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Il sole sembra più caldo in questa domenica di ottobre.

C’è qualcosa nell’aria che ispira la mente con alti pensieri e passioni, come tutte le cose troppo grandi per la nostra comprensione, e la getta in una sorta di trepidazione al di là di questo muro smisurato che si erge davanti a noi. Questa disposizione dello spirito ci accompagnerà per tutto il breve viaggio. Lasciamo fuori lo sguardo dove ancora può librarsi con le nuvole nell’aria fino a riempirsi di spazio infinito, sfuggendo al suo recinto e alla sua forma. In questo varco fra mondo aperto e chiuso gettiamo un ponte temperante, portando sulle frange del limite una meteora di lievità. Forse!

Ci sono nature spoglie, senz’acqua, con terreni nudi e secchi che le stagioni possono modificare e alimentare. Ci sono periechon, ambienti che avvolgono con il loro calore, in un rapporto di continuità-discontinuità, materia e spirito, vita e morte, gioia e dolore. Ci sono terreni dove non si vedono splendide messi e il sole fa fatica ad entrare, dove il caldo umido si mescola alla malinconia dell’aria che colora di luci e ombre i pensieri appesi. Luoghi dove la fermentazione dell’impuro è più feconda, dove la “bellezza” diventa cerniera spirituale. Ed è li, fra i vapori del tempo lento sempre più incapace di pensare con la sua libertà, che andiamo. Oltre la riva, nell’inimmaginabile. Oltre il confine che vieta il mare. E, come Pinocchio che lascia sulla sedia accanto al letto la sua spoglia naturale, diventiamo cantori e dame per sublimare la bellezza, penetrando in quell’angoscia del limite, oltre la potenza della ragione. Aggiungere un eco, un pezzo di cielo sul volto di Dedalo, un faro su un mare notturno. Sfiorare quel mondo, percepirlo dall’interno, in quell’intrico di corridoi che trascina in un turbine di solitudine fredda e ampia. Una nuova luce misteriosa ci avvolge tutt’intorno. Ce la sentiamo addosso, come una forma che riempita di aria lieve quasi si solleva. I nostri passi spaziano pallidi. La sala polivalente ci pare un’unica percezione, un suono sommesso come una grande sfera che ci avvolge e ci guarda estranea e vitrea e ci dà i brividi. I pochi oggetti pesano ai loro posti fermi. Le panche, il mobile nero con il registratore, un piccolo altarino, due immagini sacre alle pareti. Sono raccolti in sé come un pugno serrato, non sono niente o possono ancora diventare tutto. Come onde fluttuanti i volti delle donne spingono gli sguardi su di noi. Sono sempre più profondi, alcuni protesi in tremiti sorrisi: ridono con le loro anime segregate davanti a quel dono d’autunno. Mi curvo verso di loro nel tentativo di attraversare quegli sguardi, lasciando cadere in mille morbide pieghe fili di parole affinché si perda il senso del tempo. Di quel tempo sommesso che il suono del violino di Davide accompagna fra alberi, prati e sogno. Una musica che indugia teneramente, si lascia cadere, e sale risoluta portata dal segreto della sua solitudine come un animale straniero nello spazio vuoto colmo di meraviglia. Le donne lasciano confluire l’emozione verso l’esterno mentre l’interno si espande in loro, in comune, tutto fino in tondo.

Tutte le cose sono, talvolta, presenti due volte. Avrei voluto penetrare con i miei sentimenti ancora più profondamente in ognuno di loro. Sento i loro sguardi avvinghiarsi strettamente, come il teso oscillare di due corpi che stanno uno accanto all’altro su una fune. Avvertiamo dentro di loro un crepitare di tensioni che si acquietano nella sensibilità della più piccola certezza interiore. Dietro tutti i grovigli delle loro esperienze reali sta passando qualcosa simile a uno sfondo da cui tutto si scioglie, come al caldo si destano gesti sonnolenti da un rigido freddo. L’inquietudine viene sfiorata d’improvviso da una sensazione sottile che nel suo fluire si posa su quelle facce aperte alla luce, al desiderio di strappare via da loro tutto quanto le circonda, come una pesante ondata di risciacquatura. Questo nostro primo incontro richiama il viaggio. Il viaggio circolare affidato alla recherce delle possibilità e delle alternative piuttosto che al principio di realtà. Il viaggio che permette di entrare nella propria esistenza per estrarne il senso, dipanando quel filo del tempo ritrovato che contiene l’essenza della vita vera, anche se esiliata. Riconoscere le intermittenze del cuore per percepire frammenti luminosi di una vita che, anche se straziata e dispersa nell’ombra, può magicamente costruire. Una sfumatura di luce che possa prendere forza e brillare attraverso la parola, il movimento e la leggerezza della musica e del canto che risuonano e fanno cerchio con le

note del Tempus transit gelidum, da Carmina veri set amoris, anonimo XI, El Rey de Francia e la Dance en ronde. Raggiungo ognuna di loro con “ Il giardino di Lu” di Vinicius de Moraes.

