Non sapevo nulla di lui. Non sapevo che viso avesse, quale fosse il suo vero nome, non conoscevo il tono della sua voce o di che colore avesse i capelli. Sapevo che avrei dovuto cercare un mimo con le sembianze di un clown
Ho incontrato Grey qualche anno fa per le strade di Firenze. Vivevo lì da poco e spesso spendevo i miei pomeriggi liberi girovagando per le vie ciottolate di quella città, tra i suoi palazzi in bugnato, scrigni di antiche storie da narrare.
Non a caso uso il termine spendere nella maniera un po’ inglese (to spend) dove anche la vita, come il tempo, si spende.
Era arrivata la primavera, e rientravo a Firenze dopo aver trascorso qualche giorno di vacanza a casa, nel Sud Italia. Rientrando, ripensavo alle parole di una mia amica: «visto che sei a Firenze, vai a vedere Grey the Mime, vicino gli Uffizi!». Lei lo aveva conosciuto a Messina qualche anno prima, città dalla quale Grey proviene, e dove anche lui aveva deciso di spendere le sue vacanze.
Non sapevo nulla di lui. Non sapevo che viso avesse, quale fosse il suo vero nome, non conoscevo il tono della sua voce o di che colore avesse i capelli. Sapevo che avrei dovuto cercare un mimo con le sembianze di un clown e nella fantasia avevo già costruito una sua immagine.
Davanti agli Uffizi solo una serie di statue viventi ad intervallare la sequenza di uomini illustri scolpiti nelle nicchie del corridoio che collega Ponte Vecchio a Piazza della Signoria. Nell’attesa di entrare nel più famoso museo fiorentino, qualcuno in coda si gode lo spettacolo della strada. Anche io ammiro quella piazza affollata e rumorosa. Qualcuno cerca un riparo all’ombra mentre osserva la cartina della città per decidere la prossima tappa. Io intanto, in quel marasma di persone, cerco Grey senza successo. Così decido di fare una domanda a chi abita quella piazza quotidianamente.
Come da prassi lascio una monetina all’immobile Leonardo Da Vinci, che risponde facendo un agile passo in avanti e un inchino: «sai dove posso trovare Grey?» — gli chiedo, dopo aver tentato invano di sfuggire alla foto ricordo. Poi rilassa la posa e mi risponde che posso trovare Grey tutti i pomeriggi verso le 15,30 proprio a quell’angolo tra la piazza e Piazzale degli Uffizi. «Ma ora è troppo tardi» — aggiunge — «è già andato via».
Foto di David Glauso
Ci torno il giorno dopo e lo trovo li. È seduto, ha appena finito lo spettacolo, me ne accorgo dal trucco sbavato e dalla posa rilassata: poggia i gomiti sulle ginocchia, le sole che ancora riescono a dare un sostegno a tutto il resto.
Ora so che i suoi capelli sono verdi, e non perché porti una parrucca. Sono proprio verdi! Non sono solo il travestimento di un clown all’opera, ma sono il segno di un lavoro che è soprattutto uno stile di vita. È questo il caso in cui, scelto un ruolo si decide di rappresentarlo anche nella vita. L’unica maschera che si concede è quella fatta con un po’ di cerone e do henné.
Ha il respiro un po’ affannato Grey, ma non lesina un segno d’allegria quando mi avvicino e mi presento. Il suo sorriso lo precede, enfatizzato da quel poco trucco che ancora sopravvive sul suo volto dopo la performance.
Ho perso lo spettacolo ma mi invita a tornare il giorno dopo per poterlo vedere. Così faccio.
Per evitare di fare l’errore del giorno prima, vado in anticipo e lo trovo sempre li, seduto, ma con la faccia pulita. Accanto a lui c’è il velocipede con il quale è arrivato, di quelli con la ruota anteriore più grande e con una trombetta al posto del clacson.
Foto di Francesco Martinelli
Mi accoglie con un sonoro «Ciao!» e lo stesso sorriso del giorno prima, segno che non fa parte di una maschera ma di un modo di essere. Mi siedo accanto a lui mentre prende cerone e pennellino e inizia a truccarsi di bianco e di nero, due colori che alla fine dello spettacolo di fonderanno in un grigio degno del suo nome.
