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Enrico Calamai, Edda Pando e i migranti in fuga da Africa e Medio Oriente: diretta conseguenza del nostro comportamento in politica internazionale: questo vale anche per i migranti economici, non solo per i rifugiati politici.

Arcore, 11 ottobre 2015. Una lezione più che interessante, densa di informazioni preziose e inquietanti testimonianze, quella che Enrico Calamai e Edda Pando hanno tenuto per «Università Migrante», la rassegna di lezioni e workshop organizzata da Arci “Blob”, sul fenomeno delle migrazioni.

Enrico Calamai è un ex diplomatico, vice – console a Buenos Aires dal 1976 al ’77, durante la dittatura del generale Videla. Edda Pando è un’attivista a favore dei migranti scomparsi nel Mediterraneo, coordinatrice della Rete Sportelli Immigrazione di Arci Milano e fondatrice di Arci Todo Cambia, in prima fila nell’associazionismo migrante.

In questa lezione, Enrico Calamai e Edda Pando ci raccontano un’altra realtà, diversa da quella mostrata dai media. Ci rivelano i retroscena nascosti di quello che sta accadendo nel Mediterraneo sotto i nostri occhi, ma di cui pochi si sono accorti. Tengono l’uditorio col fiato sospeso, mentre sullo schermo scorrono le tracciature satellitari di un gommone carico di migranti, avvistato da diverse imbarcazioni, ma lasciato alla deriva per giorni e notti intere, abbandonato al suo destino, infine inghiottito dal nostro spietato mare.

I migranti economici non migrano per piacere, ma perché il proprio paese è stato depredato e sfruttato dalle potenze coloniali

Come prima cosa, Calamai spiega nella sua lezione quali sono le cause storico-politiche dell’incremento dei flussi migratori in Europa negli ultimi anni.

«Dopo la guerra fredda, la Nato e l’Europa hanno imposto i propri interessi nel mondo, spogliando gli stati delle proprie ricchezze energetiche al fine del benessere di pochi paesi occidentali. I paesi dell’Africa, del Medio Oriente, sono stati trasformati dall’Europa e dalla Nato, al punto che non è più possibile viverci: non si può vivere in un Iraq bombardato, dove gli edifici principali sono stati rasi al suolo. Questo enorme afflusso di persone in Europa è conseguenza diretta del nostro comportamento in politica internazionale: questo vale anche per i migranti economici, non solo per i rifugiati politici. I migranti economici non migrano per piacere, ma perché il proprio paese è stato depredato e sfruttato dalle potenze coloniali».

L’ex diplomatico prosegue il suo discorso svelando la linea della politica estera che sta perseguendo l’unione Europea.

«Quest’affluenza di persone proveniente da paesi in guerra è destabilizzante ed è un pericolo per i paesi Occidentali, perché questi portano avanti politiche di taglio neoliberista, con il taglio della spesa pubblica al primo posto. In realtà, è il contrario: è proprio il taglio della spesa pubblica a essere destabilizzante, non l’immigrazione in sé. Da una parte, gli stati hanno il diritto e il dovere di mettere i visti di ingresso, di rafforzare i controlli delle coste, affinché non arrivino terroristi; dall’altra parte, queste misure vengono preso in modo concertato dall’Unione Europea, la Nato, insieme ai paesi non democratici del Nord Africa, allo scopo di fare del Mediterraneo la terra di nessuno».

I morti ufficiali dal 2000 a oggi sono circa 23.000 (fonte: www.themigrantsfiles.com), ma quelli reali sono molto di più, anche se non sono documentati. A questo punto, la lezione prosegue cercando di dare una risposta ad alcuni interrogativi, che lo stesso Calamai si pone: perché si muore nel Mediterraneo? Qual è il vero obiettivo dell’esternalizzazione delle frontiere?

