Illustrazioni di Pino Creanza
Vi sono almeno sette buone ragioni psicologiche per leggere o raccontare storie ai bambini: insegnare a riconoscere, a gestire e a bonificare le emozioni nelle esperienze di vita; favorire che il bambino tenda ad allargare lo spazio mentale; favorire un apprendimento cognitivo; favorire che il bambino conosca la vita, anche nei suoi aspetti più crudi, in modi non rischiosi; favorire e realizzare condivisione empatica sui temi fondamentali della vita; favorire e realizzare una relazione ricca, viva, “polifonica” fra narratore e ascoltatore; realizzare momenti di piacere condiviso.
Medico Psicoterapeuta, Paolo Roccato è psicoanalista associato alla Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e all’International Psychoanayitical Association (IPA).
La rivista che vorrei ringrazia Filomena Solito e l'autore per aver gentilmente concesso la pubblicazione. Il testo è parte degli atti del convegno "Ti regalo una storia" che si è tenuto presso la Biblioteca Civica "Ettore Pozzoli" di Seregno il 27 ottobre 2007, organizzato da BrianzaBiblioteche nell’ambito del progetto“Nati per leggere” .
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Raccontare o leggere storie ai bambini. Ma perché mai?
I tempi della vita sono frenetici, le cose da fare sono molte, la fatica di vivere e le aspettative di realizzazioni nella vita sono grandi. Ma, soprattutto, la televisione è lì: pronta, sempre disponibile senza sforzo alcuno, capace di catturare e assorbire l’attenzione dei bambini, liberando gli adulti dal peso di occuparsi di loro.
Perché ci dovremmo impegnare a raccontare ai bambin o a leggere loro delle storie? Entrando, oltre tutto, in un tempo lento, dilatato, come il raccontare esige?
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Proviamo ad osservare un bambino, mentre il papà gli sta leggendo una storia. Anzi: osserviamoli entrambi.
“C’era una volta, tanto tempo fa, un taglialegna, c he viveva con la moglie e con sette figli ai margini della foresta. Il più piccolo dei bambini era così piccolo, che lo chiamarono… ”.
“…Poicìno!”, si inserisce il bambino, con un mistodi sorpresa e di ritrovamento del già noto.
“…Pollicino”, riprende il papà.
Il papà sta leggendo da un libro di fiabe. Accentua ogni espressione con ondeggiamenti della voce, quasi a sottolinearne l’importanza e la vitale preziosità.
Il bambino ascolta, incantato, come respirando con gli occhi le singole parole. Parole che lo afferrano emotivamente, tanto da fargli trattenere a momenti il respiro, anche se le conosce perfettamente a memoria: qualcuna, nelle pause di sospensione, addirittura la anticipa. E se il papà ne sbaglia o ne cambia un’altra, subito lo corregge. Tutto ha da essere nuovo, meraviglioso, pregno di significati misteriosi; e tutto ha da essere già conosciuto e ritrovato, esatto esatto. Potrebbe sembrare quasi un rito, che si rinnova ogni volta, ma che è sempre identico, e che parla di cose che esistono da sempre (“C’era una volta, tanto tempo fa”) e che sempre si presentano e si ripresentano come nuove, nell’attualità del rito. Si tratta dell a rappresentazione, della rievocazione di qualche cosa “che è”. Ma che cos’è quel qualche cosa “che è” e che viene così attualizzato dal racconto?
Il papà prosegue: “La famiglia era così povera, che non c’era da mangiare per tutti. Una notte, Pollicino sentì la mamma che diceva al babbo: ‘Come faremo con tutti questi bambini? Non c’è più da mangiare. Portali nel bosco, e lasciali lì, così non li vedremo soffrire’. Pollicino, allora, che era piccolo sì, ma molto attento e molto astuto, uscì di nascosto di casa e andò a riempirsi le tasche di sassolini bianchi che risplendevano alla luce della luna. Poi, zitto zitto, ritornò nel letto, a far f inta di dormire”.
Si percepisce chiaramente che il momento è magico. Per entrambi. L’esperienza che i due stanno facendo è estremamente importante, vitale, piena di significato.
Ma che cosa sta succedendo?
Sono molte le cose che stanno succedendo.
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In questo mio breve lavoro, cercherò di dirvi come mai è così importante raccontare o leggere storie ai bambini, andando a vedere alcuni dei significati di quello che accade in quei momenti.
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Vi sono almeno dieci buoni motivi per raccontare o leggere storie, fiabe, novelle, racconti e poi romanzi ai bambini. Cercherò di indicarli e di disc uterli brevemente uno per uno.
1 – Riconoscere le emozioni e le esperienze, proprie e altrui
Il più importante dei motivi è che l’esperienza dell’ascolto di fiabe è una delle principali vie attraverso le quale il bambino impara a riconoscere le emozioni, proprie e degli altri, nonché leesperienze che si strutturano a partire da quelle emozioni.
Con la storia di Pollicino, per esempio, il bambino può conoscere e riconosce re le emozioni legate all’esperienza di abbandono, quali: paura; dolore per la perdita delle persone che si amano edalle quali ci si attende amore; tristezza; insicurezza per la percezione delle inadeguatezze deigenitori (così “poveri” che non riescono a dare ai figli ciò di cui hanno bisogno: non c’è da“mangiare” per tutti); angoscia per la percezione d ei desideri espulsivi dei genitori, e quindiinsicurezza per la minaccia di perdita delle figure di attaccamento; angoscia per la percezione che igenitori sono non soltanto buoni, ma anche cattivi, deboli, egoisti; però anche: speranza di riuscire aritrovare in loro le figure adeguate di cui si ha bisogno; fiducia nelle proprie risorse e capacità;fiducia nella possibilità di affrontare le difficol tà della vita in modo attivo; fiducia di potersi orientare negli ambiti dell’ignoto (la foresta), utilizzando il noto (i sassolini); fiducia in se stesso come soggetto della propria esistenza; e così via.
Il processo che si attiva, però, è estremamente più importante, profondo e vitale di quello che potrebbe essere un puro e semplice apprendimento cognitivo o nozionistico intorno alle emozioni e alle esperienze che si strutturano su di esse. Si tratta di una sorta di validazione dell’emozione e dell’esperienza, che è resa possibile dal fatto che attorno ad essa ci si trova a risuonare insieme, in quel momento lì della lettura della storia, ma anche “da sempre e per sempre”, come la storia stessa dice: c’era una volta, tanto tempo fa, in un luogo lontano lontano; e noi ora, che stiamo insieme adesso e qua, continuiamo a entrare in contatto emotivo con le stesse vicende, come a dirci: “Sì, è proprio vero. Accade proprio così. Anche a noi è accaduto, accade e accadrà così. A tutti gli umani accade così. Queste esperienze, queste emozioni ci appartengono in quanto sono umane. E quindi sono sensate, comunicabili, comprensibili, condivisibili, legittime, da riconoscere e da rispettare”.