Poi qualche esercizio di riscaldamento, sgranchisce le gambe, tende entrambe le braccia verso l’alto come per stiracchiarsi, ondeggia con le ginocchia su e giù, fa qualche passo e… inizia lo spettacolo.
Grey è un artista di strada, fa il mimo mentre decine di persone affollano la Loggia dei Lanzi, uno dei primi spazi espositivi all’aperto al mondo. Chi arriva a quel punto del suo tour turistico giunge lì inizialmente per ammirare le sculture del Giambologna, poi finisce inevitabilmente col godersi uno spettacolo improvvisato e anche da una postazione privilegiata. Ritornano così a ripristinare l’originario compito cinquecentesco di quella loggia, cioè quello di ospitare le assemblee popolari durante le cerimonie pubbliche.
In quell’angolo tra gli Uffizi e la piazza, crocevia dei popoli per diverse ore della giornata, anche il David di Michelangelo (o meglio, la sua copia) poco lontano, volge lo sguardo agli ignari attori dello spettacolo di Grey.
E lì si compie tutto: il suono della risata cresce, diventa via via più fragoroso man mano che la perfomance prosegue fino sfociare in un sonante applauso, al ritmo del quale Grey si abbandona con lunghi inchini. A quell’incrocio di popoli e culture, per venti minuti tutti hanno parlato la stessa lingua e nessuno ha avuto bisogno di una traduzione, poiché «il mimo si serve di un linguaggio universale, che tutti capiscono» — dice lui stesso al termine dello spettacolo. Alla fine tutti allo stesso modo, hanno universalmente ringraziato ridendo e battendo le mani.
Foto di Gianni Boradori
Noto subito che una componente fondamentale è affidata al caso. Lo spettacolo cambia a seconda degli spettatori, che diventano inconsapevoli attori per qualche secondo.
Il potenziale mimico fa sì che ci sia personificazione di oggetti urbani e l’interpretazione dei passanti.
Ogni volta che torno, ci incontriamo poco prima del suo spettacolo e approfitto per fargli qualche domanda sul suo lavoro. In quei mesi avevo maturato l’idea che il senso di qualsiasi viaggio fosse fermarsi ad ascoltare chiunque avesse una storia da raccontare, e portandomi dietro una poesia di Rubén Blades, avevo iniziato a fare dei miei viaggi non solo un modo per conoscere cose nuove, ma soprattutto persone nuove. In fondo ci si sente a casa solo quando, in un posto diverso da quello in cui si nasce o si cresce, si salutano le persone per strada e se ne riconoscono le vie riuscendole a chiamare per nome.
Da lui scopro che si serve del teatro di strada come punto di rottura delle consuetudini, dei tabù e di tutti gli schemi cui le società sono abituate. Usa il mimo, ossia un linguaggio di segni universali che tutti capiscono indipendentemente dalla latitudine da cui provengono.
Come un giullare d’altri tempi diventa l’elemento di unione tra la letteratura colta e quella popolare e ridere diviene il comune denominatore per accomunare persone culturalmente diverse.
Mi racconta inoltre, che sono quasi 17 anni che fa questo lavoro. Nel 1996 ha iniziato a studiare teatro, fino ad arrivare all’espressione della sintesi mimica nel 1999.
Foto di Gianni Boradori
Ha scelto di interpretare un mimo che si alterna a un carattere clown «per non rimanere vincolato da barriere troppo rigide per la comunicazione, ma attingendo con elasticità alle multiformi comunicative insite nell’essere umano, mostrandone l’umanità esistenziale» — si legge nel suo sito internet.
Si dipinge la faccia col bianco e col nero: «vi è un punto d’incontro dove gli opposti si trovano in un’armonia estrema» — dice — «è il punto medio, che nel linguaggio del colore si traduce con il grigio. Il bianco come la forza di tanti ed il nero come la forza di un unico», il grey, appunto, il non colore e quello che li contiene tutti.
Grey è arrivato a Firenze nel 2002, quasi per caso, in occasione del Social Forum Europeo, un momento di particolare fermento culturale e artistico per Firenze, una manifestazione che vedeva protagonisti diversi artisti provenienti da tutte le parti d’Europa «oggi Firenze è molto cambiata» — mi dice Grey, mentre mi racconta di quegli anni — «non c’è più il viandante con lo zaino in spalla e quell’atmosfera delle piazze colorate e vivaci fino a tarda notte. Le piazze la sera sono vuote e spente e il viandante ha dato spazio al turista della vacanza mordi e fuggi, quella durante la quale è difficile vivere un posto e conoscerlo veramente. Se ne intravede solo una parte, come la punta di un iceberg».
