Arriva da lontano l'eco di un inno trombonesco da armata Brancaleone.
Erano i tempi di Giolitti e L'Italia cominciava la sciagurata impresa di Libia
A
Tripoli!, parole di Giovanni Corvetto (giornalista di cronaca giudiziaria de “La Stampa”), musica di Colombino Arona (maestro di canto), 1911, Italia. © Gustavo Gori. Canzone lanciata a sorpresa, alla vigilia della spedizione in Libia, da Gea della Garisenda, che irrompe sulla scena del teatro Belbo di Torino, al termine di uno spettacolo di vaudeville, avvolta in un drappo tricolore. Sotto il drappo, niente: ignuda e allegorica come le italiche divinità disegnate, proprio quell’anno, sui manifesti delle Esposizioni internazionali di Roma e Torino, celebranti i primi cinquant’anni dell’unità d’Italia.
Il carisma di Gea (Alessandrina Drudi, nata a Cotignola in provincia di Ravenna nel 1878 e morta a Rimini nel 1961; nome d’arte coniato da Gabriele D’Annunzio), ex soprano pucciniano e poi diva dell’operetta, della canzone e del cinema muto, nonché futura sposa del re dei cappelli Borsalino, fa schizzare alle stelle la febbre di colonialismo che sta contagiando buona parte dell’opinione pubblica.
Tripoli, bel suol d’amore,
Sarai italiana al rombo del cannon!
L’inno preannuncia, con l’involontaria quanto tragica comicità dei nazionalismi esasperati, la sciagurata impresa di Libia (29 settembre 1911 – 18 ottobre 1912), che a sentire gli ottimisti doveva concludersi in un sol giorno e senza spreco di vittime. Persino il poeta del fanciullino e dell’ederella, il buon Giovanni Pascoli dai sentimenti umanitari, plaude per amor di patria alla missione contro i turchi, che da secoli estendono la sovranità su quella regione. Nel teatro di Barga pronuncia — in favore della campagna libica — la celebre orazione La Grande Proletaria si è mossa.
Più ovvia l’adesione del solito D’Annunzio, che nelle Canzoni delle gesta d’oltremare uscite sul “Corriere della Sera” sfoga il suo incontenibile e rumoroso orgoglio nazionale esaltando l’intervento italiano in Africa. Altre due famose teste calde, Boccioni e Marinetti, non esitano a sfidare «futuristicamente» a duello un giornalista irlandese: l’incauto ha osato descrivere le atrocità perpetrate dal generale Caneva contro gli arabi, i quali — con alquanto stupore da parte italiana — non sono sembrati così entusiasti di farsi “liberare” e stanno riservando alle truppe nostrane un’accoglienza persino più ostile di quella turca.
L’Italia di Giolitti, insomma, va a scaricare nel deserto molte italiche frustrazioni: quelle del Banco di Roma, soppiantato nei suoi interessi in Turchia dalla Deutsche Bank così come all’Ansaldo è stata preferita la Krupp; quelle di chi è invidioso dei francesi, impadronitisi del Marocco; quelle dei vescovi più fuori di zucca, che mirano al revival delle crociate; quelle di chi fantastica sulle prodigiose risorse della nuova terra promessa. Su tutto aleggia il mito d’un destino comune fra l’Italia e il Nordafrica, così vicino alle nostre coste del Sud: tant’è che lo sviluppo del porto e dell’arsenale di Taranto acquisisce rilevanza strategica proprio in vista dell’espansione coloniale fra le sabbie del deserto. E si favoleggia a lungo di una nuova terra capace di assorbire e occupare milioni di italiani poveri, programma che si rivelerà presto illusorio: gli italiani continueranno a imbarcarsi in massa per l’America, mecca più lontana ma economicamente più credibile della Tripolitania e della Cirenaica conquistate a carissimo prezzo.
Di quell’avventura giolittiana null’altro dunque ci resta se non le parole e le note di questo inno enfatico e brancaleonesco, che nessuno osa più incidere o riproporre pubblicamente ma che ancora sopravvive nella memoria nazionale. A Tripoli non fu tuttavia un exploit isolato: il medesimo tema fu largamente ripreso da altri autori. Lo storico della canzone Felice Liperi ricorda che «buona parte delle canzoni ispirate dalla guerra libica era dedicata alla cronaca dei fatti; ciò ha valorizzato doppiamente questo repertorio fino a presentarlo quasi come una sorta di supplenza dei resoconti bellici che, essendo ancora assente la radio, erano limitati a quelli più “freddi” dei giornali. Fra i titoli più noti ’A Marina ’e Tripoli, interpretata da Pasquale Tammaro, L’Italia a Tripoli di Diego Giannini, Pascale vo’ i’ a Tripoli di Armando Gill. Un’altra parte di materiali canori documenta il passaggio degli eventi bellici sui palcoscenici del café-chantant: Grandi manovre e Viva l’Italia di Olimpia D’Avigny, ’O surdato tene vint’anne! di Nina De Charny, Cin-cin bum bum, cantata da Maria Garavaglia e dedicata al debutto dello spettacolo “Camaleonte” di Leopoldo Fregoli.»
Gea della Garisenda è oggi il nome di un vino rosso frizzante della tenuta Amalia, prodotto con uve di Valmarecchia nei comuni di Verrucchio e Sant’Arcangelo di Romagna.
-
Dischi: Negli anni Settanta, la Fonit Cetra pubblicò una straordinaria collana di rare incisioni storiche, Fonografo italiano, curata da Paquito Del Bosco. Il settimo vinile della quarta serie, intitolato Tripoli italiana!, conteneva – oltre al famoso inno di Gea della Garisenda – un intero campionario di canzoni colonialiste ormai dimenticate: Pasquale va a Tripoli, La partenza d’un richiamato italiano per Tripoli, ’A marina ’e Tripoli, Grandi manovre, L’Italia a Tripoli, Viva l’Italia, In caserma a Tripoli, ’O surdato tene vint’anne!, L’eroico comportamento dell’XI Bersaglieri, Cin-cin bum-bum, La festa del marabutto. • Altre rarità di interesse collezionistico (78 giri): 1912, Diego Giannini, Phonodisc Mondial (sul lato B: “Il combattimento di Bengasi, 31/1/1912 - Onoranze militari alla salma d’un ufficiale turco”). Senza data (tra il 1920 e il 1930), Averando Gilberti [“A Tripoli, canzone marcia patriottica”; sul lato A: “Inno a Tripoli italiana” (di Carosio) eseguito da un Coro Militare].
-
Film: 1954, “Tripoli bel suol d’amore” di Ferruccio Cerio, con Alberto Sordi.
-
Radio: 1971, “Gea della Garisenda, la canzonettista del Tricolore”, sceneggiato radiofonico di Massimo Scaglione; Gea è interpretata da Miranda Martino; voce narrante di Wanda Osiris.
Un film del 1954.