Per molte persone Miki è ancora un ex tossico, un ex detenuto un ex donna, un ex tutto. Quando sei “ex” lo sei per sempre. Ma Miki è anche altro, il suo passato gli ha permesso di diventare una persona nuova.
Ha un profilo austero Miki, dai tratti taglienti ma rassicuranti, le linee nette e decise di chi conserva un passato impegnativo. Sembra quasi un profilo greco, retaggio di quella dominazione spartana che ha dato vita a Taranto, un tempo perla della Magna Grecia e città nella quale oggi Miki vive.
La storia di Miki è una di quelle storie che ti accarezzano l’anima. Per tutto il tempo, mentre mi parla, non so se sostenere il suo sguardo profondo o concentrarmi sul mio taccuino che si fa scrigno delle sue parole che appunto sorridendo, perché mi sembra di indovinare qualcosa ogni volta che ne scrivo qualcuna. Riavvolge il nastro Miki, fino al punto in cui gli chiedo di cominciare. Iniziamo facendo un salto di trentaquattro anni nel suo passato quando, appena maggiorenne, conosce il carcere. Quelle pareti di lì a poco gli sarebbero sembrate animate per quanto fosse reale la sensazione che gli si stringessero attorno, rimpicciolendo sempre di più un già minuscolo spazio vitale.
«A chi appartieni?», inizia così il suo racconto, con la prima domanda che gli viene rivolta da una detenuta appartenente ad una nota famiglia malavitosa di Taranto.
Da queste parti del Sud Italia, questa domanda apparentemente sgrammaticata è il modo più semplice per chiedere di chi o cosa fai parte, chi sono tuo padre e tua madre. Designa un interesse nei confronti della vita altrui, della sua provenienza. «Appartengo a tutti e a nessuno» risponde Miki. È forse in questa frase che si può racchiudere il significato di tutto quello che viene dopo, tutto quello che Miki mi ha raccontato della sua vita.
Trasuda da quelle parole il sentimento di non accettazione di sé e il non sentirsi realmente parte di qualcosa o di qualcuno.
Confesso, prima dell’intervista, di non sapere bene da dove iniziare e paleso la mia insicurezza: «Spero che venga fuori un bel lavoro» gli dico. «Ne sono certo — mi risponde — Quando le cose si fanno prima con il cuore e poi con la testa viene sempre un bel lavoro». È così che ci prepariamo alla nostra chiacchierata, creando quel contatto umano che rende possibile la conversazione.
Quella di Miki è una storia di rinascita. Penso sia questo il miglior modo per riassumerla senza togliere nulla al racconto e conservandone il profondo valore umano.
Miki ha un passato di tossicodipendenza e una quindicina d’anni dei suoi 52 passati in carcere. Si definisce Resto umano, come il titolo del libro di Anna Paola Lacatena che parla di lui, per sottolineare da una parte l’essere rimasto, malgrado tutto, un essere umano, e dall’altra lo stato in cui si era ridotto prima di prenderne coscienza.
«Ho vissuto l’esperienza del carcere sempre da incosciente — mi dice — ero in un periodo di nero delirio che derivava da una non accettazione di me e di quello che ero. Avevo 18 anni la prima volta che sono entrato in carcere e mi sembrava l’ingresso in un Grand Hotel, come se non avessi la reale percezione della gravità di quello che stava succedendo. Ogni cosa che facevo era finalizzata ad attirare l’attenzione. Assumevo un atteggiamento da leader negativo, ero aggressivo e le altre ragazze mi temevano. Mi permettevano di vivere una condizione di privilegio e di privilegiato data dal timore che incutevo loro».
Questa incoscienza è andata avanti per anni, fino all’ennesima detenzione, quella che possiamo definire come il primo passo verso la consapevolezza e il cambiamento. «Le donne sono sempre dei riferimenti importanti», introduce così uno degli incontri fondamentali della sua vita, quello con la direttrice del carcere di Brindisi, una di quelle donne che è stata una pietra miliare del suo percorso di vita. Con arguzia e intelletto inizia a smontare quell’armatura che Miki aveva costruito in tanti anni e con minuziosa attenzione. «Mi disse che non le interessava cosa avessi fatto e quanti reati avessi commesso nella mia vita. Aveva il mio dossier pieno zeppo di carte sulla sua scrivania, ma non lo guardava. Mi mise con le spalle al muro, mi diede la possibilità di dimostrarle di essere una persona diversa. Prima di allora le detenute mi temevano, poi qualcosa è cambiato, hanno iniziato ad ascoltarmi. Da leader negativo sono diventato un leader positivo. Da quel momento in poi il carcere è diventato davvero un posto in cui era possibile riabilitarsi. Abbiamo ottenuto l’apertura delle celle, abbiamo vissuto momenti sociali veri, rieducativi, che ci portavano fuori da quelle stanze».
È l’esempio di un carcere in cui non avviene la spersonalizzazione e l’annullamento dell’identità del detenuto, ma dove si vive un luogo di convivialità, di quella che una volta usciti da quel posto dà una speranza e la possibilità di una riabilitazione vera nella società.
