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Concita De Gregorio a colloquio con tre intellettuali inglesi su carattere nazionale, informazione e politica. L'Italia vista dagli altri.

“Il mondo si è rimpicciolito e si è complicato”: così apre la seconda edizione del Festival il direttore di Internazionale, Giovanni De Mauro. E le 32mila presenze a Ferrara, durante i tre giorni del Festival, stanno a testimoniare che c'è tanta voglia – o forse necessità – di capirci qualcosa, di trovare una bussola per riuscire a districarsi in questo piccolo mondo moderno e complicato.

Ferrara è una città non troppo grande, ma capiente. Non avrei mai immaginato di dover fare la fila per ascoltare qualcuno parlare, né avrei mai immaginato che ci sarebbe stata così tanta gente disposta a fare la stessa cosa: mettersi in fila educatamente e sperare di poter occupare una poltrona nel pur spazioso cinema Apollo, per ascoltare qualcuno dibattere di volta in volta della crisi cecena o del futuro incerto di Cuba o, ancora, Lucia Annunziata che intervista Noam Chomsky piuttosto che un gruppetto di intellettuali che chiacchierano sulla situazione politica dell'Africa d'oggi.

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Tre giorni intensissimi, insomma, in un caldo inizio di ottobre, all'insegna della voglia di capire e di partecipare alle vicende di questo mondo, dove tutto ciò che una volta era lontano e irrilevante, oggi ci sembra essere dietro l'angolo e straordinariamente capace di incidere sulla nostra vita quotidiana. E a renderesene conto, sono soprattutto i giovani, in grande maggioranza a Ferrara, incuriositi e un po' spaventati dal proprio futuro, partecipi loro malgrado delle vicissitudini del mondo globalizzato.

Ma un festival è anche una festa, un'occasione per incontrare, scambiare, fare nuove amicizie e, perchè no, godersi le bellezze architettoniche di una città dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco, e scaricare le ansie globali con la meravigliosa musica – globale anch'essa - e l'energia catartica dell'Orchestra di Piazza Vittorio.

Per quanto cittadini del mondo, siamo pur sempre italiani – o meglio, per usare un riuscito neologismo introdotto da Internazionale, italieni. E non è un caso, quindi, se il Festival si apre con un dibattito a quattro voci sul belpaese. Un dibattito a tratti esilarante, a tratti irritante, mai scontato. Una dote che non manca di certo ai tre inglesi che hanno animato la discussione, infatti, è l'ironia. E tra luoghi comuni ed osservazioni acute, coordinati da una ottima – ma vagamente ossessionata dai recenti episodi di razzismo (il dibattito si è svolto il giorno successivo all'aggressione avvenuta a Roma ai danni di un cittadino cinese) – Concita De Gregorio, lo storico John Foot, il giornalista Tobias Jones (nella foto sotto) e lo scrittore Tim Parks, hanno fatto un ritratto dell'Italia allo stesso tempo sconfortante e affascinante.

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John Foot racconta del suo arrivo in Italia, avvenuto negli “anni in cui a Milano c'era ancora qualche fabbrica”. Erano gli anni di Craxi, e ancora non si poteva immaginare il grande cambiamento che avrebbero portato gli anni '80 e '90. Si parla di Italia, ma soprattutto di informazione, o almeno su questo binario tenta continuamente di portare la discussione la direttrice de l'Unità. E anche quando chiede ai suoi interlocutori se “esiste un carattere nazionale”, l'analisi passa ancora una volta attraverso i media. Jones, infatti, si stupisce di quanto la stampa italiana sia disposta a riprendere quello che si racconta all'estero dell'Italia sono quando i colleghi stranieri parlano male del nostro Paese. E quindi ecco che rimbalza in tutte le cronache ogni articolo critico del Times, piuttosto che del Guardian mentre nessuno presta attenzione alla percezione che, ad esempio gli inglesi, hanno dell'Italia, per i quali tutto ciò che è italiano è amazing.

