Passeggio per la città e scelgo le piazze affollate o le lunghe vie. Giorni di pioggia si alternano a giorni già caldi e ognuno cerca il proprio riparo.
Poi vedo gente che si incontra per qualche preciso motivo e gente che si incontra per caso.
Infine seleziono i comportamenti e gli atteggiamenti che indicano un obiettivo, un desiderio, una condizione, in relazione a qualcosa che non sempre trova “un’oggettivazione” all’interno dell’immagine.
Non credo di voler fare nulla di diverso da un piccolo reportage.
Passeggio per la mia città con un occhio nuovo tra le mani e ci gioco tenendomelo stretto, convinta che solo lui possa permettermi di guardare “ancora”, di osservare il mondo con occhi curiosi.
Dico mondo perché le mie fotografie potrebbero essere svincolate da un preciso contesto, cioè da un’unica e definita interazione tra la mia immagine e chi la guarda. Eppure credo che Monza possa emergere.
Non mi dilungo ulteriormente, come fece la Narrative Art degli anni ’60, che in parte toglieva alle immagini, a mio parere, il loro carattere d’immediatezza, il loro potere che sta nella “forma breve”.
La serialità e le didascalie sono i soli strumenti che – sul piano semiotico – possono aiutare il fruitore ad orientarsi nel verosimile delle immagini, in ciò che c’è di artistico e in ciò che c’è di documentale.