Rassegna del lunedì al Teodolinda: la recensione de "Gli abbracci spezzati"
e la presentazione del film di Moore
“GLI ABBRACCI SPEZZATI” NON ROMPONO LA CATENA DI SUCCESSI: E’ SEMPRE LUI, PEDRO.
I colori, la musica e le inquadrature sono le sue, gli attori sono i suoi, i colori, anche quelli, ben definiti e coraggiosi, accostati con grazia o con spirito dissacratorio, spiegano agli spettatori l’aria che si respira in ogni scena. E’ ciò che aspettavo mi accadesse, speravo mi accadesse, e così è stato. Pedro Almodovar si è fatto riconoscere al suo solito modo anche in “Gli abbracci spezzati” e il mio sguardo lo ha accolto esattamente come il palato gusta quel sapore noto amato e mille volte già sentito delle merende d’infanzia o del cappuccino del bar sottocasa.
Al contrario di ciò che accade per molti altri suoi film però, vedi “Tutto su mia madre” o “Parla con lei”, stavolta lo sforzo richiesto per comprendere la storia narrata è notevole. E mi sono scoperta a domandarmi se veramente fosse richiesto da Almodovar di comprenderla, sapete? Infatti è complicata e intrecciata, i flashback sono indicati distrattamente e la priorità in quasi tutte le scene è attribuita all’estetica e all’espressività dei protagonisti.
Tornando verso casa ho maturato la convinzione che il primo obiettivo della pellicola possa non essere quello di narrare ma di emozionare e di trasmettere una veemente passione per il cinema che raggiunge il suo apice nella figura del regista cieco. Da alcuni considerato alter ego di Pedro Almodovar, Mateo finisce di montare il film come atto di amore, puro, dignitoso ed esclusivo ( oltre che per il cinema, amore per Delia?) e questo sembra l’unico passaggio narrativo da non farsi sfuggire.
E voi, tornando verso casa? Buttando alle spalle o al vento i dietrologismi che cosa mi rimane impresso negli occhi?
Il gazpacho con il sonnifero e l’inquadratura della lacrima che cade sulla pelle di un pomodoro, richiamando alla mente il piano-cucina di “Volver”;
il figlio della mai deludente Bianca Portillo (Judit), Diego, vulnerabile di fronte alla mondanità del ruolo di dj quanto sorprendentemente saldo nel saper instaurare un inaspettato rapporto equilibrato con quel primo Mateo spesso enigmatico e con una madre contratta nei ricordi fino all’”ultima cena”;
l’indefinibile ambiguità immatura, soprattutto se confrontata a Diego, di Ray-X, figlio del viscido Ernesto Martel. Quest’ultimo è invece grande interprete ed essenziale antagonista portando avanti il conflitto tra bene e male senza il quale non esisterebbe la trama.
Inoltre ricordo e richiamo alla mente le scene montate da Mateo sul finale e le interpretazioni della protagonista Penelope e dell’amica dai capelli rossi: dialoghi che portano una sferzata di aria fresca dopo un buon 45 minuti di tragedie. E l’azzurro il rosso e il giallo brillanti delle croci e delle tende che ammiccano a ricordi e a viaggi compiuti e mai scordati oltre al quadro, natura morta che ancora respira, della colazione che Diego prepara alla madre dopo la fatidica notte finale di confessione.
Capitalism: A Love Story
Un film di Michael Moore . Con Michael Moore, Thora Birch , William Black , Jimmy Carter, Elijah Cummings .
«continua
Baron Hill, Marcy Kaptur, John McCain, Sarah Palin, Ronald Reagan, Franklin Delano Roosevelt, Arnold Schwarzenegger, Wallace Shawn, Elizabeth Warren
Documentario, durata 127 min. - USA 2009. -
“Credo che sia difficile chiamare una cosa "democrazia" quando l'economia controlla le vite della gente, non c'è niente di democratico”, detto da Michael Moore spiega tutto il contenuto del suo ultimo film in cui ci e si pone la domanda: ” Quanto è alto il prezzo che il popolo americano paga a causa della confusione operata tra il concetto di Capitalismo e quello di Democrazia?”
