I respingimenti violano i diritti umani
Da secoli, l’Italia è meta di stranieri venuti dal mare. Prima arrivarono gli schiavi greci e siriani da impiegare nelle miniere. Poi vescovi, generali e latifondisti in fuga dall’Africa dopo la caduta dell’Impero romano. E più tardi i corsari barbareschi. Oggi la rivoluzione della comunicazione e dei trasporti moltiplica i contatti tra le culture, ma più che essere considerati una fonte di arricchimento reciproco, questi contatti vengono vissuti dal mondo occidentale come una minaccia che genera paura: la paura della diversità.
“E’ barbarie non riconoscere all’altro la piena appartenenza all’umanità” dichiara lo studioso Tzvetan Todorov. La barbarie, quindi, non è una categoria culturale, ma morale. Non è nella cultura che risiede la civiltà. E’ barbaro l’islamista che compie un attentato terroristico, ma anche l’esercito americano che tortura i prigionieri. Le identità non sono barbariche, ma le situazioni sì. Accettare le culture degli altri senza paura vuol dire riconoscere la piena umanità degli altri, perché è dalla pluralità che si costruisce anche la capacità di elaborare regole comuni per gestire le diversità.
“Il diritto comunitario esige che nell’attuazione del controllo delle frontiere esterne vige il principio del non respingimento. Gli stati devono astenersi dal rimandare i clandestini in stati dove potrebbero essere esposti a tortura o trattamenti disumani. Il dovere di protezione deve essere rispettato”. (Barrot) I respingimenti violano i diritti umani. “In molti casi, le autorità respingono questi immigrati e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi…abbandonati e respinti senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale.” (Navi Pillay, Alto Commissario ONU)
Anche noi Italiani emigranti in America in cerca di fortuna
E’ triste l’emigrazione negli occhi di chi resta e vede gli altri partire per allontanarsi, a volte per sempre. Io l’ho vista negli occhi di mia madre. Lo intravedevo appena, piccolo come un fiammifero, su quella gigantesca nave ancorata nel porto, pronta per salpare. Avevo poco più di tre anni e la mia mano nella mano della mamma che piangeva, silenziosa. Non capivo perché mio padre fosse salito su quella nave, non capivo perché la mamma piangesse così tanto, non capivo perché era dovuto andare così lontano. In America, mi diceva il nonno: il papà è andato in America “in cerca di fortuna”. In tutti questi anni, nei racconti di mio padre il ricordo di quegli anni lontani da casa. Ricordi che non l’hanno mai abbandonato. Un’esperienza lacerante con quegli italiani come lui “in transito”; la convivenza con “quell’ altrove” che li emarginava perché stranieri. Le solitudini e la nostalgia in quella relazione di estraneità in cui lui, xénos, (ospite) viveva ogni giorno il proprio sradicamento per necessità.
E finchè avrò voce io continuerò ad affermare che la diversità è colore, cultura, scambio, ricchezza. La diversità ci interroga, ci provoca, ci mette in discussione. La diversità è sinonimo di vita: in campo biologico è la diversità che permette alle diverse specie di vivere sulla terra.
Con la globalizzazione siamo noi, oggi, a dover accogliere coloro che sono in “transito”, coloro che provengono da contesti culturali collocati “altrove” nel principio di uguaglianza da concepire come rispetto profondo della natura umana, di ogni essere umano nel riconoscimento della sua irriducibile diversità. La difesa della diversità culturale diventa un imperativo etico, patrimonio comune dell’umanità, nel rispetto dei diritti, che è il primo diritto-dovere della società umana.
Ogni identità è una relazione
E “diversi” non sono solo gli stranieri lontani, ma anche quelli più vicini a casa.
Oh pena dei gitani
pena pura e sempre sola!
dalla Romanza della pena nera di Garcia Lorca
«Gitano è ciò che conserva la brace, il sangue e l’alfabeto della verità andalusa e universale» dichiara il poeta durante una lettura pubblica del Romancero Gitano, nel 1926.
In un momento politico così delicato, mentre si discute di espulsioni e di Rom la pena non ha nulla a che vedere con la malinconia o la nostalgia o la sofferenza d’animo: è «una lotta dell’intelligenza amorosa con il mistero che la circonda e che non può comprendere.»
Nel giugno 2008, con l’iniziativa MITO SettembreMusica, è stato dedicato uno spazio importante alla cultura dei nomadi con una rassegna intitolata: “Il viaggio musicale dei Gitani”.
Dalla presentazione di un libro di Alain Weber Il viaggio dei gitani, specialista parigino di musica tzigana, ai “Gipsy Movies”, rassegna milanese dedicata al cinema gitano di tutto il mondo, da Israele alla Serbia, dalla Romania agli Stati Uniti, dalla Bulgaria alla Repubblica Ceca. Un omaggio alla musica vitale, con canti e balli. Un omaggio ad una lingua che non è l’inglese globale, ma il suono di un clarinetto, il cante jondo della chitarra flamenco, i ritmi dei saltimbanchi del Rajahstan che si sono trasformati a contatto con il Danubio.
Da sempre, nella loro musica, sono presenti sonorità occidentali ed orientali che si fondono. Al piccolo Regio si è suonato Schubert, al Regio danza Israel Galvàn, al Lingotto sono andati in scena gli artisti erranti del Rajasthan. Una storia gitana raccontata come una ricchezza a cui dare spazio perché essa ha origine proprio dalla musica occidentale. Basta pensare alla Carmen di Bizet, alle Danze Ungheresi di Brahms o alle Rapsodie di Liszt.
Ogni realtà è un arcipelago
“Le radici-ha scritto Edouard Glissant- non hanno da sprofondarsi nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pianta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani…ogni realtà è un arcipelago…la verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione…ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo”. (Corriere della Sera- 1 ottobre 2009)