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come se, attraverso la condivisione emotiva della storia di Pollicino, papà e bambino riconoscessero come legittime, come sensate, come universali, vissute da tutti, in ogni tempo, da sempre e per sempre, le emozioni dolorose legate, per esempio, allo svezzamento (la mamma che fa allontanare i bambini perché non c’è più da mangiare per tutti, e vuole riservare il seno vitale per se stessa e per il proprio compagno). Parimenti, riconoscono come sensate, universali e legittime le emozioni di abbandono e solitudine. E lo stesso avviene per tutte le altre emozioni ed esperienze evocate dalla storia, comprese quelle connesse alla valorizzazione di sé e delle proprie capacità.
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chiaro che il più importante dei metodi di valida zione, conferma e legittimazione delle emozioni è quello diretto, che si realizza quando il bambino vive direttamente un’emozione e l’adulto risuona con lui su quella medesima emozione. Per esempio, il bambino si spaventa, e l’adulto, riconoscendo il suo spavento, lo prende e lo avvolge in un abbraccio rassicurante.
Ma, rispetto alla risonanza diretta, l’esperienza di ascoltare racconti di storie ha degli enormi vantaggi, per quel che riguarda la validazione delle emozioni: non è necessario che l’esperienza sia stata dal bambino compiuta fino in fondo, in modo totale, per essere riconosciuta. Identificandosi con Pollicino, il bambino può riconoscere le propri e esperienze di quando si è sentito abbandonato senza che necessariamente quegli abbandoni abbiano dovuto essere così totali e così crudeli come quello della storia.
1/a – Qualche precisazione e approfondimento
Il tema della facilitazione del riconoscimento delle emozioni nelle relazioni fra adulti e bambini – anche attraverso i racconti di storie – è così im portante, che merita qualche precisazione e qualche approfondimento.
Chi fosse troppo di fretta o non fosse interessato, può saltare direttamente al punto 2 di questo mio scritto.
Succede che molti adulti diano per scontato che ognuno sappia, automaticamente e senza problemi, riconoscere momento per momento le proprie esperienze per quello che sono, senza nessun problema. Non si accorgono, né più si ricordano, di quanto questa sia una capacità che viene progressivamente acquisita, allenata e perfezionata nel corso della vita, già a partire dai primissimi momenti dopo la nascita.
Come fa un bambino a riconoscere le proprie emozioni (quali, per esempio, la paura, la tristezza, la rabbia, la gelosia, la tenerezza, la curiosità, la sorpresa, la gioia, l’invidia, la noia…)? Come t utti noi, egli le vive, direttamente. Ne ha esperienza. Ma, affinché la sua esperienza sia da lui riconosciuta come reale, come rilevante, come sensata e quindi come accettabile e, soprattutto, come pensabile, il bambino ha assoluto bisogno di percepire che c’è qualcuno fuori di lui (meglio se è una persona per lui importante, come mamma o papà) che risuona con quella sua emozione, e che quindi comprende e condivide la sua esperienza.
Si tratta di una specie di riconoscimento e di validazione dall’esterno dell’emozione e dell’esperienza. È come se il bambino, percependo q uesta risonanza emotiva, potesse dire, fra sé e sé: “L’esperienza che mi sta capitando di vivere èstata vissuta anche da queste altre persone, per me così importanti, che ora la riconoscono. Se risuonano, vuol dire che la riconoscono. Se la riconoscono, vuol dire che sanno di che cosa si tratta. E se sanno di che cosa si tratta, vuol dire che a propria volta l’hanno già vissuta anche loro, e vuol dire che ora possono condividerla con me. Posso, quindi, rassicurarmi: io sono davvero un essere umano, come loro. Questa mia è un’esperienza umana, come le loro. Io non sono un alieno. Io sto funzionando bene. Non sono un essere insensato, insignificante, bizzarro o ‘sbagliato’. Essendo analoghe alle loro, le mie esperienze sono delle cose vere, importanti, sensate, buone, accettabili, pensabili, comprensibili, compatibili con la vita, condivisibili. E le mie emozioni, in quanto caratteristiche di specifiche esperienze, sono come i colori della vita, come i suoni, come la musica della vita: non eliminabili e – sempre – pienedi valore”.
È chiaro che il bambino, soprattutto se lattante, n on fa un ragionamento così articolato e
complesso; ma è vero che per lui l’esperienza di sentire che un adulto per lui significativo risuona con le sue emozioni attuali è esattamente quella descritta da questa specie di “fumetto” che, persemplicità, gli abbiamo attribuito. È assodato che, se, al contrario, il bambino si trovasistematicamente e rigidamente smentito nelle proprie emozioni, finirà col pensare di essere“sbagliato”, con gravi danni sul senso di sé, sulla propria autostima, sulle capacità di affermazione di sé e sulle capacità di strutturare momenti di vita felici.1
Inoltre, se la risonanza emotiva dei caregivers sistematicamente non c’è o è carente, il bambino sperimenterà sì direttamente (come è ovvio) tutte le proprie emozioni, ma tenderà a nonriconoscerle (misconoscimento delle emozioni), o ad escluderle dalla propria consapevolezza(scotoma delle emozioni), o a cercare di “combatterle” ( avversione contro le emozioni), come fossero realtà psichiche incompatibili e quindi da abbandonare, da svalutare, da contrastare, daannullare, da trattare con ostilità, o, comunque, d a fare come se non esistessero. Per questa via,progressivamente, potrà arrivare a strutturare perf ino delle “ aree cieche del Sé”, corrispondenti alleesperienze sistematicamente misconosciute. In questo caso, letteralmente, non si accorgerà di vivere
le emozioni che sta vivendo e non sarà consapevole degli aspetti di sé che in quelle esperienze si sono attivati. L’attivazione fisica, biologica, ci sarà tutta (per fare un esempio: rossore, batt icuore,blocco del respiro, contrazione muscolare di tipo difensivo, aumento della pressione arteriosa, ecc.);e così tutta ci sarà anche l’ attivazione psicologica (per proseguire nell’esempio: stato di allerta,inibizione alla concentrazione su di un compito specifico per iperattenzione verso ogni dettaglio soprattutto se in movimento, irrequietezza, ecc.); ma mancherà sistematicamente la consapevolezza che queste attivazioni costituiscono il tutto unico di una specifica emozione (per procedere nell’esempio: la paura), così come la consapevolezz a che quella emozione costituisce il centro su cui si sta strutturando una specifica esperienza (nell’esempio: l’esperienza terrificante, poniamo, di non sapere e non potere controllare la situazione, percepita come realmente minacciosa).
