Oltre ad essere lesive dei fondamentali diritti umani e della libertà sostanziale della persona, sono tra le cause principali delle guerre, delle migrazioni, del terrorismo che affliggono l’umanità dall’inizio del secondo millennio.
La disuguaglianza e soprattutto l’insicurezza e la povertà, oltre ad essere lesive dei fondamentali diritti umani e della libertà sostanziale della persona, sono tra le cause principali delle guerre, delle migrazioni, del terrorismo che affliggono l’umanità dall’inizio del secondo millennio.
Molti economisti si sono occupati di come affrontare questi problemi.
Ultimamente ne ho scritto su Vorrei, commentando alcune letture recenti. Vorrei provare qui a riesaminare le proposte avanzate dai loro autori, per valutarne la consistenza e le possibili sinergie. Riservandomi di estendere l’indagine.
Ricomincio da George Piketty. Nel suo “Il capitale nel XXI Secolo” egli ha esplorato i cambiamenti della ricchezza e del reddito nell’arco di oltre due secoli, dalla fine del ‘700 ad oggi. Fra i tanti risultati della sua ricerca, due mi sembrano particolarmente importanti: 1) che “la metà più povera della popolazione non possiede quasi nulla”, ovvero che ”per milioni di persone il patrimonio si riduce, più o meno, a poche settimane di salario”; e 2) che le diseguaglianze, diminuite nel corso del secolo scorso, soprattutto grazie alla diffusione delle imposte progressive sul reddito e delle istituzioni ispirate al welfare state, dopo gli anni settanta hanno ripreso ad ampliarsi, a causa di un diffuso cedimento a un liberismo economico senza freni e controlli. Anche se sul piano globale, con la comparsa sulla scena economica di grandi paesi come la Cina e l’India, si è verificato anche un processo contrario, con una consistente riduzione del numero dei poveri a livello globale.
Per combattere il progredire delle disuguaglianze, Piketty propone “un’imposta mondiale progressiva sui capitali individuali: uno strumento che avrebbe anche il merito di produrre trasparenza democratica e finanziaria sui patrimoni”. L’adozione di questa imposta dovrebbe partire dai paesi più ricchi ed economicamente più rilevanti, per poi estendersi a tutti gli altri.
Naturalmente, essa dovrebbe aggiungersi alle conquiste del secolo scorso, cioè della imposta progressiva sul reddito e dell’accesso universale ai beni e servizi dello stato sociale (sanità, scuola, abitazione, mobilità). “La redistribuzione moderna, afferma appunto Piketty, è costruita attorno a una logica di diritti e a un principio di parità di accesso a un certo numero di beni ritenuti fondamentali”.
L’adozione di tutte queste misure dovrebbe essere facilitata da una crescente trasparenza finanziaria internazionale, consentita dal progresso nelle tecnologie info-telematiche.
Piketty considera anche positivamente l’introduzione di un salario minimo, per contrastare la crescente debolezza contrattuale dei lavoratori.
Così come all’inizio del secolo scorso l’imposta progressiva sul reddito fu contrastata ferocemente dai ceti privilegiati, ma poi generalmente accettata, l’imposta sul patrimonio (e sulle eredità, che ne sono una fonte primaria) incontra oggi resistenze durissime. Basti pensare, per l’Italia, alla abolizione dell’imposta sul patrimonio-casa, che potrebbe essere applicata in modo progressivo grazie alle nuove possibilità offerte dall’informatizzazione del catasto. Non resta che sperare che col tempo si arrivi al riconoscimento della equità e della convenienza economica dell’imposizione patrimoniale ed ereditaria, per riportare a livelli accettabili le disuguaglianze.
Diverso è l’approccio di Angus Deaton, che ha ottenuto il premio Nobel per l’economia nel 2015 per i suoi studi sulla povertà.
