I due ascoltatori non sapevano che pensare, per un po’ si erano dondolati sulle sedie finché la donna si era fatta coraggio e aveva levato la mano. Aveva chiesto quale fosse la città ricordata nelle poesie. “Londra.” “Londra?” “Sì, Londra.” “Ci siamo stati anche noi.” aveva aggiunto il vecchio
In nessuna parte del mondo c’è tanta nebbia quanta nella cittadina della provincia agricola attraversata dal fiume che raccoglie nel suo porto le chiatte per il trasporto del grano e dei maiali. Spaventose sono le grida dei maiali condotti a morte. In quelle nebbie G.C. aveva scritto le sue poesie stampate dalla locale tipografia in una serie di volumetti con la copertina blu. I libriccini erano passati di mano in mano suscitando insospettate malinconie. Poesie d’amore? Difficile dirlo.
Certo è evocata una donna, ma di sfuggita come persona intravista nella folla e subito disparita. Un abbaglio, o peggio un inganno?
L’ultima volta che G.C. aveva letto le sue poesie in pubblico era accaduto durante una serale conferenza presso la Biblioteca Civica. Nell’aula vi era solo una coppia di dignitosi vecchi, lui con il cappello sulle ginocchia, lei con un gatto tra le braccia. G.C. leggeva in piedi, muovendo meditabondi passi, ma vistosamente claudicando. Doveva avere qualcosa alla gamba destra. Leggeva con scrupolo, dilatando le pause come se aspettasse la visita di qualcuno in ritardo. Quella giovane donna che a metà della conferenza era entrata con aria furtiva? La donna aveva deposto il suo ombrello accanto all’ingresso ma era subito uscita scuotendo la testa, come se avesse sbagliato aula. L’ombrello era rimasto là. Dimenticanza o proposito? G.C. era rimasto con lo sguardo incollato all’uscita poi, faticosamente era andato a sedersi alla cattedra e sul suo libro aperto aveva deposto le mani. Silenzio.
I due ascoltatori non sapevano che pensare, per un po’ si erano dondolati sulle sedie finché la donna si era fatta coraggio e aveva levato la mano. Aveva chiesto quale fosse la città ricordata nelle poesie. “Londra.” “Londra?” “Sì, Londra.” “Ci siamo stati anche noi.” aveva aggiunto il vecchio: “Avevamo una casa nei sobborghi.” “Sì, sì” aveva ricordato la donna e aveva accarezzato il gatto. “Abitavamo in Grenwich Street,” “Molta nebbia.” Aveva aggiunto il vecchio.” “Molta nebbia.” Aveva ripetuto la donna “Ci torneremo” aveva detto il vecchio e aveva guardato la sua compagna, ma lei aveva bisbigliato: ”No, ormai non ci torneremo.”
D’improvviso scoccò il grido di un uccello notturno. L’aula sembrò restare sospesa in attesa del ripetersi di quel grido. Il gatto era saltato dalle ginocchia della sua padrona e fiutava l’aria. Ma il grido non si ripetè. G.C. tolse le mani dal libro e come se volesse confortare i suoi ascoltatori raccontò dei suoi soggiorni a Londra. Parlò delle rive del Tamigi, del caffè dove andava a far colazione al mattino e della gente che aveva conosciuto. Non era il solo a scrivere poesie, aveva fatto amicizia con uno studioso che traduceva l’Iliade. Allora il vecchio si levò in piedi e disse con veemenza: “Io l’ho letto. L’ho letto tutto. Lo so a memoria.” “Sì, sì!” confermò la donna ed anche lei si alzò. “Sì, sì! Quando eravamo più giovani mi leggeva l’Iliade. A letto, prima di addormentarci e sentivamo i passi di qualcuno nella strada. Qualcuno che veniva ad ascoltare lui che mi leggeva l’Iliade. I passi si fermavano proprio sotto la nostra finestra. Poi quel qualcuno andava via fischiettando. Io spegnevo la luce ed entravo nel sonno come se salissi una scala col tappeto rosso e il corrimano d’oro. Lo scalone di un grand’hotel!” I vecchi tornarono a sedersi: lui col cappello in mano, lei col gatto di nuovo in grembo. G.C. riprese a leggere finché si riaprì la porta dell’aula e riapparve la giovane donna. Portava in mano un berretto di folto pelo, un cappello da viaggio, un viaggio in chissà quali fredde terre. G.C. la guardò e parve sul punto di parlarle. Lei ricambiò lo sguardo e a sua volta parve in procinto di dire qualcosa, invece depose il berretto su di una sedia ed uscì.
