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Riceviamo e pubblichiamo.

C

i sono sistemi scolastici che cristallizzano il futuro dei giovani, fotografando la stratificazione sociale così com’è e mantenendola, e altri che, quantomeno, si provano ad offrire le occasioni per modificarla. Non è questione di destra o sinistra: persino un governo sapientemente conservatore, nella situazione italiana, si preoccuperebbe di offrire più opportunità di imparare e sapere a chi non le ha, visto che di saperi e competenze avremmo più bisogno.

Se non lo fa, qualsiasi governo esce dalla normale dialettica riformismo/conservatorismo e si dimostra, più semplicemente, reazionario.

E’ a partire da questa considerazione che inviterei a non sottovalutare per niente faccende come il tentativo di reintrodurre il grembiule, il riportare in auge il problema della condotta come fosse una questione relativa alla sicurezza (contro il bullismo) e non all’educazione, quello – l’ennesimo – di ripristinare canali formativi separati per elites dirigenti e masse eseguenti.

Non si tratta solo di foglie di fico offerte all’opinione pubblica per far passare altro di più pericoloso e recondito: sono, invece, i germogli visibili di una concezione della società che corrode e mina alla base persino i presupposti di un tranquillo liberalismo, altro che por rimedio ai disastri del ’68.

La scuola pubblica, e chiunque abbia letto un manuale di storia dell’educazione lo sa, non è sempre esistita. Per lungo tempo l’istruzione, i saperi sono stati monopolio assoluto di potentati di vario genere, temporale o sacro. Laddove esisteva una qualche forma di istruzione per tutti, quasi fino al XIX secolo era concepita come forma di assistenza caritatevole (bisognava pur insegnare quantomeno il catechismo, ai poveri…), come strumento di controllo sociale (meglio a scuola che a mendicare o rubare…), come intervento per costituire le risorse umane necessarie da immettere sul mercato del lavoro, quasi sempre in posizione variamente subordinata.

L’affermazione dell’istruzione come diritto dell’individuo a provarsi, quantomeno, a sperimentare le proprie potenzialità è nata da rivendicazioni che, incarnate dal pensiero religioso riformatore o dal mutualismo solidale utopico o socialista, hanno richiesto fatica, esperienze, tempo per emergere.

In questo senso, il diritto al sapere fa parte del complesso dei diritti che, tanto nelle dottrine liberali o socialiste che nell’insegnamento cristiano sono connessi alla persona, sono la PERSONA.

Ha a che fare solo in seconda istanza con il tema dell’egualitarismo, e non ha niente a che fare con le sue forzature eventuali (il 6 per tutti e le promozioni facili), cui pretenderebbe di opporsi un liberismo più attento, invece, alla valorizzazione dell’individuo attraverso la premiazione dei suoi meriti e, implicitamente, la punizione dei suoi demeriti.

I diritti della persona come merci contrattabili?

Ciò che viene fatto passare, attraverso questa dicotomia, è una prassi discriminante, che identifica anche i diritti civili individuali come merci la cui disponibilità può legittimamente assumere andamento variabile, soggetto alle fluttuazioni di mercato: il che, pur se vero nella concretezza di molte situazioni, non può esser certo assunto come principio di riferimento.

La fluttuazione del mercato dei diritti della persona, che vede ampliarsi le possibilità di usufruirne oltremisura per pochi e l’impossibilità di accedervi pienamente per altri, è ovviamente influenzata dalla natura del contratto sociale che si stabilisce, nei rapporti di forza e nei dettagli, tra i componenti una collettività, le loro rappresentanze, le istituzioni chiamate a mediare e definire il quadro complessivo delle relazioni, dei bisogni, delle priorità.

Ma i diritti individuali civili, quelli che costituiscono l’essenza dell’esser cives o citoyen e niente di meno, non possono entrare in questa contrattazione, tantomeno surrettiziamente o mascherati d’altro.