Ma i guai non finiscono qui.
Nelle relazioni reali, è come se il misconoscimentodelle emozioni e delle esperienze attivasse una specie di “contagio”, per così dire. Quanto spe sso succede, infatti, che anche chi ha a che fare con un bambino che misconosce le proprie emozioni ed esperienze, a propria volta tende egli pure a misconoscergliele! È raro, per concludere l’esempio di prima, che gli insegnanti (e gli educatori, e i pediatri, e i neuropsichiatri infantili, e perfino gli psicoterapeuti...) si accorgano che un bambino che ha difficoltà a concentrarsi, che è irrequieto, teso, improduttivo spesso è un bambino che vive uno stato cronico di paura, magari perchérealmente il mondo in cui vive è spaventoso (per esempio: per conflitti in famiglia, con minacce e svalutazioni continue del tutto imprevedibili). Gli insegnanti penseranno che si tratta di un bambino distratto, che non ha voglia di studiare e di imparare, che è irrequieto, che magari è “iperattivo”…
Si tratta di questioni estremamente importanti per la qualità della vita. Infatti, come il riconoscimento delle nostre e delle altrui emozioni induce riconoscimento delle medesime emozioni da parte delle persone con cui siamo in rapporto, favorendo il benessere personale e relazionale; così il misconoscimento delle nostre e delle altrui emozioni tende a indurre con estrema facilità nelle persone con cui siamo in rapporto misconoscimento delle medesime emozioni, consolidando ed estendendo i guai e il malessere, personali e relazionali.
Ricordiamo che il riconoscimento delle emozioni vissute è la base di quella che Fonagy (uno psicoanalista che vive a Londra) chiama “ funzione riflessiva”: la capacità che abbiamo di cogliere gli stati mentali, e di comprendere le esperienze emotive, nostri e delle persone con cui entriamo in contatto momento per momento. Si tratta di una capacità naturale, di cui tutti siamo dotati fin dallanascita, che però può essere affinata oppure inibit a dalle esperienze di risonanza o di “sordità emotiva” in cui ci siamo trovati partecipi.
Capacità preziosa non soltanto per la professione d i insegnanti, pediatri e psicoterapeuti, ma per la qualità della vita, nostra e di chi vive con noi , in quanto è il centro dellacapacità di conoscere e di amare le persone.
I racconti e le fiabe possono così essere fonte di grande arricchimento, non solo di esperienze, ma anche e soprattutto di attivazione e di “allenam ento” di queste capacità.
Ancora una precisazione. Non è possibile non viverele emozioni specifiche delle varie esperienze. Se mi capita di vivere una data esperienza, vivrò certissimamente le emozioni ad essa corrispondenti. Così come i colori: quelli che sono, sono. È del tutto insensato imporre (o imporsi) le emozioni, tipo: “Sii felice!”, o proibirle (o pr oibirsele), tipo: “Non essere geloso!”, o: “Smettil a di essere invidioso!”. L’emozione propria di una speci fica esperienza può essere riconosciuta e gestita, ma non mai annullata. Agli altri (e a noi stessi) possiamo chiedere o anche pretendere dei comportamenti, non mai delle emozioni o dei sentimenti. Emozioni e sentimenti uno non se li può dare. Le storie mostrano come è del tutto naturale,universale, conosciuto e prevedibile che le differenti situazioni di vita attivano in noi tutti esperienze specifiche che si strutturano attorno alle emozioni corrispondenti. L’accettazione di questo è uno dei capisaldi del benessere psichico e relazionale.
Un altro dato importante è che il bambino, soprattutto se piccolo, non riesce a riconoscere le proprie emozioni attraverso i loro nomi. Per lui, per esempio, le parole “Gelosia”, “Paura”, “Ansia”, “Tenerezza”, “Invidia”, e simili hanno lo stesso valore di “Cavallo”, “Torrente”, “Triangolo”, “Chilogrammo”, “Spinterogeno”, e simili. Prende per buono tutto quello che gli si dice, o che sente dire nell’ambiente sonoro che lo circonda. E le parole sono per lui equivalenti a nomi di realtà concrete del mondo, alle quali non è detto che siano connesse sue proprie esperienze corrispondenti. Spesso, poi, magari in un secondo tempo, tenderà ad associare proprie soggettive esperienze a quei nomi, in modi che possono essere i più bizzarri e incredibili. Se noi ci limitassimo a dare un nome alle emozioni che il bambino sta sperimentando, faremmo certamente qualche cosa di buono, ma sarebbe ben poca cosa.
All’inizio e per lungo tempo, più che non i vocaboli usati, sarà il contesto emotivo-relazionale all’interno del quale avvengono le comunicazioni quello che determinerà una reale comprensione delle esperienze e delle emozioni. E, all’interno del contesto relazionale, saranno più le comunicazioni non verbali (gesti, atteggiamenti, mimica, ecc.) e paraverbali (tono di voce, volume della voce, frequenza delle parole e delle sillabe, pause, ecc.) le più importanti e significative.
Per questo motivo, serve, sì, ma assai poco, dire a un bambino: “Sei geloso”, o “Sei invidioso”, o “Sei sereno”. Il valore che darà a queste parole sa rà più legato al tono e al modo con cui gli vengono dette, che non al significato semantico. “C icciottello”, per esempio, potrà essere da lui sentito come un simpatico apprezzamento se gli viene detto con affetto e sorrisi di compiacimento; sarà, invece, sentito come una brutta caratteristic a se, poniamo, la mamma lo dice con tono preoccupato, allarmato, o di rimprovero. Lo stesso sarà, per esempio, per la parola “Geloso”. Se la mamma confida alle amiche, con orgogliosa vanteria e furtivi sorrisi, che il bimbetto è “geloso” di lei, questi penserà che si tratti di una gran bella qualità, di cui essere orgogliosi; se, invece, la stessa mamma dice le stesse cose, ma con aria preoccupata, o sprezzante, o comunque sanzionatoria, il bambino penserà che essere geloso (qualunque cosa p ossa significare) sia una gran brutta cosa, da evitare il più possibile, se no si corre il rischio di far preoccupare la mamma, o di essere sentito come cattivo, o di venire da lei disprezzato e magari rimproverato.
