“L’uomo si abitua anche alle miniere”. Me lo diceva mio nonno per sottolinearmi che ci si può adattare anche alle brutture più desolanti.
A me cova dentro qualcosa a cui proprio non riesco ad abituarmi: l’ho approcciata con la razionalità, l’ho addolcita col sorriso, l’ho pure tentata di eliminare col training autogeno. Niente, la cosa è sempre lì, rimugina, si attorciglia, picchia allo stomaco. Non riesco ad abituarmi allo slang milanese, al suo ritmo sincopato, al suo proseguire a trequarti tra singulti-vezzeggiativi-inglesismi. Mi urta, mi è proprio epidermicamente nocivo, causandomi immediati e somatici eritemi.
Ecco, in questo momento ho un prurito sul braccio, una collega dietro di me ha appena riferito ad un’altra che: «Oggi la Fede non viene all’iper. Avvisiamo Lili. Così siamo smart per vederci in metro davanti all’Uni». Ma è possibile sparare 5 forme tronche (Fede-iper-Lili-metro-Uni) e un inutile aggettivo inglese in 19 parole? Mi scombussola ogni volta. Perché tutta questa fretta? Forse un bisogno di risparmio aria in vista di una allegra decrescita felice (dell’intelletto) o solo per evitare le polveri sottili. Chissà. Fatto sta che è un dilagare.
Ero da un mese a Milano. Di sera, un ragazzo tutto colorato mi ferma e mi fa: «Ce l’hai una siga?». Dopo aver realizzato di essere di fronte a una specie di involontaria parodia umana dell’iperreale zelighiano, gli rispondo: «Vuoi una sigaretta…».
«Una siga…»
«Sigaretta…»
«Siga…»
«Aru culu»
«Che?»
«Trattasi di espressione idiomatica calabrese per dire che non ho sigarette. Buonasera». E che diamine! Tremila anni buoni di scrittura e duemila di ars oratoria buttati nel cesso di qualche secondo di fiato vocale, tanto da generare codarda vendetta sul primo malcapitato.
Tutto ciò che è oltre le tre sillabe in questa città viene troncato, eliso, accorciato, violentato. Fino ad esiti comici, come quella volta in riunione plenaria quando il dirigente dal podio così si espresse: «Devo ringraziare Cazzaniga per il suo contributo. Dov’è? Lì? Ciao Caz!».
Ma si può? Forse sono abituato all’eccesso del parlar pieno e forbito del Sud: un jazz delle parole che a volte si fa sinfonia e non conosce fretta nell’espressione, che addirittura si prende tutto il tempo che serve anche per mandarti soltanto ma precisamente affanculo.
Qui, al Nord, è tutto un rap.