«Con l’esternalizzazione delle frontiere, la vista dei cadaveri è stata eliminata, i giornali non ne parlano. Invece si sa tutto, attraverso il sistema di droni e satelliti, che tiene sotto controllo tutto ciò che avviene in Africa, nel deserto, nel Mediterraneo: da qualche parte c’è qualcuno, dietro uno schermo, che vede e monitora ogni barchetta che va verso la fine, ma non fa nient’altro. Navi militari, elicotteri e imbarcazioni civili segnalano puntualmente la presenza dei barconi o dei gommoni alle autorità, ma queste non possono intervenire oltre un certo limite esterno. Questi sono crimini di lesa umanità, i cui responsabili sono unicamente gli Stati, colpevoli di mancato soccorso».

Ma ci sono anche quelli che non riescono ad arrivare, di cui non si parla: per questo parlo di nuovi desaparecidos

Secondo Calamai, le attuali sparizioni forzate nel Mediterraneo manifestano una netta analogia con l’Argentina della dittatura militare del 1976. Questi morti sono, per l’ex vice-console argentino, i ʽnuovi desaparecidosʼ dell’Europa.

«La somiglianza col passato sta nella stessa decisione politica di eliminare un certo numero di persone, facendo in modo che l’opinione pubblica non lo sappia. Quando una fiumana di umanità dolente riesce a sbarcare, riesce anche a bucare lo schermo di indifferenza mediatica. Ma ci sono anche quelli che non riescono ad arrivare, di cui non si parla: per questo parlo di nuovi desaparecidos. Questa è una precisa scelta politica perché, se non c’è un rito funebre, l’umanità continua ad aspettare. L’umanità non può accettare una morte senza la restituzione del corpo: finché si aspetta e si continua a sperare, non si scende in piazza a protestare. Questo è stato molto utile in Argentina al tempo della dittatura militare».

Queste parole dell’ex diplomatico ricordano quelle dello stesso dittatore Jorge Rafael Videla, il cui progetto politico era sfrontatamente dichiarato: «è un’incognita il desaparecido […], finché è desaparecido, non può avere un trattamento speciale. È un desaparecido, non ha entità. Non è né morto né vivo, è desaparecido. Di fronte a ciò non possiamo fare nulla». A questo punto, Calamai fa un passo indietro nel tempo, per svelare il legame fra due situazioni storiche in apparenza lontane, il golpe argentino del ’76 e le attuali stragi del Mediterraneo.

Non si vuol far sapere all’opinione pubblica un certo numero di morti, che un certo apparente equilibrio socio - economico comporta

«Ci sono delle notevoli analogie fra i desaparecidos argentini, morti per mano dei militari negli anni ’70 e le persone scomparse in questi anni, durante il viaggio per arrivare in Europa. La prima è che sono stragi decise a livello politico: nel primo caso, ordite dalla dittatura, nel caso odierno, volute dai governi della Nato e dell’UE. Queste stragi hanno caratteristiche simili: in Argentina, i cadaveri non si trovavano, mentre i servizi di informazione non li segnalavano. Questo avviene ancora oggi, perché non si vuol far sapere all’opinione pubblica un certo numero di morti, che un certo apparente equilibrio socio - economico comporta. L’obiettivo è il seguente: finché viviamo in una situazione tranquilla, ciascuno col suo lavoro, la sua vita, abbiamo la tendenza a non vedere. Anche se vediamo arrivare gente dall’estero, non sappiamo quanti sono quelli che partono e non arrivano, quindi non ci poniamo il problema. Invece, sono stati scelti dei metodi per far sparire i morti: la vista dei loro cadaveri ci avrebbe posto dei problemi, quindi sono stati fatti sparire con una scelta ben precisa».

30.000 furono i desaparecidos nell’Argentina del generale Videla: l’ex diplomatico prosegue la narrazione di quei tempi svelando come emerse, nonostante la dittatura, il problema dei desaparecidos.