Dare un nome alle emozioni è importante, dunque, più “a futura memoria”, più per dare una specie di vocabolario, appunto, riassuntivo, cui potersi riferire in future situazioni analoghe.
Ma che cosa c’entra tutto questo con il raccontare?
Il fatto è che, come sopra accennato, la indispensabile risonanza emotiva dei caregivers (di coloro, cioè, che si occupano del bambino) può avvenire o direttamente con l’esperienza che il bambino va facendo mentre la sta facendo; oppure indirettamente, attraverso l’immedesimazione che bambino e adulto possono insieme fare nell’esperienza di qualcun altro, sia mentre stanno insieme osservando gli accadimenti nel mondo (per esempio: “Guarda qu el cagnolino come ha paura, poverino!”), sia mentre insieme stanno descr ivendo, raccontando, appunto, gli accadimenti del mondo (come quando, per esempio, insieme seguono le vicende e le esperienze di Pollicino).
Attraverso la risonanza emotiva indiretta si realizza non solo una validazione delle emozioni vissute dai personaggi della storia raccontata, ma anche (ed è questa la cosa più importante) una validazione delle nostre analoghe emozioni, delle nostre analoghe esperienze, di noi che ascoltiamo o leggiamo quella storia. E questa è una cosa veramente meravigliosa.
Quando descriviamo un’esperienza attraverso un racconto, il bambino, per quanto piccolo sia, coglie il nocciolo emotivo dell’esperienza stessa: la riconosce non solo attraverso un più o meno acritico processo di nominazione, ma soprattutto attraverso una precisa risonanza emotiva empatica, quasi come se quell’esperienza la stesse facendo lui. Attraverso un sottile gioco di finzione e verità , egli sa che quell’esperienza non la sta facendo, ma, contemporaneamente, viene a sapere, con precisione, di che esperienza si tratta, perché èquasi come se l’avesse vissuta direttamente, come fosse una propria emozione, vissuta attraverso l’immedesimazione.
È come se il bambino, entrando in contatto empatico , per esempio, con lo smarrimento e la desolazione di Pollicino abbandonato da solo nel bosco, potesse riconoscere l’analogia di quell’esperienza e di quell’emozione con emozioni e d esperienze da lui stesso provate, magari la
sera, nel buio della sua cameretta.2 La presenza empatica dell’adulto narrante dà effica cia e forza alla validazione di quelle esperienze, contribuendo a renderle pensabili e accettabili.
Ecco, allora, chiarito che cos’è quella cosa “che è”, di cui parlavamo all’inizio, quando rimanevamo incantati a osservare la relazione “magi ca” fra il papà che leggeva e il bambino che ascoltava la storia di Pollicino: sono le emozioni e le esperienze fondamentali della vita, che vengono rappresentate, dispiegate, riconosciute, validate, rese rappresentabili e quindi pensabili.
Che, quindi, possono essere e sono.
Tutto questo, oltre tutto, rende possibile e facilita la gestione delle emozioni, e quindi la gestione delle esperienze, non solo attraverso le vie esplicitamente indicate dalla storia, ma anche attraverso l’invenzione creativa di modi nuovi. Infatti, solo se sappiamo che cosa stiamo vivendo, riusciamo a pensare di poterci fare qualche cosa. Potremo cercare dei modi efficaci per rassicurarci, per esempio, o per consolarci, o per “recuperare la strada di casa”. O magari an che per rassegnarci, se non c’è altro da fare.
La risonanza emotiva diretta dei caregivers con le esperienze e le emozioni vissute dal bambino è possibile ed efficace (e indispensabile) fin daiprimissimi momenti di vita. Per intenderci: già a un’ora dalla nascita.
La risonanza emotiva indiretta, realizzata attraverso il racconto o la lettura, invece, è possibile ed efficace quando il bambino è già in grado di comprendere almeno alcune parole. Bisogna tener conto che il bambino è in grado di comprendere l’andamento emotivo del discorso dal tono e dai modi e, in generale, dalle espressioni non verbali e paraverbali, assai prima di una effettiva comprensione semantica (che riguarda cioè il significato) del discorso medesimo. Voglio dire che quella di ascoltare un racconto può essere un’esper ienza “magica” anche prima dello sviluppo della capacità di tradurre mentalmente il significato del le singole parole.
Attraverso la condivisione di queste esperienze di movimenti emotivi di risonanza e di identificazione, quasi senza accorgersene il bambino va maturando sulla via della propria autoconsapevolezza. Impara progressivamente sempre meglio a riconoscere, ad apprezzare, a gestire, a modulare, a padroneggiare, a comunicare le proprie emozioni. Impara a non avere paura delle esperienze emotive, proprie e degli altri, ma ad esserne incuriosito e attento partecipe. Impara a mettersi nei panni degli altri e ad essere aperto a qualunque tipo di esperienza, anche molto differente dalle sue.
Impara non soltanto ad essere preparato a riconoscere, ad affrontare e a vivere le esperienze traumatiche come inerenti alla vita, ma soprattutto – cosa estremamente importante per il recupero di sé, momento per momento, nel corso della vita intera – a bonificare le esperienze traumatiche stesse, o anche solo spiacevoli, o frustranti, o difficili. Se sa già di che si tratta, le saprà affro ntare meglio.
Questi movimenti mentali e relazionali, effettuati e ripetuti più e più volte, rendono in definitiva pensabili le emozioni e le esperienze emotive, di qualunque tipo esse siano, comprese le esperienze estreme, quali l’abbandono, la morte, la perdita di ogni risorsa, la povertà materiale e relazionale, la sopraffazione, il senso di disperazione impotente… Bisogna ricordare che un’esperienza è traumatica in quanto ènon pensabile. Bonificare un trauma psichico vuol dire – né più né meno – facilitare che l’esperienza traumatica divenga pensabile. La condivisione, la narrazione, l’identificazione, il recupero di sé dall’identificazione (attraverso il mettere a fuoco le differenze, al di là delle somiglianze, fra la propria esperienza e quella dei personaggi della storia) contribuiscono a rendere pensabili anche le esperienze più terribili, come sono quelle descritte in molte amatissime fiabe: in quelle, classiche, dei Fratelli Grimm, per esempio.