Il suo “La grande fuga” (dalla povertà) contiene una spietata requisitoria contro le politiche di aiuti degli stati ricchi verso i paesi poveri. A suo parere gli ODA (Official Development Aids) rispondono soprattutto agli interessi dei paesi donatori, favoriscono le pratiche corruttive e le inefficienze delle strutture pubbliche nei paesi destinatari degli aiuti e, soprattutto, non solo non ne favoriscono lo sviluppo endogeno, ma addirittura lo impediscono perché distruggono le produzioni locali.
Anche nei confronti delle organizzazioni non governative (NGO) il suo giudizio è articolato, perché molte di queste subiscono le influenze delle parti in lotta e sono costrette a compromessi discutibili (come la fornitura di armi insieme al cibo). Al contrario, Deaton sottolinea gli effetti positivi delle migrazioni, sia per quanto riguarda i migranti in quanto tali che legittimamente cercano il benessere nei paesi ricchi “fornendo loro non solo bocche da sfamare, come molti pensano, ma mani e cervelli creativi”; sia per le rimesse che mandano alle famiglie rimaste nei paesi d’origine. Queste rimesse, che globalmente ammontano al doppio rispetto agli aiuti, sono a suo parere un importante fattore di sviluppo economico e di libertà (Viene in mente a questo proposito il miracolo economico italiano del secondo dopoguerra, quando la bilancia dei pagamenti italiana era alimentata massicciamente e riequilibrata dalle rimesse degli emigranti).
Secondo Deaton la lotta alla povertà si fa con lo sviluppo economico endogeno. Cita a favore di questa tesi i grandi paesi emergenti (soprattutto Cine e India), che hanno contribuito alla fuga dalla povertà di milioni di persone senza aiuti dall’esterno.
Dichiara però francamente che nessuno ha in tasca la formula per innescare lo sviluppo, in quanto esso, dove si è verificato, ha seguito percorsi i più diversi e inaspettati.
Dalle analisi di Deaton si può trarre comunque l’indicazione che un contributo monetario alle famiglie (come sono in sostanza le rimesse degli emigranti e come sarebbe l’erogazione di un reddito minimo, magari alimentato da trasferimenti internazionali), basato sulla fiducia nel loro discernimento nella scelta del suo uso, sia preferibile rispetto al dare loro beni di consumo e servizi importati dai paesi ricchi. Naturalmente bisognerebbe nel contempo assicurare a tutti le strutture e i servizi sociali fondamentali con risorse locali. La combinazione di risorse proprie delle famiglie e di servizi sociali endogeni potrebbe essere la combinazione giusta per innescare lo sviluppo.
Deaton attribuisce infine, anche se fuggevolmente, un ruolo decisivo per la riduzione globale della povertà all’istruzione. Se la povertà è negli ultimi decenni diminuita (pur riguardando ancora circa otticento milioni di persone), ciò è dovuto anche, a suo parere, al fatto che al giorno d’oggi tre quarti della popolazione mondiale è uscita dall’analfabetismo, mentre nel 1950 ancora la metà degli umani era analfabeta.
Nel loro “La nuova rivoluzione delle macchine” Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee affrontano l’ampiamente dibattuto problema della “fine del lavoro”, causata dalla progressiva sostituzione della mano d’opera umana da parte dei robot. E non solo della mano d’opera e delle attività umane dedite a lavori ripetitivi, ma anche di molte attività intellettuali, insidiate dai progressi sorprendenti dell’intelligenza artificiale.
Ciononostante, le loro conclusioni sono relativamente ottimistiche. A loro giudizio, la sorte degli esseri umani non sarà come quella dei cavalli, fatti fuori una volta per tutte all’inizio del novecento dai mezzi di trasporto a combustione interna. E questo perché gli uomini guidano o quanto meno controllano, e non subiscono, l’evoluzione tecnologica, grazie alle loro capacità ideative, al diritto di voto e alla capacità di ribellarsi, nonché al possesso del capitale. E se è vero che il computer Big Blue e i suoi discendenti sono in grado di battere qualsiasi campione di scacchi, l’essere umano, se affiancato in un torneo freestyle da un computer analogo, sarà sempre in grado di battere un Big Blue lasciato solo.