Questa affermazione mi fa riflettere sull’importanza del turismo cosiddetto “del quarto giorno”, che va oltre gli scenari più noti e frequentati e ci spinge incuriositi ad intrufolarci nelle stradine più anonime di un posto nuovo alla ricerca di qualche sorpresa fino a perdersi. Accanto alle bellezze più note di qualsiasi posto ci sono i particolari, quelli che ai più passano inosservati, ma che danno quel valore aggiunto a delle cose che sono già preziose, ma che in quel momento si arricchiscono di una nuova dimensione: la nostra. D’altronde, di una città non godi solo le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà alla tua domanda.
Per questo, ogni volta che qualcuno mi chiede un consiglio su cosa andare a vedere a Firenze, nel mio personale elenco tra Ponte Vecchio, gli Uffizi e Piazza della signoria aggiungo sempre «sedetevi all’angolo di piazzale degli Uffizi e vedete lo spettacolo di Grey, perché è una di quelle cose che rinfranca il cuore, al pari di qualsiasi altro belvedere fiorentino».
Dalla piazza, dove c’è la massima libertà di interazione con le persone e con gli elementi urbanistici e architettonici, Grey passa al teatro.
Foto di Gianni Boradori
Recentemente ha dato vita allo spettacolo “The Jail – Chi è libero dentro è libero ovunque”, la cui tournée parte dal Teatro dell’Affratellamento a Firenze, per poi proseguire nella sua terra sicula fino ad arrivare a Mosca, a dicembre.
È una pantomima completamente autoprodotta che coinvolge diverse personalità: la collaborazione di Luigi Benassai (questo il nome all’anagrafe di Grey) e Giulia Cavallini per la regia, e il celeberrimo Clet in veste di scenografo, artista bretone protagonista della Street Art fiorentina, famoso per i suoi personalissimi segnali stradali sparsi tra le vie ella città.
The Jail non è solo uno spettacolo in cui si ride, ma contiene anche significati sociali e politici. Nel minuscolo spazio vitale di una cella immaginaria, Grey fa libero sfoggio di tutta la sua creatività e del suo talento, evadendo dagli schemi della classica pantomima. La riproduzione di una prigione, un costume a righe da detenuto e una serie di oggetti animati dall’immaginazione di chi si esibisce e di chi guarda, sono l’essenziale scenario di questa rappresentazione.
L’intento dello spettacolo, un atto unico in ventitre scene, è di cambiare l’immaginario del mimo: «da accattone renderlo grammaticalmente teatrale» — precisa.
Grey si prefigge di farlo con l’essenzialità propria del mimo, quella fatta di gesti e di espressioni facciali che possono comunicare tutte le emozioni del mondo. Come per la lingua dei segni, l’amore o il dolore diventano un movimento delle braccia, una mano sul petto che tocca il cuore e si muove verso l’esterno come per porgerlo a qualcuno è un segno universale d’amore.
Foto di Sergei Koultchitskii
Nella motivazione dell’assegnazione del premio Nobel a Dario Fo si legge «perché seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi».
Credo sia questo il grande merito dell’artista: riuscire con elegante deformabilità e umiltà, ad arrivare al cuore della gente e trasmettere il messaggio importante che l’arte può e deve essere per tutti, e non può essere qualcosa di elitario. A loro si deve il merito di aver avviato una grande rivoluzione culturale che ha recuperato e nobilitato un mestiere antichissimo dandogli nuove forme e contenuti. A loro va riconosciuta la virtù di divertire le folle agli incroci delle strade e di essere autori e attori allo stesso tempo, degli spettacoli che si danno nei giorni di festa, all’uscita dalla messa o, come in questo caso, all’uscita dal museo.
Il teatro è ovunque: è ovunque ci sia qualcuno che abbia qualcosa da raccontare e qualcuno disposto ad ascoltare.
Se per caso, o anche di proposito decidere di spendere un po’ del vostro tempo a Firenze andate a vederlo, perché Grey quello che fa, lo fa Benassai, come dice il suo stesso nome.
Foto di Sergei Koultchitskii