I ruoli di Stati Uniti e Cina in due scenari diversi ma affiancabili, ovvero due luoghi in cui difendere ciascuno i propri interessi.
di Chiara Oltolini
Dal 7 al 18 dicembre scorso si è svolta a Copenhagen la XV Conferenza della parti (Cop15), organizzata nell’ambito della “convenzione quadro” dell’ONU sui cambiamenti climatici. Nella cerimonia di apertura è stato sottolineato come, in assenza della sottoscrizione di un valido accordo che vada a rimpiazzare il protocollo di Kyoto, tra le prospettive future ci siano un’aumentata frequenza di periodi estremamente caldi alternati a periodi freddi con pesanti precipitazioni, la diminuzione di risorse idriche in molte aree semi-aride (quali il bacino del Mediterraneo, gli Stati Uniti dell’ovest, il Sudafrica e il nordest del Brasile), il possibile scioglimento della calotta della Groenlandia con un conseguente aumento del livello del mare di circa sette metri, un aumentato rischio di estinzione per il 20-30% delle specie animali qualora l’incremento della temperatura media globale sia maggiore di 1,5°C – 2,5°C, la previsione che entro il 2020 in Africa circa 75-250 milioni di persone saranno esposti a carenza d’acqua e in alcuni paesi del continente nero i campi per l’agricoltura potrebbero ridursi del 50%. Il protocollo di Kyoto aveva come obiettivo la riduzione delle emissioni dei gas serra del 5,2% (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2012. Era basato sul principio di “responsabilità comuni ma differenziate”: le parti concordavano sul fatto che la maggioranza delle emissioni di gas serra venivano dai paesi industrializzati e le emissioni pro-capite dei paesi in via di sviluppo (PVS) erano ancora relativamente basse; pertanto Cina, India ed altri PVS non erano stati inclusi nelle limitazioni stabilite nel protocollo.
Oggi però le cose sono cambiate: sullo scenario internazionale c’è una nuova protagonista, la Cina. Nel 2008 ha sorpassato gli USA, diventando il paese con la maggior emissione di anidride carbonica, anche se l’emissione pro-capite statunitense è quattro volte maggiore di quella cinese. Da sottolineare, inoltre, che l’80% dell’energia elettrica cinese è ottenuta dal carbone (nessun altro paese raggiunge questi livelli), economico ma il più inquinante tra gli idrocarburi. Dal canto loro, gli USA di Obama hanno promesso di prendere un’iniziativa globale contro i cambiamenti del clima, rovesciando l’inezia dell’amministrazione Bush; tuttavia il 50% dell’elettricità statunitense stessa è generata grazie al carbone ed i consumi dei veicoli americani, che rappresentano il 70% del fabbisogno petrolifero nazionale, sono più elevati in media rispetto a quelli europei e cinesi. La produzione di elettricità determina l’emissione di circa 9,5 tonnellate di anidride carbonica pro-capite/anno negli USA e di 2,4 tonnellate pro-capite/anno in Cina (solo l’Australia supera gli USA con più di 10 tonnellate). Rubin e Tal, due economisti canadesi, hanno pubblicato un report che documenta come dall’inizio del 2000 le emissioni cinesi siano aumentate del 120% (vs un 16% statunitense) e come un quinto delle emissioni globali siano cinesi. Alla vigilia del vertice di Copenhagen la Cina appariva sempre più inquinata e non intenzionata a fermare la sua galoppante economia, temendo squilibri sociali e possibili rivolte in caso di rallentamento; mentre gli USA e l’Unione Europea non sembravano propensi a firmare nessun accordo che non includesse limiti anche per la Cina.
Come ha fatto la Cina in pochi anni a fare una così sorprendente scalata?
Sicuramente un ruolo fondamentale è stato rivestito dall’apertura della politica commerciale di Pechino al continente nero. Basti pensare che solo nel 1999 il volume degli scambi commerciali tra Cina e Africa era di 5,6 miliardi di dollari e nel 2008 è arrivato a 107 miliardi. In pochi anni la Cina ha instaurato con l’Africa rapporti paragonabili a quelli che l’Occidente ha sviluppato in oltre un secolo: si è presentata come partner paritario e desideroso di aiutare gli altri PVS, fornendo ai paesi africani prestiti agevolati, che talvolta sono stati un mezzo di liberazione dalla dipendenza economica dall’Occidente. In cosa differiscono i prestiti cinesi da quelli dell’Occidente? Sostanzialmente vengono erogati senza condizioni politiche, in virtù del principio di non interferenza, ma i progetti finanziati devono essere appaltati di solito nella misura del 70% ad imprese cinesi. Un esempio esemplificativo della politica cinese in Africa è rappresentato dal prestito del valore di 9 miliardi di dollari firmato con la Repubblica Democratica del Congo nel maggio 2008. Il prestito concesso è finalizzato alla costruzione di ferrovie, strade, scuole, dighe ed ospedali, e in cambio Pechino ha preteso i diritti di sfruttamento per le miniere (pari a circa 500 mila tonnellate di cobalto e 10 milioni di tonnellate di rame). Il Congo è un paese ricchissimo di risorse minerarie e naturali, ma proprio questa sua enorme ricchezza si è rivelata un’arma a doppio taglio: per secoli i congolesi hanno scavato solo per vedere i minerali andarsene dal paese e le promesse delle potenze straniere a favore della popolazione locale sono praticamente sempre state disattese. Si può pertanto provare a capire l’apertura dei ministri congolesi verso la proposta cinese.