Il conflitto, conflitto tra Capitalismo e Democrazia che, almeno per Moore, non sono sinonimi, è sempre e necessariamente il seme per una buona storia, una di quelle che può trattenere davanti allo schermo un target di pubblico americano mediamente ignorante e scarsamente invogliato a mettere il naso in questioni politiche che spesso sono ben diverse dagli odori e dagli umori che la vita vera e dura gli propone.
E’un camioncino blindato il mezzo che Moore sceglie per scorazzare per New York, da un luogo all'altro dei peccati finanziari e, a chi già lo conosce, assicuro che non mancheranno lunedì incidenti di percorso, rifiuti spietati, incontri divertenti, episodi buffi. Sì, ormai sono peculiarità “pellicolari” diventate il marchio di fabbrica del regista, capace di raccontare con ironia e leggerezza anche le situazioni più incresciose (succedeva lo stesso nei suoi documentari su altri problemi sociali).
Questa volta però sembra che Moore abbia scelto di impiegare meno gag verbali e visive conservando invece la voce narrante prima persona singolare maschile. Attività principale del cronista è l’assalto dei luoghi inespugnabili del potere, primi tra tutti le banche e Wall street e, come a mio parere accade negli altri suoi precedenti documentari, si dimostra sempre abile nel trattare materie che potevan essere noiose ed oscure, Moore fa il miracolo di renderle divertenti, curiose, commoventi. Come? Con il suo personale e consolidato modo di raccontare attraverso immagini di repertorio, ricercati e buffi accostamenti a scene e filmati d’epoca. Un esempio? Il doppiato Gesù di Zeffirelli il quale predica di massimizzare i profitti per ottenere la vita eterna.
Non c’è trama ma possiamo prefigurarci due filoni: il primo è il disastro che la crisi ha provocato alla gente, ai lavoratori, ai clienti delle banche, il secondo consiste nel constatare che la crisi del capitalismo nasce dal capitalismo stesso, dal suo assetto, dalla sua struttura.
E un giornalista-critico cinematografico commenta: “Moore porta come esempio positivo, tra le altre, la nostra Costituzione. Faremmo bene ogni tanto a rileggerla. Magari dopo avere visto “Capitalism: A Love Story”
POPCORN CURIOSITIES
Dato quasi-di-fatto. il 99 % degli abitanti Usa ha sempre di meno, l'1 % ha sempre di più.
Constatazione: l'America è anche il paese in cui un Michael Moore può progettare e realizzare film come questo. Difficile immaginare qualcosa di così esplicito e aggressivo oggi in Europa, specie in Italia.
“Capitalism: A Love Story” si è aggiudicato il Leoncino d'Oro Agiscuola per il Cinema, assegnato dai 24 ragazzi membri della giuri, infatti “non accade spesso che un film riesca ad accumunare le opinioni di una giuria così giovane, così numerosa e con gusti cinematografici così vari. Il pregio di questo film è quello di affrontare in maniera coraggiosa e diretta problemi attuali, riuscendo a strappare, nonostante gli argomenti trattati, più di una risata al pubblico. Dissacrante, pungente ma al tempo stesso impegnato, il film mette lo spettatore di fronte alla gravissima situazione in cui versa la società moderna, sollecitando una concreta presa di coscienza”.
Il Premio OPEN 2009, un'opera ideata e realizzata dal Maestro Ugo Riva, è stato assegnato al regista Michael Moore con il film “Capitalism: A love story”. La giuria, presieduta da Paolo De Grandis e composta dall’Assessora Luana Zanella, Ferruccio Gard, Anna Caterina Bellati e Chang Tsong-zung.
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