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Herzog si fa catturare dal cattivo, ma non cattura.

I perplessi in sala sono la maggior parte e immagino che il mio viso ricalchi la loro espressione. Mi alzo dalla poltrona come da quei sogni strambi in cui hanno una parte persone che mai si sono incontrate trovandosi a recitare ruoli per loro poco consueti. E non è la è presenza di iguane e coccodrilli l’elemento più fastidioso e insensato dell’opera di Herzog, regista notoriamente bizzarro e visionario.
Il corridoio in cui è accolto lo spettatore nei primi capitoli della storia narrata presenta atmosfere in quasi perfetto stile noir: la pellicola ha colori da “città americana vissuta”, i poliziotti parlano e si comportano da poliziotti, le scene sono complete e i dialoghi ritraggono alla perfezione ciò che ci si aspetta da un film poliziesco americano, con tanto di omicidi, traffici e ricatti. Ma è il corridoio, questo.
A partire dall’infortunio del protagonista e dal suo seguente incarico per il nuovo caso di omicidio plurimo. Il corridoio diventa il tunnel della cocaina, della droga e, per noi, dell’insensatezza. Un’ossessione, quella del Tenente McDonagh, che diventa fastidiosa anche per chi lo osserva dal di fuori, le sue “tirate” scandiscono con elevata frequenza le scene delle indagini, che risultano mal condotte e frammentate anche per chi se ne vorrebbe appassionare. Infatti mancano di senso sia le singole azioni del nostro Terence sia le modalità con cui ci vengono presentate dal regista. L’assassinio in cui ha perso la vita una intera famiglia e le vicende di droga e la corruzione della polizia americana sono temi rappresentati messi in scena in modo nebbioso e restando così marginali: semplici diversivi in un mondo dominato dallo stato d’animo del protagonista.
Lo spettatore è intrappolato nell’ossessione per la cocaina, nella crudeltà gratuita e poco ortodossa del protagonista che molto assomiglia al modo di fare dimostrativo e provocante di chi vuole rappresentare a tutti i costi  il disperato, il cattivo, il diavolo mentre a fatica riesce a non provocare una sensazione di pena in chi lo osserva da fuori. E’ forse solo chi lo ama che riesce a vedere in lui qualcosa di diverso da tutto questo nero di violenza e bianco di cocaina. È Frankie, la compagna di droga e di sesso del Tenente (e non solo): è lei, con il suo incondizionato affidarsi, la sola che riesce a rendere migliore questo uomo che vuole fare il cattivo a tutti i costi. Eccolo improvvisamente convertirsi a sensazioni e desideri meravigliosi, quelli che appartengono alla fragilità di tutti: gelosia, amore, abbandono, protezione.

Nella prima parte del film ci si chiede se è realtà dilatata o totale fantasia che vuole far satira del noir classico, dal secondo tempo in poi l’irrazionalità delle scene proposte conduce lo spettatore alla risata, forse disperata reazione all’incomprensibilità, forse una chiave di lettura tragicomica della vicenda. Gli atteggiamenti del poliziotto diventano ridicoli e, con essi, anche la storia raccontata.
Nel finale si assiste ad una deviazione talmente forzata da permettere al regista di firmare un ‘Hollywood Ending’ e perfino di chiudere il cerchio aperto all’inizio del film, quando ancora sembrava tutto normale. Dopo un vagare in violenze e allucinazioni in balia dello stato mentale del protagonista si assiste al ritorno in scena di personaggi di cui quasi non si ricorda il volto e il ruolo (vedete il delinquente per cui il tenente si è infortunato all’inizio del film). “Solo per il gusto - mi chiedo io - di far loro pronunciare quelle battute scontate e banali come ‘Sognano i pesci rossi’? ”. Forse, almeno questo, non ce lo saremmo aspettati.
E invece, oltre alla totale incomprensibilità della storia che Herzog ha voluto narrarci “alla sua maniera”, siamo anche costretti ad assistere alla sfilata di cliché della tipica produzione Blockbuster: la medaglia, il tenente diventa capitano, la prostituta purificata è incinta, le bollicine del brindisi sono quelle dell’acqua frizzante.