«Le autorità argentine volevano negare il problema stesso, la stessa identità dei desaparecidos, in virtù del fatto che non c’erano prove delle sparizioni e soprattutto non c’erano i cadaveri. La posizione presa dalle famiglie fu fondamentale per far emergere il problema, perché il dolore profondo per la scomparsa dei figli era qualcosa di viscerale per le madri: nessuno forniva spiegazioni, ma loro non potevano tacere, quindi già durante la dittatura furono costrette a uscire e rischiare la vita, per cercare i figli negli uffici di polizia, nelle prigioni, negli obitori, per poi organizzarsi e muoversi politicamente. Il problema principale era l’invisibilità del figlio, dovevano attirare l’attenzione su un soggetto che non si vedeva più, senza identità. Lo risolsero così: le madri iniziarono a girare per Plaza de Mayo a Buenos Aires mostrando le foto dei figli. Camminavano insieme, resistendo con la forza della disperazione a ogni tentativo per farle desistere, agli insulti, alla polizia a cavallo, fino al campionato di calcio del ‘78, quando ci fu una svolta: il fatto che ogni giovedì camminassero in piazza, attirò l’attenzione dei giornalisti arrivati dall’estero, facendo emergere il problema dei desaparecidos agli occhi dell’opinione pubblica mondiale».

Calamai prosegue svelando come, dal riconoscimento della società civile, si è giunti alla svolta politica.

«L’emersione del problema a livello pubblico è stato il primo passo per attivare una scelta politica. Le madri dicevano “aparicion con vida de los 30.000 desaparecidos”, “li vogliamo in vita”, anche se sapevano che non era più possibile. Con questi slogan, le madri volevano dire “noi vogliamo verità e giustizia, non basta che dire che i nostri figli sono morti, vogliamo che non succeda più e che i colpevoli siano condannati”. Questo è stato un processo storico politico lunghissimo, molte di queste donne sono state anche ammazzate, ma alla fine i processi in Argentina ci sono. Continuano ad apparire persone, attraverso la figura caratteristica del nipote. Infatti, quando le ragazze sequestrate erano incinte, erano tenute in vita fino al parto, dopodiché il figlio veniva portato via e la donna era ammazzata. Il bambino o la bambina veniva affidato alla famiglia di un militare o a una coppia amica. Di questi cinquecento figli scomparsi all’epoca, solo un centinaio ne è riapparso di recente. Tra questi, il nipote di Estela Carlotto, presidente della Associazione delle abuelas, le nonne di Plaza de Mayo:  Guido Montoya Carlotto, che è riapparso a 36 anni, quando ha saputo della sua vera identità. La ricerca dei nipoti continua ancora oggi in Argentina e ricorda la situazione in cui siamo ora, perché si tratta di sparizioni forzate».

Oggi i giovani hanno una visione falsamente ottimistica della realtà, ma non hanno gli strumenti intellettuali per poterla leggere criticamente.

A questo punto un ascoltatore chiede a Calamai quali sono le differenze sociali e culturali fra l’Argentina degli anni ‘70 e l’Italia di oggi, cosa è cambiato nella coscienza sociale collettiva.

«La società occidentale di oggi è molto più condizionata dal sistema mediatico, che è essenzialmente iconografico: vi è un continuum di selfie che ci propone una mitopoietica di noi stessi, una specie di cupola a occhio di mosca in cui ci vediamo rappresentati come vorremmo essere, a prescindere dal fatto che corrisponda o meno alla verità. Oggi i giovani hanno una visione falsamente ottimistica della realtà, ma non hanno gli strumenti intellettuali per poterla leggere criticamente. Se un ragazzo vede oggi un povero chiedere l’elemosina, attribuisce la colpa del suo status di povero a lui, non alla crisi economica: poiché questa immagine reale non corrisponde alla visione mediatica che gli viene trasmessa quotidianamente, è colpa del povero se è povero, non nostra, non della crisi».

Qualcuno dall’uditorio chiede a Calamai cosa si può fare per sollevare a livello mediatico il tema delle sparizioni forzate.