2 – L’ampliamento e l’arricchimento dello spazio mentale
Conviene ora mettere a confronto l’esperienza che i bambini fanno (così come, del resto, facciamo anche noi adulti) nelle due situazioni: quando assistono a un film o a un cartone animato; e quando sentono raccontare, o, più tardi, leggono una storia.
Nel racconto e nella lettura, il bambino si trova spinto a immaginare, a costruire, cioè, delle proprie personali immagini interiori, attivando delle rappresentazioni mentali della realtà narrata o descritta. La sua mente è spinta a rendere operantela creatività interiore. Crea, infatti, in modo personale, del tutto soggettivo, immagini mentali nuove; cosa che, con l’allenamento, favorirà l’attivarsi anche della creatività operativa , quella creatività, cioè, che gli consentirà di co struire nel concreto mondo reale esterno qualcosa di sia soggettivamente sia obiettivamente nuovo.
In questo modo, lo spazio mentale, per così dire, si amplia, si arricchisce di nuove, originali, soggettive costruzioni mentali. E questo fatto ha molte conseguenze positive, fra cui non ultima è l’acquisizione di maggiori ambiti di libertà della mente, e quindi della persona intera.
Mi spiego. Un bambino che organizzi la propria mente quasi solo sulla percezione (televisione, cartoni animati, videogiochi, giochi di destrezza ma non di fantasia, ecc.), sarà costretto a rimanere costantemente in contatto con la concretezza della realtà esterna a lui. Il funzionamento della sua mente tenderà in modo rigido a costruirsi prevalent emente secondo lo schema “stimolo-risposta”. Diverrà, probabilmente, un bambino perfettamente “a mmaestrato”, capace delle più rapide e precise risposte immediate ai vari stimoli (campione nei videogiochi, per esempio); ma rischierà di non saper costruire quasi nulla all’interno della propria mente, perché sarà poco in grado di svincolarsi dalla percezione attuale di ogni singolo momento, per attivare risorse interiori di fantasia e di creatività. Rischierà di diventare abilissimo nelle cose concrete, ma quasi vuoto per quel che riguarda il suo proprio mondo interno.
I bambini che passano le ore davanti ai cosiddetti “programmi di intrattenimento” della televisione, inoltre, rischiano di diventare, se già non lo sono, dei bambini cronicamente depressi, non solo perché sono indotti a vivere strettamentenel solo mondo della percezione, che tende ad appiattire ogni rappresentazione mentale interna, e quindi ogni soggettività creativa; ma anche perché la scatola vuota della televisione tende adinchiodare ad esperienze attuali fasulle, spacciate per vere: con le risate fuori campo, per esempio, che non lasciano neppure modo di attivare emozioni proprie; o con i discorsi fasulli, pseudo-interattivi, del tipo: “Ci vediamo domani alla stessa ora!” (“ Ci” vediamo? Ma chi si vede?), o: “Staremo insieme tutto il pomeriggio!”
(“ Staremo”? Ma chi? Ma dove “ Insieme”? Ma chi? Ma con chi?). La mente si attiva così ne l mondo delle percezioni dirette della realtà (le immagini concrete dello schermo televisivo), ma all’interno di un’esperienza vissuta che è fasulla, che è vuota, che non arricchisce, che uccide, anziché attivare, la fantasia. A meno che non si tratti di opere capaci di rappresentare e trasmettere ricchezza di esperienze e di significati vitali, come certi film che si avvicinano all’opera d’arte.
Il funzionamento della mente prevalentemente incentrato sulla percezione differisce dal funzionamento della mente incentrato prevalentemente sulla rappresentazione mentale anche per altri aspetti, al di là di quelli appena visti.
La percezione si struttura, momento per momento, nel tempo attuale. La mente che tende a funzionare prevalentemente nel mondo della percezione tende a collocarsi (quasi) esclusivamente nel tempo presente. Nel mondo della pura percezione, lo spazio tende a ridursi a zero, come si vede, per esempio, nell’uso compulsivo del telefono cellulare: si sta come se si fosse sempre in presenza. Ma anche il tempo tende a ridursi a zero: la mente tende a considerare solo ciò che è presente. Non c’è assenza, non c’è mancanza, nel mondo interno quando esso è strutturato solo sulla percezione. Rimane rilevante soltanto ciò che è presente nel momento attuale. Ciò che conta tende ad essere soltanto ciò che è esterno a sé, in quanto è coglibile con la percezione. Grande valore acquistano, così, il mondo esterno e lo spazio reale esterno; ma valore quasi nullo rischiano di avere il mondo interno e lo spazio mentale interno. Radio sempre accesa da una parte, televisore sempre sfarfallante da un’altra, musica delle cuffie sempre nelle orecchie, video del computer sempre attaccato, cellulare in mano sempre in funzione... La mente rischia di non riuscire a far tesoro delle esperienze, perché è come se tutto si dovesse svolgere soltanto nel contatto concreto con la realtà esterna al momento disponibile.
Per contro, l’attivazione della fantasia favorisce la rappresentazione mentale della realtà anche in assenza della realtà medesima, col risultato che lo spazio mentale viene potenziato e arricchito, senza che vi sia impoverimento o diminuzione di valore per lo spazio reale esterno e per la realtà esterna. E così il tempo viene ad arricchirsi, ad acquisire prospettiva, per il valore cui assurge il ricordare (passato) e lo sperare (futuro), che devono integrarsi con l’esperienza attuale (presente). È allora la memoria, rispettosa delle distanze temporali e spaziali, quella che può soccorrere nell’esperienza di mancanza o di assenza. Per questa via, il divenire acquista spessore, il divenire che consente di costruire mentalmente la storia. La propria storia. E le storie. Le storie di tutti. E, più tardi, la Storia, con la esse maiuscola: la storia dell’umanità.
Se la mente vive le proprie esperienze (quasi) solo nello spazio esterno, non saprà concepire o riconoscere la storia, la propria storia, perché non sopporterà l’assenza o la mancanza o il vuoto, che, soli, possono creare il divenire.
Se, invece, la percezione dello spazio esterno e della realtà esterna sono ben strutturati nella mente, e se contemporaneamente sono ben strutturati e valorizzati anche lo spazio e la realtà interna, ecco che si apre la possibilità di uno spa zio terzo: lo “ spazio intermedio”, che si colloca fra lo spazio interno (della rappresentazione) e lo spazio esterno (della percezione). È, questo, lo spazi o della creatività realizzativa : lo spazio dell’invenzione.