Chi vive le stanze della “pena da scontare” non è solo un numero, ma qualcuno scivolato all’indietro. Esistono molti tipi di prigioni: ci sono quelle fisiche e ci sono quelle che ci obbligano a condizioni di vita limitanti pur non costringendoci in un metro quadro di spazio. Ci sono per esempio quelle che alcuni ex detenuti sono costretti a vivere anche fuori dal carcere, quando agli occhi di molti sono visti come qualcosa di lontano, estraneo e pericoloso per sempre. «È il carcere del pregiudizio» direbbe Miki, che la sua pena l’ha già scontata. Lui si è liberato dalle sue zavorre, è l’ha fatto con poesia, l’ha fatto come i Prigioni che nelle sculture di Michelangelo, si liberano della materia superflua. Si è svincolato dal grosso blocco di marmo che aveva intorno a sé facendo leva con i gomiti e con tutte le forze del suo corpo, con lo sforzo di chi vuole tornare a nuova vita venendo fuori da quella pietra opprimente. È questo, credo, l’unico modo per sentirsi veramente liberi.
Poi aggiunge: «Se ripenso oggi a tutto il tempo che ho passato in carcere, mi chiedo come ho fatto a sopportare questa privazione della libertà». Alza gli occhi al cielo come a voler cercare una risposta.
Quando si è costretti in uno spazio limitato, penso che la prima cosa che si brami sia di poter “evadere”, di vedersi fuori da quella costrizione. Eppure Miki mi ha raccontato di essersi chiuso in bagno a piangere il suo ultimo giorno in quel carcere al pensiero di dover lasciare un posto che forse per la prima volta aveva sentito come casa, un posto al quale aveva sentito per la prima volta di appartenere.
Ma a chi apparteneva allora Miki? Oggi è Michele, prima era Michela. Apparteneva a tutti e non apparteneva a nessuno. Solo a se stesso.
Per molte persone Miki è ancora un ex tossico, un ex detenuto un ex donna, un ex tutto. Quando sei “ex” lo sei per sempre. Ma Miki è anche altro, il suo passato gli ha permesso di diventare una persona nuova.
Sono gli anni dei Duran Duran con “Wild boys” quando Miki scopre di aver contratto il virus dell’Hiv. La diagnosi dell’aids conclamata arriverà nel 1996. Accanto a queste note negative però, ve ne sono anche di positive: Miki conosce Marilena, la sua attuale compagna e frequenta per caso donne che hanno intrapreso un percorso di cambiamento di genere. Miki capisce che è pronto per un cambio radicale nella sua vita. «Ricordo perfettamente il momento in cui ho indossato la fascia contenitiva con cui ci si fascia il seno durante il percorso di transizione. Per la prima volta ho indossato una maglietta e mi sono sentito bene”.
È quello il nuovo punto di partenza, è quello l’unico modo per non essere più semplicemente ex ma un ex novo. Abbandona le sostanze stupefacenti e le fattezze femminili, inizia la cura ormonale e il percorso di psicoterapia (fasi propedeutiche al cambio di genere vero e proprio) quindi una serie di operazioni che otto anni fa gli hanno permesso di poter scrivere “uomo” sulla sua carta d’identità. Unico segno di femminilità che ancora conserva è un grosso anello che porta al dito. Impossibile che passi inosservato quando, parlando, gesticola.
Oggi Miki lavora per T Genus, un’associazione di volontariato che si occupa di tutela dei diritti delle persone transessuali e trans gender. Le attività di T Genus si basano sulla sensibilizzazione e informazione ma anche sull’ascolto, l’accoglienza e sull’assistenza legale. Si interfacciano con le istituzioni, per migliorare i servizi dedicati ai percorsi di transizione e offrono un servizio di informazione anche alle famiglie delle persone trans gender. Miki è inoltre presidente per la sede regionale di NPS Puglia onlus, network di persone sieropositive, associazione con la quale si occupa di sensibilizzazione e informazione per la prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili.
Dal momento in cui mi sono seduta accanto a lui c’è una domanda che desidero fargli e me la tengo per ultima: «Dove hai trovato il coraggio di fare tutto questo?»
«Nessuna mamma ci dice quanto ha sofferto al momento del parto. Forse non ricorda neanche più il dolore, eppure sappiamo che c’è stato ed è stato forte a giudicare dalle urla. Ma sono dolori di felicità. Ecco, io paragono sempre la mia esperienza ad una lunga gestazione. I dolori ci sono stati, ma cosa sono in confronto alla possibilità di dare vita? Sono dolori di felicità».
Quello che ci siamo detti quel pomeriggio l’ho ruminato mentre tornavo a casa. “Tutto ciò che si fa per amore va al di là del bene e del male”. Ripetevo tra me e me come un mantra questa frase, una di quelle bellissime frasi delle quali cogli il vero significato in un giorno qualunque, come un’illuminazione sul sentiero di casa.