La rubrica di Sergio Venezia: "Useremo queste righe per diventare apprendisti di chi ha ancora a cuore di restituire ai posteri il pianeta preso in prestito, la capacità di immaginare e costruire il futuro."
Vorrei raccontare una breve storia Olivier Clerc, scrittore e filosofo.
“Una ranocchia infreddolita visita una cucina e si tuffa in una pentola piena d’acqua fredda pronta per la cena e .....nuota. La pentola è stata posta su un fornello e l’acqua si riscalda molto lentamente. Piano piano diventa tiepida e la ranocchia, trovando ciò piuttosto gradevole, continua a nuotare. La temperatura dell’acqua continua a salire. Ora è calda, più di quanto la ranocchia possa apprezzare, si sente un po’ affaticata, ma ciò nonostante non si spaventa. Ora è veramente calda e la ranocchia comincia a trovare ciò sgradevole, ma è molto indebolita, allora sopporta e non fa nulla. La temperatura continua a salire, fino a quando la ranocchia finisce semplicemente per cuocere e morire. Se la stessa ranocchia fosse stata buttata direttamente nell’acqua a 50 gradi, con un colpo di zampe sarebbe immediatamente saltata fuori dalla pentola!
Morale: quando un cambiamento avviene in un modo sufficientemente lento, sfugge alla coscienza e non suscita nella maggior parte dei casi alcuna reazione, alcuna opposizione, alcuna rivolta. Allora se non siete, come la ranocchia, già mezzi cotti, date un colpo di zampe, prima che sia troppo tardi!”
E' l'esatta metafora della condizione umana di questi anni a cavallo tra il secondo ed il terzo millennio. Dal dopo guerra, nei paesi occidentali, ci siamo tuffati nella pentola del boom economico, confidando nel progresso e nella crescita illimitata e ci siamo beati fino ad ora del tepore dell'acqua. Anche oggi, mentre l'acqua si fa davvero calda e ci dà chiari segnali di disagio (i fenomeni migratori di massa, il picco del petrolio, la crisi finanziaria mondiale, e quella ecologica con la modifica del clima), guardiamo con un po' di fastidio a questi eventi che scalfiscono, per la maggioranza di noi, solo in parte le nostre abitudini.
La fiducia nel capitalismo con la sua promessa di ricchezza e benessere per molti, elargita dalla “mano invisibile” del mercato senza regole ci mantiene nell'illusione che "il nostro stile di vita non è in discussione" (Bush senior, poi Blair, poi Elisabetta II), è modello per tutti i popoli (Trumann) e “non dobbiamo modificarlo” (S. Berlusconi – 2008). Ormai conviviamo con la catastrofe, non abbiamo più da attenderla. I Governi non riescono a mantenere i loro buoni propositi: percentuale di PIL per la cooperazione internazionale, dimezzamento della povertà, riduzione delle emissioni di CO2......
E se non si riesce a livello nazionale, continentale o mondiale...... bisogna ricominciare dalle comunità locali. Scegliere e condividere valori planetari, declinandoli e praticandoli con le persone che mi vivono accanto, in brianza, nei nostri paesi, nei nostri quartieri: uscire dalla città-dormitorio e ricostruire una comunità di volti. Ci siamo abituati a pensare alla cosa pubblica come alla cosa di tutti e di nessuno, che è difficile sentire propria. Occorre passare al “bene comune” come la cosa “nostra”, mia e tua. E dirci cosa è bene comune (l'aria? L'acqua? La cultura? Il lavoro? La casa?...) perchè su quello può rinascere la politica come definizione dei diritti e dei doveri e custode del bene comune. I partiti oggi “seguono lo share”, non sono in grado di condurre alcuno al di là del proprio naso, non hanno più sogni per cui valga battersi: per ottenere una politica “nuova” è necessaria prima una discontinuità culturale e negli stili di vita.
I giovani di oggi sono la prima generazione che non vede il proprio futuro all'orizzonte. Useremo queste righe per diventare apprendisti di chi ha ancora a cuore di restituire ai posteri il pianeta preso in prestito, la capacità di immaginare e costruire il futuro.