Il diritto al sapere è eguale a quello a respirare, a cibarsi, a muoversi, a difendere e accudire la propria salute. Se oggi viene messo in discussione facendone oggetto di mercato, è perché parimenti tutti gli altri sono stati messi in discussione e basta guardarsi attorno per accorgersene.

Si respira aria inquinata, il costo della vita aumenta, le prestazioni sanitarie diminuiscono o si fanno esose, l’unica mobilità assoluta garantita – e con i risultati che abbiamo sotto gli occhi con i crack finanziari – non è quella degli individui ma quella dei capitali, puliti o sporchi che siano.

Il merito: un argomento discutibile

Nell’attaccare il diritto al sapere si usa, spesso, l’argomento che il sapere viene acquisito soprattutto per merito individuale: dunque, chi non raggiunge alti livelli di cultura o di competenze spendibili non lo fa anche per demeriti propri. E’ una affermazione diffusa ed usuale, verificabile an che per converso: chi non sostiene, oggi, che il recupero della serietà della scuola pubblica sta anzitutto nel ritrovare un quadro che premi l’impegno individuale e lo assuma come modello di riferimento per chiunque?

Quasi nessuno, eppure un’affermazione simile contiene un elevato grado d’ipocrisia consapevole.

Il merito, e tutte le ricerche sociologiche condotte ovunque lo dimostrano, è solo minimamente disgiunto dal censo e da altre condizioni materiali privilegiate. La stessa indagine OCDE/PISA, che tutti usano per sbandierare sotto il naso della scuola italiana e di chi ci vive e lavora le palesi inadeguatezze, dimostra da decenni la fortissima correlazione tra ambiente, consuetudini di vita e successo e insuccesso scolastico. Può sembrar banale, ma forse è meglio ripeterlo che, laddove un bimbo viva circondato da attenzioni, sicurezze, strumenti e prassi che lo orientano ai saperi, incontra anche successo scolastico in proporzione assai maggiore.

Questo non è un dato prodotto da una forzatura ideologica preconcetta, ma un esito confermato da decenni di raccolte statistiche dell’OCDE, dell’Unesco, dell’ONU, di istituti nazionali e internazionali di ricerca.

Perché negarlo o caricaturizzarlo, allora? Ammettere che così vanno le cose significa forse ridurre strumentalmente il ruolo del merito individuale, cioè dell’impegno erogato? No di certo, significa però che - anche nella distribuzione delle componenti che concorrono a definire la natura del merito - operano forti diseguaglianze: non tutti si presentano sul “mercato del merito” con i medesimi requisiti e non solo (come piace a molti pensare) poiché le attitudini genetiche individuali sono diverse, ma perché diversa è la disponibilità reale degli strumenti per realizzarle compiutamente. Per disponibilità, è ovvio, non s’intende solo e tanto la disponibilità concreta di un bene o di uno strumento, che pure conta: ma il supporto alla competenza per desiderarlo, farlo proprio e utilizzarlo consapevolmente e correttamente.

Il merito, in situazioni del tutto o pesantemente ineguali, diventa anch’esso una foglia di fico, messa purtroppo non solo dal ministro della Pubblica istruzione attuale ma invocato a destra e manca come soluzione salvifica, come metro di misura – addirittura – di un corretto ed equo funzionamento della società nel suo insieme.

Non ci sarebbe nulla di sbagliato nel sostenere una tesi simile, se si trattasse di dibatterne in astratto.

Ma, nel concreto del crogiolo sociale, il “merito” è esattamente come ogni altra merce: disponibile in misura e a condizioni profondamente diseguali, al punto tale che – nella realtà – siamo costretti contraddittoriamente a vituperarne l’assenza (ah, i bei tempi nei quali c’era…) e a rilevarne la presenza artefatta, di fronte a repentine e poco comprensibili carriere. Salvo poi dimenticarcene, così da evitare di considerare che, forse, posta nei termini nei quali la si pone la questione ha solo carattere liturgico e taumaturgico (soprattutto per chi ritiene di esser meritevole).