Tutto ciò non toglie che le attività produttive del futuro tenderanno ad essere svolte con una intensità di lavoro umano sempre più bassa e sempre più altamente qualificata, e che questo processo contribuirà inesorabilmente all’aumento delle disuguaglianze.
Per contrastare questa deriva, questi autori mettono l’accento in particolare sull’istruzione, a tutti i livelli, ambiti e forme. Citando Hal Varian, capo economista di Google, ritengono che ognuno dovrebbe cercare di essere un “complemento”, in realtà una guida innovatrice, di qualunque cosa, computer o intelligenza artificiale, destinata inesorabilmente a diventare poco costosa e quindi sostitutiva dell’azione umana. Secondo questa logica, essi ritengono che si debba promuovere l’imprenditorialità. come modo per agevolare il rimescolamento delle attività lavorative e il loro aumento a fronte dei tagli nell’occupazione dipendente tradizionale causati dal progresso tecnologico.
Ma soprattutto essi auspicano un cambiamento nei metodi attualmente dominanti nell’istruzione. Ritengono necessario un superamento dell’istruzione prevalentemente basata sul nozionismo, o limitata al tradizionale “leggere, scrivere e far di conto”. L’istruzione deve avere come obbiettivo la promozione dei talenti e della creatività a partire dai bambini, ma proseguendo poi a tutti i livelli e come istruzione permanente. Come modello di questa visione, McAfee e Brynjolfsson citano il metodo montessoriano, da cui provengono alcuni tra i numeri uno delle tecnologie info-telematiche, come Larry Page e Sergey Brin (Google), Jeff Bezos (Amazon), Jimmy Wales (Wikipedia). A loro parere occorre inoltre motivare i giovani a studiare di più, con anni scolastici più lunghi (che favoriscono gli alunni meno abbienti), e destinare più risorse alla formazione degli insegnanti. Come non pensare al Don Milani della “Lettera a una professoressa”?
Dal punto di vista fiscale, che costituisce il campo privilegiato per la lotta contro le disuguaglianze, McAfee e Brynjolfsson condividono la proposta delle imposte sulla rendita.
Ed anche quella di un reddito minimo, che “trova d’accordo economisti di destra e di sinistra del passato e attuali: da Friederich Hayek, Paul Samuelson, James Tobin a John K. Galbraith o Milton Friedman”.
Ma ancora migliore del reddito minimo ritengono possa essere una “ tassa negativa sul reddito”. Questa, che sembra la proposta più interessante, consiste nella erogazione di integrazioni del reddito dei meno abbienti commisurate alla differenza in meno dei loro redditi rispetto a un livello considerato come minimo vitale non tassato. La tassa negativa si configurerebbe come un diritto più che come una erogazione assistenziale, e costituirebbe un incentivo a dichiarare il proprio reddito, a cercarsi un lavoro per aumentarlo e a combattere gli effetti devastanti della disoccupazione.
Una osservazione finale: non ci sono proposte esplicite sulla riduzione degli orari di lavoro, salvo un accenno di McAfee e Brynjolfsson al fatto che a un lavoratore attuale “basterebbero undici ore di lavoro alla settimana (meno delle 15 immaginate da John M. Keynes nel 1928!) per produrre quanto produceva in quaranta ore nel 1950”. Eppure il fuori moda “lavorare meno, lavorare tutti” potrebbe servire per combattere la disoccupazione conseguente al progresso tecnologico, lo squilibrio tra redditi da lavoro e redditi da capitale, e alla fine la povertà. E del resto la fissazione di un salario minimo, generalmente condivisa come convergente sul reddito minimo, non avrebbe senso se per consentire una vita dignitosa si deve accoppiare, come tuttora avviene, ad orari eccessivi e alienanti dal punto di vista fisico e mentale.