Ascoltare o leggere storie favorisce l’arricchimento del mondo interno senza detrimento per il mondo esterno, ma con aumentate possibilità di integrazioni fra mondo interno e mondo esterno. Il bambino potrà, allora, con molta più facilità, vive re, per esempio, un’esperienza dolorosa o una frustrazione senza che per lui siano la fine del mondo: le sa riconoscere e collocare nelle prospettive di un mondo sensato. E così, la possibilità di vive rle non dipenderà solo dall’eventuale possibilità d i “superarle” (cioè: di annullarle), ma diverrà possi bilità viverle di per sé, in quanto sono parte della propria esperienza. In questo modo, diverrà possibi le, allora, immaginare anche delle possibili “vie di uscita” che non tendano a cancellare le esperien ze, ma che le valorizzino al meglio.
3 – L’apprendimento cognitivo
Le capacità empatiche (le capacità, cioè, di risuonare emotivamente con gli stati mentali altrui e di cogliere che altri risuonano o non risuonano emotivamente con i nostri stati mentali) si sviluppano assai prima rispetto a funzioni più propriamente cognitive. Anzi, possiamo dire che le funzioni cognitive sono enormemente influenzate dalle funzioni empatiche, come ben sappiamo tutti noi, quando ricordiamo di avere amato oppure odiato qualche materia di studio più per le caratteristiche personali e relazionali dell’insegnante che non per quelle della materia stessa.
Questa osservazione introduce la terza delle buone ragioni per raccontare o leggere storie ai bambini, che è quella di favorire in loro l’apprendimento cognitivo.
Ciò che viene conosciuto ed appreso in quel clima d i affetti, di risonanze emotive, di attivazione dell’immaginazione e della fantasia, in quel clima relazionale “magico” di scoperte e ritrovamenti rimarrà impresso nella mente in maniera del tutto s peciale.
È evidente che il bambino cui vengono frequentement e lette o raccontate storie, trovandosi assiduamente in contatto con il linguaggio parlato e scritto, ne acquisisca maggiore familiarità, e sviluppi, quindi, non solo maggiore curiosità, ma a nche maggiori conoscenze per tutto ciò che riguarda tali tipi di linguaggio. Sarà, allora, pro babile che apprenda più precocemente a intendere e a saper usare le parole e i discorsi articolati, così come, a suo tempo, a scrivere più precocemente e in modi più strutturati e appropriati. Allo stesso modo, sarà probabile che migliorino anche le capacità di pensiero autonomo articolato e complesso.
Inoltre, venendo in contatto con la descrizione di molte cose, molti ambienti, molte situazioni, molti eventi, molte connessioni, e con molteplici tipi di espressioni verbali e sintattiche, egli sarà facilitato nell’arricchire il proprio patrimonio di conoscenze e di modalità di espressione verbale.
Di solito, è questo, dell’apprendimento cognitivo più esteso, più ricco e, soprattutto, più precoce, l’unico motivo che viene riconosciuto ed esaltato dai patrocinatori del leggere e raccontare storie ai bambini. Però, anche se è rilevante, noi sappiamo che non è certo il più importante dei motivi.
Per quel che riguarda l’apprendimento cognitivo, conviene aggiungere ancora una cosa a proposito dei libri illustrati paragonati ai film.
Nel racconto, le immagini sono illustrative del racconto. Nel film, nel cartone animato, le immagini sono il racconto.
Generalmente, il racconto è più ricco di contenuti rispetto al film.
Quando vi sono solo immagini, come nel film, il rischio è che si abbia un’illusione di apprendimento, senza che vi sia un apprendimento reale, perché è come se la mente rischiasse di non avere né il tempo né la motivazione per tradurre in immagini mentali interne le immagini reali, che rischiano di rimanere (quasi) solo esterne. Provate, per esempio, a ripensare alle conferenze nelle quali per ogni concetto vengono proiettate delle diapositive. Man mano che il discorso procede, tutto risulta estremamente chiaro; alla fine, però, è come se nella mente non fosse rimasto quasi nulla. La mente si è, per così dire, “appiattita” sulle immagini delle diapositive, senza “interioriz zare” i concetti: senza ricostruirli, cioè, a proprio
modo, nella propria interiore soggettività.
Quanto maggiore sarà stata l’attività di “ri-creazi one” soggettiva nel mondo interiore di ciò con cui siamo venuti in contatto, tanto maggiore sarà a lla fine l’apprendimento. E viceversa: quanto minore sarà stata l’attivazione della creatività, t anto minore sarà, in definitiva, l’apprendimento, come ben sa ogni insegnante.
Per finire su questo punto: il racconto corredato di illustrazioni, di solito, è più ricco ancora del puro e semplice racconto, perché, tramite le immagini reali, dà lo spunto, dà quasi un "invito” per la costruzione di immagini mentali interne, quanto meno per rappresentarsi mentalmente gli eventi intercorrenti fra gli episodi cui si riferiscono le singole illustrazioni.
4 – Conoscere la vita nelle sue varie possibilità e nei suoi possibili sviluppi
Un’aspirazione universale propria di ogni animale vivente, e a maggior ragione di ogni essere umano, è quella di fare il massimo di esperienze. Ma, particolarmente per noi umani, ogni esperienza che facciamo ha delle conseguenze sul nostro futuro, contribuendo a determinarlo. Nella realtà, quindi, le nostre esperienze non possono es sere infinite, non solo per i limiti di tempo della nostra stessa vita, che è a termine, ma anche perché ogni esperienza che facciamo comporta una scelta.
