Dal calcio al discorso sull'obiettività giornalistica il passo può essere breve. Provate a seguire il ragionamento, prima di chiamare la neuro.
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elle scorse settimane il campionato italiano ha ritrovato una vecchia conoscenza: Ricardo Kakà.Dato per finito, il calciatore è stato acquistato nuovamente dai rossoneri dopo un quadriennio a Madrid alla corte di Florentino Perez.
Lo sport offre, come sempre, ottimi spunti di riflessione.
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Mentre mi domandavo di cosa scrivere nella rubrica di oggi, mi sono accorto del piacere che provavo nel rivedere il centrocampista brasiliano calcare di nuovo i campi della Serie A.
Guardando la maglia numero 22 e il suo viso da bambino, ho fatto un piccolo salto indietro nel tempo: anno 2007, la seconda Champion's di Ancelotti e, probabilmente, l'epilogo della supremazia del calcio italiano, quando una finale europea poteva essere Milan-Juve e, per esempio, a Torino giocava buona parte dei 22 protagonisti dell'Italia-Francia mondiale.
Ora, chi scrive è dell'Inter: non nascondo di essermi vergognato un tantino ad "apprezzare" Kakà, uno che a noi nerazzurri ha regalato più di qualche dolore.
Provavo, in una labirintica serie di contorsioni mentali, a immaginare cosa ha significato per i cugini rivedere in campo il vecchio Ricky: e ho concluso che, nonostante la mia stima, per loro era sicuramente un'emozione più grande di quella che vivevo io.
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Da qui al discorso sull'obiettività giornalistica il passo (per il sottoscritto) è stato abbastanza breve. Tentate di seguire il ragionamento, prima di chiamare la neuro.
Cosa avrei potuto scrivere del campione milanista? mi domandavo perplesso. Quanto e come sarebbe stato differente il mio pezzo se fossi stato dall'altra parte del Naviglio?
E, per associazione, cosa significa essere obiettivi per un giornalista?
Essenzialmente, si dirà, raccontare le cose per come sono "realmente" accadute. Ma, allo stesso modo che con Kakà, la realtà cambia faccia a seconda degli occhiali che inforchiamo. Constatazione tanto banale, quanto difficile da tenere presente nel quotidiano.
Ne risulta facilmente, ed in maniera evidente, che l'obiettività non esiste. Vi si può tendere, ma una ricostruzione, quale che ne sia l'origine, resta sempre molto personale.
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Di pensiero in pensiero, colgo la palla al balzo e arrivo al punto. Come la mettiamo con il giornalismo fatto coi dati, quello che insomma vorrebbe essere equidistante da tutti e va tanto di moda oggi?
Dico la mia: mi sembra che spesso sia più pernicioso di quello d'opinione. Che, se non altro, ha il merito di giocare a carte scoperte.
Devo ammetterlo: ultimamente provo una sorta di fastidio di fronte al bailamme di cifre e tabelle che politici e colleghi sciorinano a ogni piè sospinto. Dietro l'aura della scienza e della statistica, non di rado si presentano come verità ricostruzioni più che opinabili.
Il problema, in questo caso, è che accorgersene è roba da specialisti.
Mi è venuto da pensare - continuo con le banalità a buon mercato - che chi si vende come "obiettivo", nel migliore dei casi non conosce se stesso. Nel peggiore, sta cercando di fregarci.
Ricordarsene, però, questo sì non è banale. Vivremmo meglio. E meglio informati.
antoniopiemontese [ a t ] hotmail.it