Si, il fluire di un silenzio indeterminato si carica fino a trasferirsi negli oggetti e a confondersi con qualsiasi altro palpito di vita. La parola stessa si intride di sensualità e vibra nell’eco della stanza, illuminando per un attimo quella parzialità di vite negate. Intanto le note del violino diventano libera correlazione associativa, si accavallano in un fluttuare di richiami, in una sorta di incanto dove confluiscono le minime vibrazioni e le trasformazioni dei microelementi.

Cerco di dare ancora più slancio alla mia ispirazione in una tensione appassionata della “Notte di Sine” di Léopold Sédar Senghor. Uno stato di sospensione coinvolge tutte le donne che fissano in una sorta di incantata sincronia il volto delicato di Davide che trascolora al ritmo delle note e al loro accrescimento. Siamo riusciti a fondere quella frantumazione della loro esistenza in una ricomposizione di incantamento su un vuoto, sul punto zero fra realtà e possibilità? Forse.

Intanto Chiara dona ad ognuna di loro nastrini di velluto su cui una sarta di Adonai ha cucito pazientemente fiori di stoffa dai colori più vivaci. Una dolce e tenera aria primaverile palpita tiepida nell’aria nuova. Tutte le donne hanno fra i capelli ghirlande di fiori: sembrano turgide gemme fiammanti. C’è allegria nella stanza, fiducia in quel gioco che vale la pena di giocare e di cui si può essere lieti. Il Tempus transit gelidum infrange l’atmosfera con la sua melodia e accompagna le donne di ADA nei loro movimenti. Chiara guida le danze mentre si lascia scivolare fra il fruscio delle vesti di fine damasco mentre i suoi capelli accarezzano l’aria e i piedi la terra. Sembra uscita da un ritratto di Tiziano che, dopo averla vista, non vuole che dipingere questa donna e solo lei. Leggera e altera nello stile di una soggettività che si modella nell’oggettività del mondo col suo linguaggio, nell’interezza di una luce sempre più propria. L’alternanza e la mescolanza di questi sentimenti hanno un seguito ininterrotto e creano una sorte di colloquio con il convincimento del valore di prova riposto nella sofferenza di quel luogo. Tutto sembra ricomporsi nel gran fiume, nello splendore della sua cristallizzazione. Sono immersa anch’io, inghiottita completamente da quella corrente di armonia di suoni e movimenti che brucia sottile negli azzurri della danza Sefardita. Accade, accade inverosimilmente.

Una possibilità di fuga dal luogo dell’alienazione, dal luogo della sofferenza e il ritorno alla felicità con l’idillio della Dance en ronde che permette alle donne di cogliere l’essenza della costruzione, dipanando quel filo del tempo ritrovato con la leggerezza della musica e del canto che risuonano e fanno cerchio nella farandola. Le donne di Sanquirico diventano protagoniste in un’action painting fatta col corpo in un recupero dell’espressività, nella naturalezza del gesto come corrispondenza e continuazione di un’emozione interiore. L’immagine che ho di quei momenti è ancora nitidissima, carica di una vitalità con tutta l’assolutezza e l’irragionevolezza di una passione unilaterale che ritaglia e dilata quella parte ampollosa della vita.

A Sanquirico il tempo punge, morde, trafigge ogni ora. L’arrivo di un forestiero può allietare la coscienza del disagio e la nostalgia di provare a sanarlo, così la Carmina veri set amoris, Anonimo XI diventa Uno Tutto e l’approssimazione asintotica dell’irraggiungibile infinito.

Tutte le cose raccontano, dice Stifter, con l’infinito presente del verbo, movimento e permanenza. Il tempo dell’esistenza è un viaggio che ritrova i luoghi e gli istanti della propria odissea.

La luce della sala muta di colpo. La luce ombrosa che filtra dalle sbarre viene assalita dai colori delle ghirlande di fiori delle donne di Sanquirico e getta i suoi riflessi sugli abiti fruscianti delle dame. Le guardie carcerarie sembrano divertirsi in questo fervore che prolifica di una vivace varietà di note. I suoni sono così freschi e brillanti che stringono tutte le righe del cielo, fin dove il sole ha dimenticato il Levante.

Gli autori di Vorrei
Antonetta Carrabs