Qualunque cosa noi facciamo, noi non riusciamo a vivere nulla se non la nostra unica, personalissima vita. Anche quando ci proponiamo: “A desso cambio vita!”, noi non riusciamo a fare nient’altro se non dare una svolta alla nostra vita, che continua ad essere e a rimanere unica, unicissima. Non possiamo “ripartire da zero”. Non r iusciamo, non ci riusciamo proprio, a vivere più di una vita. Anche quelli dei quali si dice: “Aveva una doppia vita”, in realtà non facevano, né potevano fare, nient’altro se non vivere la loro vita, che era una ed unicissima: magari un po’ più incasinata dell’usuale, ma sempre e soltanto una e una sola. Attraverso il racconto e la lettura di storie, invece, è quasi come se riuscissimo a vivere più di una vita, a conoscere altre possibili vite: per interposta persona, attraverso l’attivazione di processidi identificazione e di immedesimazione coi personaggi delle storie. È quasi come se, pur senza far nulla, riuscissimo a fare più esperienze, differenti fra loro, anche tra di loro contraddittorie, anche tra di loro incompatibili. E questo lo possiamo realizzare certamente con lo svantaggio di non vivere direttamente, per davvero, concretamente, i fatti e gli eventi che attivano le emozioni piacevoli; ma con il grandissimo vantaggio di non vincolare lo sviluppo della nostra vita a scelte magari pesanti, magari dalle conseguenze irreparabili. Possiamo, per esempio, vivere le emozioni di rubare, di andare in prigione, di uccidere, di fuggire, di suicidarci perfino; o di lasciare il partner, la casa, il lavoro; o di avere mille partner, nelle più svariate e improbabili storie d’amore; o di avere comportamenti irresponsabili, o futili, o generosi fino alla morte, o bizzarri, o al limite dell’immaginabile, senza che nulla cambi nella realtà concreta della strutturata nostra esistenza.
Non ci basterebbero cento vite per poterci fare un’idea delle principali possibili varianti e dei principali possibili sviluppi della nostra vita, se per conoscerli avessimo soltanto la possibilità di sperimentarli direttamente. Nella vita reale, una volta fatta (o non fatta) una scelta, tutte le altre scelte sono escluse, giacché, se anche ne scegliess successivamente un’altra, la nuova scelta avverrebbe non nella situazione della prima scelta, né nel vuoto, ma all’interno dei nuovi contesti che quella prima scelta (o non scelta) ha contribuito a determinare.
Non c’è scampo: non si riesce a vivere più di una sola vita, che è solo e soltanto quella concreta che andiamo vivendo giorno per giorno.
Non c’è scampo. O quasi.
Se cerchiamo di farci una nuova vita, dobbiamo lasciare la vita in corso. Invece, se leggiamo o ascoltiamo il racconto di una vita altra dalla nostra, arricchiamo la nostra esperienza, continuando la nostra vita. L’osservazione e il racconto delle vite altrui, infatti, “apre”, per così dire, delle nuo ve possibilità alla nostra personale esperienza, in qu ell’assetto mentale che è caratterizzato da verità emotiva e finzione della concretezza fattuale. Le emozioni sono vere, verissime, anche se le situazioni e gli accadimenti sono soltanto immaginati.
Dicono che Jules Verne, l’amatissimo autore di romanzi d’avventure (Il giro del mondo inottanta giorni; Cinque settimane in pallone; Viaggio al centro della Terra; Ventimila leghe sotto i mari; I figli del Capitano Grant; L’isola misteriosa; Dalla Terra alla Luna; ecc,), non si sia mai mosso da casa sua. Ha, per così dire, “vissuto”, e ci ha fatto “vivere”, le più meravigliose e incredibili avventure in tutto il mondo, senza che né lui, né noi, né nessuno dovessimo muovere un dito.
5 – Apprendimento dei valori e dei disvalori
Ogni storia rappresenta situazioni buone, belle, desiderabili e situazioni cattive, brutte, temibili. Spesso è proprio questo contrasto quello che fa damolla per l’azione nel divenire del racconto: si tratta di evitare situazioni cattive e di cercare di realizzare situazioni buone, o di ripristinare situazioni buone dopo che certi eventi le avevano trasformate in cattive.
Il bambino, nell’ascolto di storie, viene a sentire che certi valori (le cose e le azioni buone) e certi disvalori (le cose e le azioni cattive) sono distinguibili tra di loro; sono condivisibili; hanno da essere posti a fondamento della vita.
I valori e i disvalori, così, possono: 1) essere riconosciuti; 2) divenire elementi di base per orientarsi nella valutazione degli accadimenti; 3) essere utilizzati come fondamento nella scelta fra i possibili comportamenti e le possibili azioni.
Vedete come le storie ascoltate e poi lette contribuiscono alla costruzione condivisa delle basi della morale e dell’etica, patrimonio che il bambino porterà sempre dentro di sé, nel corso di tutta la propria vita. Ma, attenzione! Le storie che hanno precise ed esplicite finalità pedagogiche sull’etica e sulla morale di solito sono storie che, giustamente, suonano false alle orecchie dei bambini. Pensate, per esempio, agli stucchevoli ammonimenti di Collodi nel suo Pinocchio e alle implicazioni sottintese in moltissime storie dei Fratelli Grimm.
6 – Apprendimento delle “regole” della vita relazio nale e sociale
Mentre ascolta e immagina storie, il bambino è indotto a rappresentarsi nella mente anche i differenti modi in cui possono venire strutturate le relazioni fra le persone nelle differenti situazioni di vita. Impara, così, le “regole” della vita relaz ionale e sociale: ci sono modi buoni e modi cattivi, modi accettabili e modi inaccettabili, modi adeguati e modi inadeguati, modi raccomandabili e modi sconsigliabili, modi desiderabili e modi temibili.
Questo apprendimento è importantissimo per la socializzazione. Per esempio, il bambino impara che, per essere alla fine contenti, conviene porsi in rapporto con gli altri e con la realtà in modi adeguati; che bisogna cogliere e considerare anche il punto di vista degli altri; che, piuttosto che litigare, è più bello andare d’accordo, senza però sottomettersi masochisticamente agli altri tradendo se stessi.
Vorrei fosse chiaro che per questa via il bambino non impara soltanto i valori, ma impara anche e soprattutto che ha la possibilità di contribuire attivamente a strutturare i rapporti con le altre persone in modi differenti, alcuni dei quali sono migliori e altri sono peggiori.
Progressivamente, così, avrà l’opportunità di costr uirsi delle conoscenze non solo su come gira il mondo dei rapporti fra le persone, ma anche su come egli stesso può contribuire a farlo girare bene.
7 – Apprendimento all’esercizio delle funzioni geni toriali “materne” e “paterne”
Noi mammiferi, e ancora più noi umani, abbiamo bisogno che, per lungo tempo dopo la nostra nascita, vi sia qualcuno che si occupi di noi. Si tratta di un bisogno assoluto, tant’è che, in mancanza, non possiamo neppure sopravvivere. Questo, perché, per lungo tempo, noi non siamo in grado di esercitare in prima persona delle funzioni che pure sono per noi indispensabili.
Chiamiamo “genitoriali” queste funzioni, perché di solito vengono esercitate dai genitori del bambino, e le distinguiamo in “materne” e “paterne” non perché debbano essere esercitate le une dalle mamme e le altre dai papà, ma soltanto perché, storicamente, corrispondevano alla rigida suddivisione di ruoli propria della famiglia borghese di fine ’800 e inizi ’900, di quando, cioè, questi funzioni vennero scientificamente osservate e definite in modo sistematico.
