge un dito nel calamaio e col dito gocciolante di inchiostro traccia un segnaccio sulla faccia di Menippo. Lui non batte ciglio. Il ragazzo arretra.
Menippo si scuote, prende il suo libro e lo apre. Un libro? Che libro? Gli alunni non hanno libri, quelli che avevano li hanno barattati con krapfen e liquerizie. Inverosimilmente la classe ammutolisce. Menippo a voce alta e solenne legge il teorema di Archimede: “Un corpo immerso nell’acqua…eccetera, eccetera.” La classe a voce alta e solenne ripete il teorema. Menippo e la classe più e più volte ripetono il teorema di Archimede finché, d’improvviso, si spalanca la porta dell’aula e sulla soglia appare il Podestà: “Cosa c’è dopo la morte?” Menippo e la classe si voltano verso il Podestà e all’unisono ripetono il teorema di Archimede. Il Podestà fa dietro- front e richiude la porta: si sentono i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio finché si spengono nella parte deserta della scuola dove sono ammucchiati i libri destinati al macero.
Quando la maestra di aritmetica torna dal viaggio di nozze Menippo lascia il villaggio. Va su e giù per i monti verso altri villaggi. Va per i boschi nutrendosi di miele e castagne. Di notte si rifugia in qualche cespuglio. Le stelle si accendono e gli rischiarano le lettere di Agaste che lui legge e rilegge pur sapendole a memoria.
Infine Menippo giunge sulla vetta più alta del mondo: là si tocca il cielo. Sta ritto sul cucuzzolo, leva in alto le braccia come i rami di un albero. Prodigio! Come un vero albero Menippo spunta rami, foglie, ricci di castagne. Il maestro di aritmetica è diventato un castagno verso il quale accorrono uccelli per nidificare, scoiattoli per arrampicarsi, orsi per grattarsi la schiena. Prodigio!
Dalle rovine di Troia si leva un vento gagliardo. Un vento così forte non si è mai visto. Un vento che vola, che rifà tutto il cammino di Menippo. Un vento che soffia, che invoca il maestro di aritmetica col grido dei temporali d’agosto. Un vento che ha le fattezze di Agaste, stessi capelli, stesso naso, stessa bocca, stesse braccia che si intrufolano tra le foglie del castagno, le accarezzano, le baciano mentre l’albero dondola sulla cima più alta del mondo. “Giove, olimpico!” gridano all’unisono Agaste e Menippo: “Mandaci un fulmine che faccia di noi un solo fuoco!” E il re de cielo, impetuosamente rannuvolandosi, leva la sua mano sovrana.
Bibliografia
Virgilio. Eneide. Libro secondo
Haec ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem
Dicere deseruit tenuisque recessit in auras.
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum:
Ter frustra comprensa manus effugit imago,
Par levibus ventis volucrique similllima somno.
“Creusa, Creusa! Così hai detto e così sei scomparsa.” Pur soffocato dal pianto ancora avrei voluto parlarle. La rincorsi, credetti di prenderla, tre volte l’abbracciai e tre volte le mie mani tornarono vuote al petto, come se stringessi vento, o fumo, o sogno.