G.C. scomparve l’anno seguente. Sul giornale locale era apparso uno anonimo necrologio con la sola scritta: “Dove sei?” Il preside del ginnasio commissionò la commemorazione di G.C. al professor Chiodi. Un vecchio insegnante che scriveva elzeviri di letteratura. Per il conferenziere era stata prenotata una camera presso la pensione “Bellavista”. La cerimonia avvenne nell’aula magna della scuola. L’aula era colma di studenti spavaldamente irrequieti, gli insegnati maschi erano a loro volta distratti come pavoni protesi a circuire le giovani docenti garrule e leziose. Il professor Chiodi si era presentato con abiti disordinati e sporchi di fango. “Sono caduto.” Si era scusato. Qualcuno aveva bisbigliato che avesse bevuto.
In attesa che l’aula gli prestasse attenzione il professor Chiodi restò in piedi, guardando fissamente davanti a sé. Era uno scoglio deserto contro il mare. Finalmente il pubblico tacque. Il professor Chiodi aprì le braccia e sempre guardando chissà dove, a qualcuno invisibile, sussurrò: “Ugo Foscolo…” Gli ascoltatori non capirono, si voltarono in giro stupiti. L’oratore ripeté con voce più alta, come evocando una persona lontana: “Ugo Foscolo, Ugo Foscolo.…” di nuovo smarrimento del pubblico. Chi era andato alla porta dell’aula per sincerarsi che non vi fosse nessuno era tornato facendo segni negativi con le mani. L’oratore lasciò cadere le braccia e parve sconsolato: “Non risponde.” “Chi, chi ?” ridacchiò il pubblico. Il professor Chiodi si frugava nelle tasche. Cercava qualcosa che non trovava. Finalmente un libriccino che sventolò davanti al pubblico rumoreggiante: ”Ssst…” sibilò, ma poiché nessuno si zittì batté il pugno sulla cattedra. Vi fu un attimo di attenzione. L’oratore aprì il libriccino e cominciò a leggere. Leggeva il sonettto del Foscolo dedicato alla morte del fratello Giovanni. Un ascoltatore gridò: “Taci, taci!” Tutto il pubblico gli fece eco: “No, no! Non vogliamo il Foscolo!” L’oratore sospese la lettura. Con la manica della giacca si puliva la bocca. La platea era in completo subbuglio, qualcuno era salito in piedi sulle sedie gridava e agitava le braccia. Altri fischiavano. Il professor Chiodi si protese verso il pubblico e rabbiosamente imitò il verso di un uccello notturno (Lo stesso verso che era echeggiato durante la conferenza di G.C. nella Biblioteca Civica.?) La platea scoppiò in fracasso scomposto. Il professor Chiodi affannosamente si chinò, si tolse una scarpa, si rizzò barcollando e irosamente lanciò la scarpa contro il pubblico. Un silenzio sbalordito gelò l’aula. Un ascoltatore aveva raccolto la scarpa e la mostrava tenendola alta, come trofeo.
Dal fondo della campagna si era levata la nebbia, era giunta in città, aveva avvolto le case, rese ignote le strade e le piazze, cancellato i lampioni ed era entrata nel parco intorno al ginnasio. In breve erano spariti gli alberi secolari, le alte siepi di ligustro, la fontana con la statua di Orfeo che piange Euridice. Inghiottito dalla nebbia spariva anche il pubblico che silenziosamente defluiva dall’aula magna. Sempre più fioche si udivano le grida di chi chiamava ma non otteneva risposta.
Quella notte, nella pensione “Bellavista” dove era alloggiato, il professor Chiodi non chiuse occhio. Si girava e rigirava nel letto inquietato da un diffuso cri cri che brulicava in ogni angolo della stanza: scarafaggi? A tarda ora si levò in preda a timoroso sconforto, lasciò la camera e discese nella reception. Là, sotto un pallidissimo lume fluttuante da un abatjour di alabastro il guardiano notturno leggeva le poesie di G.C. Spaventose urla di maiali si levavano dal porto fluviale.
Promemoria: Ugo Foscolo è morto a Turnham Green, un villaggio nei pressi di Londra. La sua tomba era irriconoscibile sotto un cespuglio di rovi.
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3 ottobre