A molti anni da Tangentopoli, il Paese non sembra essere cambiato. La politica che non fa più politica, l'antipolitica, la lezione di Berlinguer: Con l'intervista integrale di Scalfari del 1981
“Italia, sarai sempre Tangentopoli”: parrebbe un grido, una maledizione. E invece è il titolo di un giornale straniero, il quotidiano economico newyorkese Wall Street Journal. Un foglio importante, autorevole e prestigioso. Ma quel che più sorprende è la data di quel giornale: risale al 26 ottobre 1993. Ormai sono passati 21 anni eppure sembra un titolo fresco, di giornata. Nel frattempo nulla in Italia è cambiato.
Quella premonizione risulta spietatamente azzeccata. Allora fu considerata, certamente con fastidio da molti protagonisti del pasticcio italiota, una cattiveria, più che una previsione fondata. Errore. E’ esatta. La sua attualità è sconcertante.
Il 26 ottobre 1993 era un martedì. La stampa italiana si preparava ad affrontare il processo a carico di Sergio Cusani, detto anche il principino rosso, giovane e spregiudicato affarista di Borsa, di area socialista, solido ponte tra Raul Gardini e Bettino Craxi. In ballo c’era una operazione di ben 150 miliardi di lire (l’euro era ancora da venire) sborsati dall’Enimont a favore di una parte consistente della politica italiana rappresentata autorevolmente nei governi dell’epoca. Da essa prese l’avvio quella che fu subito considerata la madre di tutte le inchieste.
Sempre in quello stesso giorno, il settimanale economico MF (ovvero Milano Finanza) calcolava che i 187 parlamentari, inquisiti in quei mesi, costavano allo Stato Italiano 105 milioni di lire al giorno, per un totale annuo di 38,3 miliardi (sempre di vecchie lire).
Permettetemi di aprire una parentesi: oltre al solito ricco menù del malaffare italiota, martedì 26 ottobre 1993 è importante anche per un’altra notizia. Il mio archivio di Tangentopoli, al quale sto lavorando da anni, racconta che quel giorno i quotidiani diedero ampiamente conto di alcune straordinarie rivelazioni uscite dal carcere di massima sicurezza di Opera. Il più illustre ospite del momento, Mario Moretti, capo delle Br, aveva dichiarato: “Ho assassinato io Aldo Moro, non avrei mai permesso che lo facesse un altro”. Era proprio vero o si trattava di un depistaggio, allo scopo di salvare il presunto responsabile Prospero Gallinari o altri? A distanza di 15 anni dal tragico ritrovamento a Roma, in via Caetani, del cadavere del leader della Dc (era il 9 maggio del 1978), riprendeva vita, in quel martedì ottobrino del ‘93, la ricerca di una verità storica, che ancora oggi non è del tutto completa. Chiusa parentesi.
Abbiamo detto del Wall Street Journal, ma in tema di premonizioni o di felici intuizioni sul nostro futuro potremmo fare un ulteriore salto indietro, un salto di 13 anni abbondanti, e fermarci alla famosa intervista che Enrico Berlinguer concesse al direttore di la Repubblica, Eugenio Scalfari (la trovate intergrale a fondo articolo).
Siamo nel luglio del 1981, esattamente il 28 luglio, altro martedì da consegnare alla storia.
“La questione morale - diceva l’allora segretario generale del Pci - non si esaurisce nel fatto, che essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale nell’Italia di oggi fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei Partiti governativi e delle correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo …. che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché io dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri Partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche “.
La politica va intesa non come mestiere, o una occasione ghiotta per fare soldi o qualche affare. Bensì come una missione sinceramente democratica, disinteressata e scrupolosamente corretta.
Il che significa che la politica va intesa non come mestiere, o una occasione ghiotta per fare soldi o qualche affare. Bensì come una missione sinceramente democratica, disinteressata e scrupolosamente corretta.
Enrico Berlinguer ricordava anche che “nel ’45, nel ’48 e ancora negli anni 50 e sin verso la fine degli anni 60 “il confronto tra i Partiti era caratterizzato da “grandi dibattiti, grandi scontri di idee e certo anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante ! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e , al di là delle asprezze polemiche, n’era ricambiato “.
La politica quindi deve essere una buona politica, altrimenti è destinata a generare essa stessa l’antipolitica. Non è la prima volta che lo sosteniamo. Non c’è dubbio alcuno che l’antipolitica sia portatrice di pericoli e che quindi vada denunciata, ma prima di tutto devono essere individuati e colpiti coloro che ne sono la causa prima.
“I Partiti - proseguiva Berlinguer - hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali “. E non va bene.
Oggi, tra gli occupanti, occorre aggiungere la mafia, la ‘drangheta che nel 1981 erano fenomeni, gravi ma circoscritti ad alcune regioni. Ormai sono dappertutto: Milano e la Lombardia ne sono pieni, la nostra Brianza è addirittura in prima fila, per tenerle a bada si è stati costretti a nominare un commissario nazionale, a capo di una apposita struttura. E il lavoro certo non gli manca.
Che fare? “Noi pensiamo – proponeva nell’81 Enrico Berlinguer - che il privilegio vada combattuto e distrutto dovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi e gli venga data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni; che certi bisogni sociali e umani, oggi ignorati, vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica deve essere assicurata “. Giusto.
Il governo Renzi ha annunciato dei provvedimenti che quando (ma quando?) entreranno in funzione dovrebbero far riflettere i ladri e gli amici dei ladri, i loro protettori. Non sono gran cosa ma – come si suol dire — “piuttosto di niente è meglio piuttosto “. Come capo del governo qualcosa ha certamente sbagliato. In “un paese di ladri” la prima cosa da fare sarebbe stato dar loro guerra. E fornire degli esempi positivi. Dei fatti e non delle chiacchiere.
C’è una spending review da applicare non solo nella spesa pubblica ma nel sociale. Cosa vogliamo dire? Se la situazione del Paese è difficile, se bisogna trovare quattrini per investire e creare lavoro, c’è da impostare (non dico da realizzare subito) una azione di risanamento morale attraverso le parole (e Matteo Renzi in proposito è bravissimo) ma anche attraverso l’azione della Guardia di Finanza e tutti quegli organismi che controllano il reddito degli italiani. Il Paese ha bisogno di una profonda operazione di giustizia sociale in modo da attenuare certe scandalose e insopportabili differenze e cancellare privilegi assurdi che gridano vendetta. E farne quotidiana propaganda. Solo in questo modo ci si poteva presentare agli italiani chiedendo sacrifici. Invece si è scelto l’art. 18 nella convinzione assurda che gli investitori esteri in Italia non vengono perchè non si poteva licenziare liberamente. Questa tesi, per la verità molto berlusconiana, è tutta da dimostrare. E il malaffare, le tangenti, la burocrazia, le infrastrutture che mancano o sono insufficienti dove le mettiamo? Non fanno forse parte del paesaggio italiano? Questi sono i veri ostacoli.
Poi, come segretario generale del Pd, Matteo Renzi dovrebbe fare l’analisi del sangue dei suoi collaboratori e non sorprendersi di certi arresti o di imbarazzanti coinvolgimenti. I ladri vanno cacciati ma devono anche essere individuati e allontanati per tempo. Altrimenti sfasciano la più bella delle costruzioni che si può avere in mente. I gufi non fanno male, i ladri e i profittatori senza scrupoli si. E parecchio anche.
Caro Berlinguer quanto ci manchi !
Intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».
«La Repubblica», 28 luglio 1981
La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.