Ancora a proposito di carattere nazionale, De Gregorio prova ad identificare differenze caratteriali tra i popoli europei, attibuendo alla lingua un valore rivelatore di tali differenze. Ad esempio, spiega, come esclamazione generale di approvazione, un inglese uilizza right (giusto), uno spagnolo piuttosto utilizzerebbe bueno, mentre un italiano direbbe bello. Come ad identificare tre caratteri diversi con tre categorie che fanno riferimento rispettivamente al mondo del diritto per gli anglosassoni, e a un modo di essere tutto “di pancia” o estetico per gli altri due. Tim Parks prova a delineare un possibile carattere nazionale degli italiani. Da Mazzini a Garibaldi, fino all'attuale Berlusconi, l'italiano ha dimostrato di avere sempre bisogno di un redentore. E Jonh Foot, segnala come adesso sì che diventa interessante aprire un dibattito su chi è l'italiano, alla luce di una nuova cittadinanza che si è modificata con la presenza di 3 milioni e mezzo di immigrati. Resta il fatto che l'Italia non è più da tempo il cuore dell'Europa. Molti corrispondenti sono partiti, il corrispondente del Times abita a Parigi, e i giornalisiti vengono chiamati ad intervenire solo se ci sono cose buffe e frivole, per commentare l'ultima battuta del premier. E i pochi rimasti a Roma, resistono solo perchè c'è il Papa. I giornalisti inglesi, insomma, più che mai vittime dei luoghi comuni, un po' come – ribaltando la situazione – la famiglia reale inglese lo è per i giornali italiani. Tutto ciò che è rimasto della campagna elettorale del 2006, - ammette sconsolato Tobias Jones - sono le foto dei manifestanti con le magliette con su scritto “io sono un coglione. Non c'è un dibattito serio”.

De Gregorio insiste sugli aspetti lingusitici del carattere nazionale, questa volta rivendicando le specificità regionali. Come si fa a tradurre, infatti, anche in italiano, un concetto come quello, tutto partenopeo, di fare a'mmuina?

Ma a preoccupare maggiormante la giornalista italiana, è quello che senza messi termini chiama “ritorno al fascismo”, che legge in un diverso comune sentire, quello per cui non ci si scandalizza del giocatore che usa “faccetta nera” come suoneria del cellulare e in mille altri segnali quotidiani, che passano come cose normali e finiscono per costituire un terreno di coltura per il nuovo fascismo che avanza. Siamo in un Paese in cui, aggiunge Jones, non c'è mai stata una rottura chiara con il passato, a differenza di quanto è accaduto in Germania. Un Paese incapace di capire cosa è stato il proprio passato, la propria storia.

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Ma tocca a Tim Parks sdrammatizzare su un Paese che, con tutti i suoi difetti, continua ad esercitare un fascino enorme. Il Paese delle mezze verità, ha cantato Fabri Fibra, o non sarebbe più giusto definirlo il Paese delle doppie verità? Il Paese in cui appena dici una cosa vera, ti rendi conto che il suo esatto contrario è altrettanto vero. Come dice Tim: “Il Verona è la miglior squadra al mondo, e questa è una realtà; un'altra realtà è che perdiamo sempre!”. Un Paese di memorie divise, caratterizzato da litigiosità di vecchia data che si esprimono con modalità sempre nuove. E a preoccupare Tim, è il fatto che in questa situazione in Italia “non c'è nessuno spazio per il dibattito sull'Europa e sul futuro della razza umana”.

C'è tempo per un ultimo affondo sul tema dell'informazione. Un'informazione sempre più sciatta e disattenta, poco incline a “capire” i fenomeni e le notizie che racconta, sempre più appiattita su linguaggi dettati da scelte politiche che inseguono le paure della gente. E viceversa, in un circolo vizioso da cui non si vede via d'uscita. La stampa e la tv hanno una responsabilità enorme, perchè con il loro linguaggio (si pensi a termini ab-usati come clandestino, spacciatore, immigrato, extracomunitario, ecc) alimentano la paura del diverso e il senso di insicurezza, fornendo un assist a scelte politiche scellerate e ai limiti del rispetto della dignità delle persone.

Insomma, come molti stranieri i nostri tre inglesi possono essere capaci di dire tutto il peggio possibile dell'Italia, senza trovare la forza per andarsene, e continuando a sentirsi qua più a casa loro che nel Paese in cui sono nati e cresciuti. Perchè tutto sommato, sono diventati italieni anche loro.

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