Un film da consigliare nelle scuole, perché tocca un tema gigantesco e fuori moda: la dignità.
Mi permetto di lanciare un appello agli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, affinché promuovano presso i propri discepoli “Il discorso del re”. Come mezza Italia avrà ormai accertato o sentito dire, trattasi di un film di Tom Hooper la cui vicenda ruota intorno alla balbuzie di Giorgio VI, re del Regno Unito, d’Irlanda e dei Territori britannici d’oltremare nonché imperatore d’India fra il dicembre 1936 e il febbraio 1952.
Il film costeggia con emozionante efficacia un periodo brutale della storia (il preludio alla seconda guerra mondiale), concentrandosi su un problema personale del duca di York prima, durante e subito dopo il suo insediamento al trono. Giorgio è sopraffatto dai complessi, è introverso e soffre di balbuzie e di agorafobia, handicap a dir poco imbarazzanti per un personaggio pubblico e figuriamoci per un monarca, per di più incoronato proprio in uno dei momenti più malsani della storia, cioè quando c’è più bisogno della sua presenza, della sua rappresentatività e della sua parola. Il mezzo più moderno e più caldo per appellarsi ai sudditi è, in quegli anni, la radio; gli Hitler che scombussolano la pace di re Giorgio sono dunque due: Adolf e il microfono.
Il male del protagonista sembra incurabile finché egli non s’imbatte in un improvvisato logopedista, figlio di un birraio australiano e attore fallito, il signor Logue. L’uomo dei miracoli impone al regale cliente le proprie regole, tutte in stridente contrasto con l’etichetta di Buckingham Palace: lo chiama Bertie come se fosse un compagno d’osteria, esige di curarlo nel proprio appartamento-laboratorio, non esita a strapazzarlo come si strapazza un allievo svogliato, riluttante, indisciplinato. Il difficile rapporto fra i due (strepitose le interpretazioni di Colin Firth e Geodfrey Rush) si svolge lungo un’alternanza di conflitti e riavvicinamenti, di piccole conquiste e catastrofiche ricadute, di umilianti espedienti e risultati non sempre incoraggianti. Una storia non banale sulla nascita di un’amicizia fra personalità incongrue ma complementari.
«Dimentica la folla: guardami e parla solo a me»
Finale tra l’epico e l’intimistico: il re è costretto ad annunciare via radio l’entrata in guerra e ad esortare il popolo al sacrificio e al coraggio. La corte, il governo, i lord, la famiglia e i tecnici della BBC sono sulle spine: ce la farà il re a pronunciare il suo discorso, nove minuti di parole pesate una per una, senza fallire miseramente come è avvenuto altre volte? Mister Logue, regista e trainer, ha preteso per la grande prova un salottino poco più ampio di un ripostiglio, protetto da tendaggi felpati; nella penombra e nel raccoglimento di quel rifugio saranno solo in tre a guardarsi in faccia: il balbuziente, il terapeuta e il microfono. «Dimentica la folla: guardami e parla solo a me», sussurra l’allenatore. E dirige il suo paziente con gesti da direttore d’orchestra, mentre il discorso del re – dopo una falsa partenza da brivido – comincia piano piano a decollare. Le lacrime scorrono copiose sulle guance del popolo britannico, dei soldati, degli spettatori.
Perché questo film dovrebbe entrare nelle scuole? Perché tocca un tema gigantesco e fuori moda: la dignità. Il significato della parola “dignità” è più intuitivo che descrivibile. Un valore difficile da far capire a chi ne è, disgraziatamente, immune. In Italia, la parola circola sempre più spesso nei discorsi di protesta politica e sociale; chi la pronuncia sa di che si tratta, ma rischia di farsi comprendere soltanto all’interno della propria cerchia.
Giorgio VI in un ritratto di Sir Gerald Kelly.
Basta confrontare “Il discorso del re” con i discorsi, le accuse, gli insulti, le bugie, i ritornelli, i cliché emessi in continuazione e senza pudore dalle ugole dei nostri ras per mettersi le mani nei capelli e misurare quanto in basso siamo caduti in questo paese.
Basta confrontare “Il discorso del re” con i discorsi, le accuse, gli insulti, le bugie, i ritornelli, i cliché emessi in continuazione e senza pudore dalle ugole dei nostri ras per mettersi le mani nei capelli e misurare quanto in basso siamo caduti in questo paese. Il linguaggio (delle corde vocali e del corpo) è la spia più oggettiva dei comportamenti umani e delle umane ossessioni. Buona parte di questo paese si è votata col cuore e con l’anima a un monarca di dubbia dignità, un arcaico re della mona e duce di varie e spavalde spudoratezze, solo perché sedotta dalla fluidità del suo eloquio. Fosse stato balbuziente, ci saremmo salvati. I suoi dignitari (!) sono una corte di difensori dell’indifendibile: bugiardi e supini fino a negare qualsiasi evidenza.
Le italiane e gli italiani indotti a pensare che il ras dei ras sia semplicemente vittima dell’abuso di magistrati ostili, giornalisti disonesti e comunisti di ritorno, credano almeno alle proprie orecchie. Il premier che telefona in diretta televisiva per insultare in modo becerissimo il Floris o il Lerner di turno non è un comico dello Zelig impegnato in una brillante imitazione del capo di governo, ma il capo di governo in persona.
Oltre ad essere un film sulla dignità e sull’amicizia, “Il discorso del re” è un riuscito saggio sulla comunicazione.
Oltre ad essere un film sulla dignità e sull’amicizia, “Il discorso del re” è un riuscito saggio sulla comunicazione. Ci dovrebbe far riflettere sulle tante scempiaggini che si pensano e si dicono sul “carisma” indispensabile al Leader Ideale. Carisma troppo spesso aggiudicato gratis a chi sa solo imbrogliarti con le parole. Quando nel film Giorgio VI assiste in forma privata a un cinegiornale in cui si vede e si sente Hitler che arringa la folla, e qualcuno che gli è accanto commenta: «Quell’uomo è un mostro», lui ribatte con amarezza: «Però sa parlare». Dovremmo liberarci, come lui, da questo complesso. Meglio sussurrare qualcosa di utile balbettando che intonare bla-bla-bla wagneriani.