Il riso Basmati, la bacca Ayahuasca, “kanak” e tantissimo altro. C'è chi pretende di averli inventati e per questo chiede e ottiene un brevetto.
Se chiediamo ad un ragazzino di dirci cos’è un'invenzione risponderà certo elencando la lampadina, il telefono, il cannocchiale, ma sicuramente non penserà alle fragole, né all’aglio, tanto meno alle ortiche o al grano. E invece, c’è chi pretende di aver inventato il riso Basmati, o la bacca Ayahuasca, usata da sempre dagli Indios nei riti religiosi, o il “kanak”, una speciale varietà indiana di grano, frutto di incroci e selezioni millenarie dei semi da parte dei contadini. E per questo chiede e ottiene un brevetto. Una sorta di copyright sulla vita, sulla natura, sulla conoscenza. Potremmo anche dire: biopirateria, che di questo si tratta. Oggi, la foresta amazzonica, con la sua enorme biodiversità, le varietà vegetali indiane o africane, e i millenari saperi contadini sono il nuovo Eldorado da esplorare, saccheggiare, derubare. Una miniera d’oro, per case farmaceutiche e multinazionali dell’agroalimentare.
Ecco un esempio, tanto per chiarire meglio cos’è in gioco. In India, da secoli, i contadini conoscono e usano a scopi curativi i frutti dell’albero del Neem (che, ironia della sorte, significa “albero libero”). Negli anni ’90, una multinazionale della chimica americana, la W.R.Grace chiese e ottenne la brevettabilità dei principi attivi del neem, come se ad inventarli fosse stata lei. Conseguenza: i contadini per coltivare questa pianta, avrebbero dovuto pagare. Ecco un modo per recintare la vita, privatizzando quello che da millenni appartiene a tutti. Fortunatamente in questo caso, l’”albero libero” è rimasto tale, perchè i brevetti sono stati ritirati. Le proprietà del Neem, infatti, sono descritte da secoli nei testi sacri indiani e quindi chi pretendeva di averne la paternità aveva solo scoperto l’acqua calda. Ma non tutte le vicende simili si risolvono così.
Tante sementi sono state brevettate, con la conseguenza che i coltivatori locali sono costretti a riacquistarle ogni anno dalle multinazionali. Tra l’altro, per le industrie bio-tecnologiche, non è nemmeno troppo difficile ottenere un brevetto: basta modificare leggermente il seme tradizionale e poi dichiararlo di propria invenzione. E’ evidente, che facciano a gara per controllare i brevetti su piante essenziali come il riso, il grano, il mais, la soia e il sorgo, tutte specie vegetali che stanno alla base della catena alimentare: chiunque controlli le sementi ne ha il monopolio di coltivazione, produzione, trasformazione e commercializzazione.
E’ per questo che ci piace, nella sua intelligente semplicità, l’ultima proposta di Carlo Petrini. Lo storico fondatore di Slow food, in un articolo apparso su Repubblica (12 aprile 2007), propone la creazione di una grande banca dati on line, in cui iniziare a scrivere la storia e le caratteristiche delle sementi tradizionali, patrimonio collettivo dei contadini di tutto il mondo. Un seme gettato nel virtuale, insomma. Potrebbe essere un modo, forse l’unico, per dimostrare che questi patrimoni non sono un’invenzione delle multinazionali, ma il risultato di saperi e pratiche secolari. I dati così sarebbero a disposizione di tutti, ma non spendibili per scopi commerciali, e chiunque, dalle comunità scientifiche alle associazioni, potrebbe contribuire ad arricchirli, aggiornarli, approfondirli.
Un portale d’accesso, insomma, alla bio-democrazia. Che nessuno inventa, ma a tutti appartiene.