Tuttavia la Cina non è certo definibile come un partner benefattore: le opere sono state appaltate dalle cinesi China Railway Group e Sinohydro Corp; il prestito è stato gestito dalla Export-Import Bank of China, che rappresenta la maggior fonte di prestiti all’Africa soppiantando persino la Banca Mondiale; spesso le ditte cinesi fanno venire dalla Cina non solo dirigenti e tecnici, ma persino operai per gli appalti ottenuti. Il Fondo monetario internazionale ha criticato l’accordo, perché ha fatto crescere il debito pubblico congolese. Le condizioni di lavoro degli operai e dei minatori congolesi, che perlopiù sono bambini di poco più di dieci anni pagati 3 dollari al giorno, non sono né sicure né salutari: le gallerie fetide ed oscure delle miniere di Likasi, nella regione del Katanga, sono pericolanti e il crollo è all’ordine del giorno; inoltre feci e resti di animali regalano ai piccoli lavoratori colera e dissenteria.
Tuttavia, le critiche levatesi da più parti sono spesso tutt’altro che disinteressate. Prima dell’entrata in scena di Pechino, in Congo tra i protagonisti del commercio delle risorse minerarie e agricole c’erano Ruanda ed Uganda, sempre pronti a trarne vantaggi insieme alle multinazionali, con il benestare di USA, Francia e Gran Bretagna. Di certo le potenze occidentali non potevano e non possono tuttora permettersi di perdere i guadagni e le risorse derivanti dal Congo. Quali sono state dunque le mosse statunitensi?
All’inizio del 2008, con la prospettiva della pubblicazione di un rapporto dell’ONU in cui il Ruanda (roccaforte statunitense in Africa) veniva accusato di ingerenza in Congo per via dell’appoggio fornito al generale Nkunda, gli USA hanno promosso un’intesa tra i Presidenti di Ruanda e Congo. Nkunda era a capo del gruppo ribelle Cndp, il cui obiettivo dichiarato era di combattere l’altro gruppo ribelle presente nel Kivu, ovvero le Fldr, formato dai ruandesi responsabili del genocidio del 1994 rifugiatisi in Congo. Molti hanno da sempre ritenuto che Nkunda godesse dell’appoggio del governo ruandese. Peraltro sia Cndp sia Fldr avevano il controllo armato di alcune delle miniere del Kivu. Secondo l’intesa promossa dagli USA, il Ruanda ha accettato di mollare Nkunda (rinunciando ai benefici economici derivanti dall’appoggio fino ad allora fornitogli) e di definire un’operazione congiunta con le forze governative congolesi contro i ribelli delle Fldr (operazione conclusasi con una decina di ribelli uccisi e circa duecento catturati: un “mezzo buco nell’acqua” praticamente). Gli USA sono riusciti a promuovere l’intesa minacciando di sospendere gli aiuti economici sia al Ruanda sia al Congo, con la Gran Bretagna pronta a fare altrettanto.
