Una nuova rubrica per Vorrei: "La palla al balzo". Il calcio può essere il punto di partenza per riflessioni molto serie.
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Una
decina d'anni fa ero allo stadio con alcuni amici per guardare una (peraltro dimenticabile, come accadeva spesso all'epoca) partita dell'Inter. Prendemmo i biglietti in curva, e ci accomodammo sui seggiolini. Prima esperienza tra gli ultras, mi ricordo solo che avevo un mal di gola fortissimo che mi impediva di cantare cori che, ad ogni modo, non conoscevo. Un nanetto mi punta da sotto il settore in cui eravamo seduti, e comincia a farmi segno di sgolarmi anch’io. Inutile spiegargli da lì che non potevo: lui allora dopo una decina di minuti e altrettante occhiatacce e gesti, sale fino a sopra con fare minaccioso per "verificare" di persona.Finalmente convinto che la mia non fosse una messinscena, si gira e all'improvviso molla un ceffone al tipo seduto di fianco, un 35/40 enne dal peso approssimativo di 120 kg e che non conoscevo. Accusato anche lui assieme a me di "non cantare", gli aveva risposto a tono vista anche la "sproporzione di mezzi in campo", per così dire.
Un attimo; l'uomo pensa a reagire, poi si trattiene. Il bullo da stadio lo guarda dritto negli occhi da sotto il cappellino, e se ne va; scende le scale, poi - forse rivolto a me - sibila "per colpa di gente che non canta c'è un fratello che si è preso uno schiaffo".
A volte la rabbia la controlli per istinto; ma la rabbia senza sfogo è capace di farsi strada di sottecchi; ti tormenta, ti cucina, ti avvelena.
Osservavo l'uomo di fianco con la coda dell'occhio. Nervoso, inquieto. Continuava a muoversi, a guardarsi attorno. Si toccava la testa. Sudava. Intorno, San Siro urlava. Uno su cinquantamila, una città di medie dimensioni raccolta attorno alla superficie di un campo da calcio. Un niente nella bolgia. Poi all'improvviso, mi accorgo il posto accanto a me è vuoto.
Purtroppo so cosa sta accadendo. Speravo ce la facesse, che resistesse, speravo che il buonsenso avesse la meglio, o che la gara diventasse così appassionante da coinvolgerlo e fargli dimenticare l’onta: non è stato così.
Muovo la testa quel tanto che mi basta per vederlo scendere ancheggiando le scalinate ripide della nord, rosso in viso, un toro che schiuma vendetta, e andare a prendere il "suo uomo", uno per la cronaca che la partita l'ha vista dando le spalle al campo.
Gli si avvicina, gli restituisce il ceffone: senza una parola. In un attimo gli sono addosso in venti. Lo buttano a terra, lo massacrano di calci. E' stata l'ultima volta che l'ho visto.
In quel momento mi sono vergognato di essere interista, e di essere tifoso. Inutile dire che non ho mai più messo piede in curva: non per paura, per ribrezzo.
Nel 2003 non c'erano i telefonini, il web 2.0 e il citizen journalism e di quel poveraccio non si è più saputo nulla. La sua storia si è persa nella notte del Meazza, proprio come si sarebbe persa quella di sabato sera.
Ma le società, tutte le società, queste cose le sanno. Le sanno, e continuano a tollerare una manica di delinquenti come tifosi, pagandogli biglietti, trasferte, e fornendoli di gadget, bandiere, solo per avere qualche coreografia nel derby, al prezzo di allontanare dallo stadio la gente che ci va per tifare, non a sfogare istinti animaleschi.
Non siete in grado di garantire la sicurezza di impianti mastodontici, dove succede di tutto? Bene, chiudeteli e giocate in altri più piccoli! Ma arrestate i responsabili. E che almeno questa volta, e a partire da questa volta, la squadra per cui tifo non mi faccia vergognare facendo finta di niente.
antoniopiemontese [ a t ] hotmail.it