Rosetta deve occuparsi di far stampare e affiggere sui muri della città il manifesto funebre con l’elogio del defunto e il dove e il quando si sarebbero svolte le esequie, possibilmente nell’aula magna del Ginnasio
Sarpedonte è morto in un soffio, ignaro che la lancia di Patroclo gli ha trapassato il cuore come un improvviso colpo di vento. “Qua, qua, qua!” chiocciano i corvi. Appena in tempo, il Sonno e la Morte l’hanno preso per i capelli, l’hanno legato su una sedia in modo da tenere il busto eretto, come se non fosse spirato. Così imbalsamato lo trasvolano nella fertile Licia, la sua terra, per seppellirlo ai piedi dell’olmo che ombreggia i suoi poveri morti dal tempo dei tempi.
Tutto è pronto per la cerimonia funebre, la lapide scolpita col suo nome e con il suo titolo: “vicepreside presso il Ginnasio della città.”
Il Sonno e la Morte, in punta di dita, depongono Sarpedonte nella sua casa, con cautela lo slegano dalla sedia e lo adagiano nel letto accanto alla sua donna Rosetta che dorme ignara della disgrazia avvenuta. Il Sonno e la Morte risvoltano il lenzuolo sotto il mento di Sarpedonte e gli girano la testa verso la consorte che russa con affabile ronzio sognando la figlia, sposata da poco e andata ad abitare a Sparta dove il marito conduce una fiorente tipografia: sono stati appena stampati i dialoghi di Platone.
Povera Rosetta, chissà quando rivedrà quell’unica figlia, tanto simile a lei: stessi occhi da gatto, stessa lieve andatura come di fogliame pervaso dalla brezza, stessa diligenza nell’apparecchiare la tavola: i piatti con la riga dorata, i bicchieri di terso cristallo.
Lei, Rosetta, non avrebbe certo ostacolato il matrimonio della figlia con il tipografo di Sparta, ma avrebbe preferito che la figlia e suo marito si fossero sistemati nel granaio della casa paterna. Per generare un figlio cosa c’è di meglio che gongolarsi in mezzo ai sacchi di frumento! I topi?
C’è la gatta Adelina. Nessun ratto oserebbe infilarsi là. Rosetta sarebbe stata la discrezione in persona: al mattino, in punta di piedi, avrebbe lasciato, fuori dalla porta del granaio, il vassoio con il bricco del latte, la caffettiera e un fiore appena colto.
Il Sonno e la Morte sono seduti a capo del letto aspettando che Rosetta si svegli in modo da spiegarle, con la dovuta cautela, come Sarpedonte fosse stato infilzato dalla lancia di Patroclo e non ci fosse stato scampo contro il bronzo dell’acheo, con la punta a cavaturacciolo.
E’ quasi l’alba, Rosetta passa da un sogno all’altro e non accenna a svegliarsi. Il Sonno si schiarisce la gola. Macché, la donna sta sognando la sua infanzia perché sulla sua fronte si incide una ruga dritta come un chiodo: si immagina in piedi nella barca, remando controcorrente sul fiume che scorre davanti alla sua casa. Sulla riva invano si sbracciano la madre e la nonna. Rosetta neppure volta la testa: peggio di un ragazzo che scappa di casa.
In ogni modo Il Sonno e la Morte hanno fretta, Achille insegue Ettore sotto le mura di Troia: sta per ghermirlo, caccia una bestemmia, Ettore inciampa, Achille l’ha preso. E’ la fine, Ettore cade in ginocchio, si volta verso il greco, i loro sguardi si incrociano, l’occhio di Achille è come il mare in burrasca, l’occhio di Ettore è come il buio dietro la porta della cantina. Il Sonno e la Morte devono correre là per il più gran funerale dell’Iliade.
La Morte dà un colpo di tosse. Finalmente la donna apre gli occhi, ma si sbianca come uno straccio. Nel letto, al suo fianco, giace il suo uomo con la barba lunga come se non si fosse mai più rasato da quando è partito per l’assedio di Troia. Dieci anni! Rosetta non fa in tempo a raccapezzarsi perché il Sonno e la Morte si chinano su di lei e col dito sulle labbra le fanno cenno di non chiedere niente: loro stessi le avrebbero spiegato tutto ciò che è accaduto sotto le mura di Troia. Sicuro, sotto le mura di Troia! Mentre Patroclo urlava come un ossesso: “Mors tua, vita mea!” ricalcando la sua lancia nel petto di Sarpedonte, e lui, Sarpedonte, ormai più di là che di qua, aveva farfugliato il nome di Rosetta. Achei e troiani, avevano udito il nome di Rosetta e per un momento avevano deposto le armi e recitato il “Requiem aeternam dona eis.”
“Su, su!” il Sonno e la Morte hanno fretta, il funerale di Ettore sarà memorabile, tutti con il capo rasato, la fascia nera al braccio, gli occhi chiusi e le braccia tese per non inciampare perché la strada per gli inferi è mal lastricata e si rischia di precipitare nel buio eterno ancor prima della data stabilita.
Il Sonno e la Morte spingono Rosetta perché si dia da fare per tutte le incombenze che seguono alla morte del congiunto. Lei deve richiamare la figlia che, purtroppo, vive col marito a Sparta, lontano dalla casa paterna e, per di più, essendo già rimasta incinta non può muoversi perché le si sono gonfiate le gambe.
Rosetta deve occuparsi di far stampare e affiggere sui muri della città il manifesto funebre con l’elogio del defunto e il dove e il quando si sarebbero svolte le esequie, possibilmente nell’aula magna del Ginnasio.
Con le lacrime agli occhi Rosetta butta giù la brutta copia del manifesto funebre. La povera donna intinge più volte la penna nell’inchiostro ma le parole non le vengono. Scrive: “Tu, tu…” ma cancella e riscrive “Io e te, io e te…” cancella di nuovo perché la penna s’intoppa quando scrive: “Mio, mio…” Deve intervenire la Morte che le suggerisce di lasciar perdere i sentimenti e scrivere qualcosa di concreto: che numero di scarpe portava Sarpedonte: il quaranta. Che numero il collo delle sue camice: il dodici. Quanti ombrelli facevano parte della sua collezione: più di cento e, uno tra i più rari, era stato usato da Socrate nel suo andare su e giù per le piazze di Atene. Infine deve scrivere il titolo del marito: “Vicepreside” punto e basta. “Solo Vicepreside?” dice Rosetta “Sì, non basta?” dice la Morte. Rosetta s’impunta: “E tutte le poesie che mi ha scritto, quando eravamo fidanzati, quando ci siamo sposati, per non dire di quelle che mi ha spedito da Troia?” La Morte alza le spalle ma Rosetta è testarda, intinge la penna nel calamaio e scrive Vicepreside (poeta). Poeta tra parentesi.
In ogni modo i funerali di Ettore e di Sarpedonte si celebrano nello stesso giorno. Piove a dirotto e l’acqua che scorre nelle gronde sembra piangere disperata. Dietro le bare poca gente, la famiglia di Priamo dietro la bara di Ettore. Rosetta e il preside del Ginnasio dietro la bara di Sarpedonte. La figlia di Sarpedonte ha mandato una lettera: “Caro papà, tutte le storie che mi hai raccontato quando ero bambina…tutte le storie…tutte le storie… Papà sei immortale.”
Iliade. Libro decimosesto