In secondo luogo, gli USA si sono prodigati per organizzare un’operazione militare tra l’esercito ugandese e quello congolese contro i ribelli ugandesi guidati da Kony, responsabili di efferati massacri sul suolo congolese. Anche questa operazione si è rivelata fallimentare: i ribelli, probabilmente preavvertiti, si sono dati alla fuga e il campo di Kony è stato trovato deserto. Una possibile interpretazione di queste due mosse americane è che gli USA abbiano cercato di “tenersi buono” il governo congolese di Kinshasa (allettato dalla nuova partnership con Pechino), senza compromettere i ricavi derivanti dallo sfruttamento delle risorse del Nord Kivu e dei grandi giacimenti di petrolio presso il lago Albert (rischio possibile “pestando troppo i piedi” ai vari gruppi di ribelli presenti sul territorio congolese, spesso padroni delle miniere). A proposito di petrolio, nel 2004 la Cina ha finanziato l’Angola per 4,9 miliardi, pretendendo in cambio l’appalto del 70% delle opere a ditte cinesi e concessioni minerarie o petrolifere; altri paesi ed enti internazionali avevano rifiutato prestiti all’Angola per mancanza di adeguate assicurazioni che non fosse unicamente l’elite politica a beneficiare del prestito. Nel 2008 gli scambi commerciali tra Pechino e Luanda sono saliti a 25 miliardi e l’Angola è oggi il terzo fornitore di petrolio per la Cina, dopo Iran ed Arabia Saudita. Spesso la valuta più apprezzata per l’acquisto dell’oro nero sono le armi. Ne sanno qualcosa gli arsenali utilizzati per il genocidio in Darfur, riforniti di armi da Pechino in cambio del controllo del 60% del petrolio sudanese: una prova di come la Cina sia pronta a legittimare regimi come quello sudanese, senza far nulla per migliorare le condizioni di vita della popolazione locale.
Ad oggi, nella Repubblica Democratica del Congo la partita USA-Cina sembra in equilibrio: gli USA si tengono strette le risorse del Nord Kivu e il petrolio del lago Albert e la Cina gode dei proventi delle miniere di rame e cobalto del Katanga.
Com’è finita, invece, a Copenhagen? La Cop15 ha “preso nota” che non tutti i paesi sono concordi con l’accordo raggiunto (cosa necessaria muovendosi sotto il cappello dell’ONU, dove anche l’opposizione formale di un solo paese non permette l’adozione di una determinata decisione) e che, allo stesso tempo, un insieme di paesi lo sono. Tra i paesi contrari all’accordo figurano Tuvalu (primo paese ad aver già avuto “rifugiati climatici”), Sudan, Bolivia e Venezuela. L’accordo raggiunto fissa come obiettivo il limite del riscaldamento del pianeta a 2°C rispetto ai livelli preindustriali e parla di stanziare 30 miliardi di dollari su tre anni per aiutare i PVS ad affrontare i cambiamenti climatici; i paesi concordi sono tenuti a comunicare entro la fine del gennaio 2010 le quote relative ai tagli di emissione dei gas serra che intendono adottare (per i paesi industrializzati dovranno essere comunicati gli impegni fino al 2020; per i PVS la descrizione delle azioni di mitigazione che saranno adottate). Il “prendere nota” può definirsi come una struttura di accordo, consentita dall’ONU, che porta ad un’intesa che può essere politicamente vincolante: non ci sono vincoli giuridici, l’unico vincolo è quello politico, ma solo per i paesi che accetteranno di aderire. La Cop15 non ha raggiunto una decisione formale nemmeno riguardo i finanziamenti promessi alla cooperazione, pertanto i soldi che potenzialmente saranno stanziati per ora non potranno essere gestiti all’interno della Convenzione. Questo accordo potrebbe durare fino alla Cop16 del 2010 oppure essere ampliato fino al 2015. Sostanzialmente si può dire che alla Cop15 si è deciso di non decidere e di rinviare tutto al 2010. L’ONU stesso ha ammesso che serve una riforma di metodo e che bisogna decidere se procedere ancora tutti insieme o separarsi da chi non vuole impegni vincolanti.
Calato il sipario sulla Cop15, il segretario per il clima della Gran Bretagna, Ed Miliband, ha accusato la Cina di aver cercato di “sequestrare” il vertice. La portavoce cinese, Jiang Yu, ha affermato che le dichiarazioni di Miliband sono un tentativo di “sfuggire agli obblighi dei paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo” e di “fomentare la discordia” nel campo dei paesi poveri. A Copenhagen la partita USA-Cina si è conclusa con un nulla di fatto, che pesa però come una schiacciante sconfitta per entrambe la parti e per l’intero pianeta: la sfrenata corsa verso il benessere e lo sviluppo, a prescindere da chi sarà a vincerla, sta portando la Terra all’autodistruzione. Si potrebbero scrivere fiumi d’inchiostro sul fatto che sia più o meno giusta la spasmodica ricerca del benessere a favore di pochi mentre alla restante maggioranza degli uomini restano le briciole; ma al punto in cui siamo arrivati oggi forse vale la pena riflettere sul fatto che è il pianeta stesso a non reggere più la velocità della corsa intrapresa da una parte dei suoi abitanti. Guardando quanto spesso vengono calpestati i diritti umani, è utopistico fare un appello a frenare la corsa per ridurre la disuguaglianza tra gli uomini; ma, purtroppo, sembra che nemmeno la prospettiva che le prossime generazioni possano non avere un futuro su questo pianeta riesca a porre un freno.
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“Kyoto protocol” (Wikipedia)