La recensione del film di Ang Lee e l'arrivo di quello di Michael Haneke
Motel Woodstock è un film sul Festival di Woodstck? No, non primariamente: questo è quello che penso io. E vi spiego perchè. Pensateci bene, è la storia di una crescita, di un “pivello di provincia”, della sua famiglia e del suo paesello. Un percorso di formazione, certo un po’ scoppiettante, che vede un giovane timido e “incasellato” dal proprio entourage, abbandonare ad un tratto ingenuità e provincialismi. Per?...
Per rischiare, scommettendo sulle proprie intuizioni e sulle coincidenze. Forse inizialmente preso solo da una grossa disperazione per la condizione economica dei suoi genitori, ma Elliot arriva a sfidare la chiusura mentale del paese perdendone la protezione e le sicurezze quotidiane dell’ora di pranzo (“il solito”). Fatto il passo fuori dal confine mentale, Elliot arriva a comprendere meglio la propri affettività e a sventrare quasi completamente tutte le rigide regole morali in cui è cresciuto.
Il percorso con il panorama migliore tra quelli proposti è, a mio parere, quello in compagnia di mamma e papà durante il quale ci si addentra nel rapporto figli – genitori. Dal tollerarli, rispettarli e assisterli per quasi pura consuetudine ed ineccepibile senso del dovere, Elliot passa all’intenerimento nel vederli alle prese con “il nuovo”. Saper cogliere il lato “pazzo” e vivace celato dietro a due vite trascorse nello squallore incorniciato da un contesto economicamente modesto è un ottimo risultato.
Se il figlio cambia punto di vista, anche mamma e papà si trovano investiti dal nuovo modo di fare di Elliot e accettano di cavalcare l’onda , a modo loro, abbandonando tutte le insoddisfazioni affogate fino a quel momento, anche letteralmente, “nella solita minestra”.
E Woodstock? E’ il pretesto, la colonna sonora, i colori e lo sfondo: il microclima della serra dove prende vita la libertà di Elliot. Scene al confine con l’onirico dipingo il celeberrimo festival musicale senza che la macchina da presa però venga mai catturata eccessivamente dal clima, lo sguardo dello spettatore rimane quello di Elliot, dalla collina, o di uno dei milioni di ragazzi giunti da ovunque proprio lì, nel secondo tempo di “Motel Woodstock”
Il nastro bianco
Un film di Michael Haneke. Con Christian Friedel, Leonie Benesch, Ulrch Tukur, Ursina Lardi, Burghart Klaußner.
«continua
Steffi Kühnert, Josef Bierbichler, Rainer Bock, Susanne Lothar, Branko Samarovski, Detlev Buck, Mercedes Jadea Diaz, Thibault Sérié, Kai-Peter Malina, Enno Trebs, Anne-Kathrin Gummich, Marvin Ray Spey, Marisa Growaldt, Janina Fautz, Jadea Mercedes Diaz, Sebastian Hülk, Michael Schenk, Leonard Proxauf, Theo Trebs, Fion Mutert, Michael Kranz, Maria-Victoria Dragus, Levin Henning, Johanna Busse, Yuma Amecke
Titolo originale Das Weiße Band. Drammatico, b/n durata 144 min. - Austria, Francia, Germania 2009.
L’indagine profonda, ossessiva e dettagliata delle radici del nazismo?
Trama: 7 righe sotto per chi non vuol sapere, in questo caso nulla di grave.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, siamo in un villaggio agricolo del Nord della Germania dove quasi tutti gli abitanti lavorano miserevolmente al servizio del Barone, accadono anche incidenti strani e drammatici davanti agli occhi muti della comunità. Non solo, bussando alle porte delle modeste se non povere case piene di figli, la vita tranquilla, patriarcale, si svelano nell’agghiacciante silenzio, scaffali e armadi di orrori nascosti.
In tutto ciò, occhio, mente e telecamera di Haneke non focalizzano l’attenzione sulla fase di detection per scoprire chi sta all'origine degli inattesi episodi di violenza, preferiscono di gran lunga fare qualche passo indietro, svestire i panni degli Sherlock Holmes di paese e osservare altro.
Cosa? Una società che sta ponendo a dimora i semi che il nazismo, dopo la Prima Guerra Mondiale, farà fruttificare. E ancora qualche passo indietro l’idea dei condizionamenti che l' ambiente sociale esercita sui più piccoli, tema non nuovo per l’austriaco regista.
Le relazioni tra gli adulti e tra questi e i bambini sono quanto di più algido e privo di un senso di umanità vera si possa concepire, nonostante la scelta di affidare la narrazione della vicenda alla voce del vecchio maestro elementare che ricorda, questo espediente non ha l’effetto di un filtro opacizzante. Infatti la pellicola trasmette perfettamente allo spettatore quel sentimento di insicurezza e di frammentazione grazie ad un abile gioco di ambiguità e non-detto. E di qualche geniale espediente: gli adulti sono identificati con la loro funzione sociale, esclusivamente donne e bambini, le vittime, hanno nomi propri. E usa il bianco e nero creando un’atmosfera rarefatta che sottolinea l’asetticità dello sguardo che Haneke ci regala sulla storia narrata. Tutto questo, oltre che alla consueta mancanza della colonna sonora, rarissimi movimenti di macchina, dialoghi mozzati e scene interrotte.
Sufficiente? Per farvi correre, fuori o dentro al cinema: scelta personale, forse anche voglia e coscienza di voler guardare a meccanismi sociali che ci riguardano tutti.
POP CORN CURIOSITIES
Haneke ha avuto la prima idea di girare Il nastro bianco Haneke nel 1970, dopo aver letto una sceneggiatura firmata da Ulrike Meinhof, militante politica che da lì a poco si sarebbe arruolata nella lotta armata.
Il nastro bianco che da il titolo al film è una punizione che il Pastore del villaggio impone ai due figli in modo da simboleggiare la purezza che sconfigge il peccato e la necessità di ottenerla per raggiungere la completa maturità
Seppur lontano dalle logiche commerciali, al Festival di Cannes 2009. “Il nastro bianco” ha conquistato Palma d’Oro, nella stessa annata premiati tra gli altri anche “Il profeta”di J. Audiard (Gran Premio alla Giuria) Christoph Waltz per “Bastardi Senza Gloria” (Miglior attore) e Charlotte Gainsbourg per “Antichrist” (Miglior attrice)
LINK