«Se noi, in quanto società civile, non prendiamo coscienza di quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, non sono solo loro a morire, ma una parte di noi, della nostra civiltà. Invece, viviamo una situazione di indifferenza generale, perché c’è una scelta politica di non far sapere all’opinione pubblica l’esatto numero di morti che questo apparente equilibrio socio economico sta causando. All’informazione di chi vuol far passare queste morti e queste sparizioni come fatti normali - dovuti alla mancanza di carburante, al mare grosso, alla crudeltà degli scafisti e dei trafficanti di esseri umani - bisogna opporre una controinformazione per incidere nell’opinione pubblica e svegliare la coscienza civile, parlando di chi non arriva. Siamo tutti responsabili  - conclude Calamai - mentre con la partecipazione attiva della società civile si può arrivare a cambiare le cose».

Che cosa invece, chiede qualcun altro, si sta già facendo per affrontare il problema degli scomparsi?

«Alcuni genitori originari di paesi del Nord Africa – riferisce Edda Pando - si sono riuniti in associazioni che hanno lo scopo di ritrovare i figli scomparsi. Qualcuno di loro è partito, ma non è mai arrivato; qualcun altro è arrivato in Italia, è stato identificato con le impronte, ma in seguito se ne sono perse le tracce». I padri cercano i figli nei campi profughi e nelle città della Sicilia, le madri scrutano per ore e ore ogni fotogramma dei telegiornali, per riconoscere il volto del figlio. Intanto, dal 18 giugno 2015, gruppi di attivisti italiani a favore dei migranti scomparsi nel Mediterraneo si ritrovano in cinque piazze italiane, tra cui Piazza della Scala a Milano, con in mano le fotografie di alcuni dei migranti dispersi, (fonte: todocambia.net).

Anche se ci sono poche probabilità di ritrovare questi ragazzi in vita, c’è una lotta da fare per ottenere giustizia, perché non succeda più.

«Bisogna fare in modo – continua l’ex vice console - che questi morti acquisiscano un volto e non siano solo un numero. Bisogna seguire l’esempio delle madres di Plaza de Mayo, che con la marcia del giovedì e la sola foto, hanno trovato il modo di dare un viso e far apparire mediaticamente il figlio scomparso. Anche se ci sono poche probabilità di ritrovare questi ragazzi in vita, c’è una lotta da fare per ottenere giustizia, perché non succeda più. Si può subire un crimine, un delitto, ma c’è bisogno di uno stato o di un’istituzione che dia giustizia, altrimenti viene meno la base del buon vivere sociale».

L’ultima domanda riguarda le strategie politiche, fra legge di stato e legge morale, da adottare per affrontare l’attuale emergenza migranti in Europa.

«La prima cosa da fare è rimuovere gli ostacoli che provocano la morte di coloro che cercano di raggiungere l’Europa. Parlo dei famosi corridoi umanitari: le ambasciate dei paesi di transito devono poter concedere i visti temporanei di protezione umanitaria, che permettano ai titolari di prendere un aereo, venire in Italia, Spagna, Grecia e sottoporsi agli esami necessari del caso, per richiedere i documenti. Inoltre, l’Unione Europea deve prendere coscienza che questo massiccio afflusso di migranti è provocato dalla sua stessa politica estera, aggressiva e militaristica, perciò è giusto organizzare un’assistenza degna di tale nome e di chi la riceve Questo vuol dire che occorre dividere la cifra totale di migranti giunti annualmente in Europa, al fine di distribuirli in tutti i Paesi dell’UE. Non è possibile che i Paesi membri rifiutino dei rifugiati, devono adeguarsi ed eseguire le leggi democratiche dell’Unione Europea. Non abbiamo bisogno di muri, reti, fili metallici, ma abbiamo bisogno di controlli efficienti, di libertà di movimento, di un’assistenza equa distribuita fra tutti i membri dell’UE. È molto semplice» conclude Calamai.