Costruire il merito

Quel che una scuola pubblica e che una sinistra democratica dovrebbero con molta più convinzione sostenere, è quindi che il “merito” stesso è qualcosa che richiede interventi perché sia costruito e costituito, e questi interventi non riguardano esclusivamente l’individuo chiuso nel suo solipsismo o nei suoi limiti.

Il fatto che questo processo di costituzione del merito sia influenzato anche da vicende ed esperienze che si allungano oltre la vita del singolo individuo, rende indubbiamente più facile, in molti casi, occultarne l’origine, la durata, la natura specifica. In sostanza: identificare pubblicamente cosa realmente concorra a definirlo.

E rende più facile, assurdamente, introdurre surrettiziamente – in una società come quella italiana che dell’etica del protestantesimo non ha mai recepito nulla! – una nozione di merito/demerito ricondotta quasi esclusivamente alla responsabilità dell’individuo. Una sorta di marchio che si imprime nella sua carne, nei suoi pensieri, nei suoi atteggiamenti e dal quale tocca a lui redimersi. Un marchio che, proprio perché lo “colpevolizza”, consente nello stesso tempo a chi dovrebbe misurarsi a fondo col problema di aiutarlo a “redimersi”, di esautorarsi dalle proprie responsabilità o, quantomeno, di alleggerirne il peso.

Il colpevole, una volta riconosciuto come tale potenzialmente già all’inizio del suo percorso educativo, sarà dapprima irretito in un labirinto di istruzioni/ingiunzioni/norme che lo rendano portatore consapevole della propria responsabilità, esattamente come in un itinerario focaultiano. Al punto che, quando l’esistenza stessa erogherà la sanzione o la pena finale in forma di declassamento sociale o professionale, finirà o per accettarla come pura responsabilità propria o per svilupparne una sorta di nevrosi antisociale estesa ma impotente e autodistruttiva.

Così anche la carica eversiva che era contenuta – fin dalla costituzione della scuola pubblica - nella ribellione a una macchina sociale che distribuisce in modo diseguale non solo i beni ma, soprattutto, l’opportunità di provarsi ad attingerli, si trasforma in frustrazione, senso di colpa, disistima, nevrosi, auto emarginazione, auto limitazione: tutto materiale innocuo, per chi comanda e chiunque comandi.

E’ comprensibile che percorsi che giungono a questi esiti li attivi un governo di centrodestra, e li condivida appunto una parte d’opinione pubblica reazionaria che, nell’attribuire ad altri ogni demerito (da quello di non esser ricco e sano e bello a quello di non esser colto e competente…) distrugge i diritti civili altrui e legittima come meriti propri anche quelli che meriti non sono per nulla: è, questa gente, alla ricerca del modo di ricreare l’universo prima della rivoluzione copernicana per porsene al centro.

Che a questi percorsi offra – in tv, sulla stampa o nei convegni – legittimazione teoretica, ideologica e culturale tanta parte dell’intelligenza riformista assecondando acriticamente la versione interessata del “merito” che richiamavo, dimostra che anche l’intelligenza – ed i meriti che ad essa si vorrebbero legati – sono un bene la cui scarsità si accentua vertiginosamente.

Dire che noi abbiamo bisogno di una scuola che torni a premiare il merito, infatti, significa dir poco o nulla: noi abbiamo bisogno, se vogliamo arrivare ad una società complessivamente più efficiente, equa e solidale, fatta di cives con pari diritti, di una scuola che sappia costruirlo il merito, anche quando i punti di partenza sono diversi. E anche se costa.

Perché se no, e questo deve esser chiaro a tutti, una scuola pubblica non serve più e parlarne è solo un artificio retorico.

L'ipotesi di Calamandrei

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al II Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale (Adsn), a Roma l’11 febbraio 1950.

 

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuoi fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere.
Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Pubblicato nella rivista: Scuola democratica, 20 marzo 1950.

Gli autori di Vorrei
Michelangelo Casiraghi