Sono insiemi bene individuabili di funzioni essenziali, che però appartengono a tutte le persone: uomini e donne, grandi e piccoli, sposati e single, con figli e senza figli...
Nasciamo tutti predisposti ad attivare in noi queste (come molte altre) funzioni fondamentali, ma è necessario che le impariamo, per poterle esercitare sia verso noi stessi sia verso le altre persone. Se non impariamo ad attivarle e a gestirle verso noi stessi, non riusciremo a realizzarci adeguatamente nella nostra vita, né realizzare le cose che ci interessano, e neppure a godere nel corso delle nostre esperienze o anche solo ad essere contenti. Affinché riusciamo a imparare ad attivare noi queste funzioni, è indispensabile siache altri le abbiano esercitate verso di noi sia che ce le lascino esercitare direttamente.
Le funzioni cosiddette “materne” sono quelle dell’a more incondizionato: sono contento che tu esisti, ti faccio le feste quando ti vedo, faccio in modo che tu sia contento, ti accolgo, ti coccolo, ti ricolmo di affetto e di attenzioni, ti nutro, ti accudisco, gioisco con te nello stare insieme...
Le funzioni cosiddette “paterne” sono quelle dell’a more che sostiene nella realizzazione di sé: ti voglio bene eti stimo; so che tu puoi farcela, e ti indico come hai da fare per farcela e come hai da non fare; se cadi, ti mostro che puoi rialzarti e che puoi ripartire; ti mostro che sei in grado di sopportare il dolore e le frustrazioni inevitabili, e che può valere la pena (una pena che vale!) soffrire magari un poco, per realizzare qualcosa che poi ti potrà fare più contento; ti indico i limiti, le regole, le procedure non per mortificarti, ma per favorire che tu ti realizzi al meglio. Il semaforo serve per far scorrere meglio il traffico, non per mortificare quelli che si trovano dalla parte del rosso; conoscere i propri limiti e vincoli della realtà serve non a inibire la propria iniziativa, ma a renderla efficace; sopportare i dispiaceri inevitabili della vita serve a poter cogliere ciò che di bu ono nella vita è possibile; rinunciare a qualche cosa di immediato può essere importante per realizzare qualche cosa che potrà dare una contentezza più amp ia e più intera in seguito.
È forse più esatto dire che quelle “materne” sono f unzioni amorevoli, che al limite, tendono a prescindere dal rapporto dell’amato con la realtà, mentre quelle “paterne” sono funzioni amorevoli che facilitano e sostengono il rapporto dell’amato con la realtà.
Il bambino deve imparare a esercitarle entrambe: verso di sé, prima di tutto, e poi anche verso gli altri. Deve poter arrivare a sentirsi come una cosa buona, della cui esistenza si è contenti, e verso cui si prova tenerezza e affetto; ma deve anche poter arrivare a sentirsi una cosa buona per la quale vale la pena darsi da fare in modi efficaci, con l’impegno, con la sopportazione delle frustrazioni e del dolore inevitabili, con la consapevolezza dei limiti, con la necessaria attenzione verso gli altri...
Potremmo dire che scopo dei genitori nel rapporto con i figli è quello di operare assiduamente fino al punto di diventare, per essi, inutili.
Nei racconti sentiti o letti, il bambino ha la possibilità di vedere all’opera queste funzioni genitoriali “materne” e “paterne” in modi different i ed efficaci (o inefficaci). Potrà identificarsi s ia in chi attiva queste funzioni, sia in chi ne è l’oggetto e ne riceve i frutti, arrivando progressivamente a integrare le cose in modo tale da poter essere lui stesso colui che, contemporaneamente, esercita le funzioni e colui verso cui le funzioni medesime sono indirizzate.
Forse è superfluo sottolineare, sì, che questo apprendimento attraverso i racconti è utile, ma che quello che si attua nel rapporto diretto del bambino con le persone che si occupano di lui è indispensabile.
8 – Per chi racconta
Finora, abbiamo osservato le cose dal punto di vista del bambino che ascolta o del ragazzino che legge. Ma uno dei motivi per raccontare o leggere storie ai bambini riguarda chi racconta o legge, (oltre a chi scrive).
Per essere dei buoni narratori, o anche solo dei buoni lettori, è necessario avere la capacità di accogliere con attenzione, rispetto e amorevolezza le proprie e le altrui emozioni, le proprie e le altrui esperienze. E ogni volta che si racconta, si “allenano”, per così dire, queste capacità. Si att iva, per esempio, la capacità di condivisione empatica con l’esperienza dei personaggi (esperienza che, a ben guardare, è stata a propria volta inventata sulla base di una condivisione empatica con nostre esperienze, o con esperienze universali di noi tutti esseri umani).
Questa condivisione empatica attivata nel narratore svolge, fra le altre, preziose funzioni di sostegno del Sé, oltre che di recupero di sé nei momenti di smarrimento o di esperienze dolorose o frustranti, attraverso una integrazione del Sé. Per integrazione del Sé intendiamo una cosa molto semplice, ma assolutamente importante nella vita: mettere in contatto vivo fra loro i vari aspetti di sé, differentemente attivi: quelli addolorati, peresempio, con quelli che nutrono la speranza; o quelli disperati, con quelli che forniscono consolazione; o quelli spaventati, con quelli curiosi di conoscere e quelli capaci di trovare vie di uscita o rassicurazioni; e così via.
Sostegno del Sé, recupero di sé e integrazione delSé sono gli ingredienti fondamentali della bonifica delle proprie esperienze traumatiche, dolorose o, comunque, difficili.
Si potrebbe dire tutto questo in modo semplice e riassuntivo, affermando che, come l’ascoltatore, anche il narratore usufruisce della narrazione.
Ci capita di vivere un piacere speciale nel fare qualche cosa per gli altri (gli ascoltatori, in questo caso) e – contemporaneamente – per noi stessi (in q uesto caso, il narratore): è il piacere di una realizzazione “a più livelli”, di una realizzazione “tridimensionale”.
C’è, poi, una specialissima esperienza che si realizza in chi racconta una storia a un bambino, analoga a quella di un attore davanti al suo pubblico: è quella, piacevolissima, di identificarsi nella stupita meraviglia del bambino che va identificandosi con i personaggi nel dipanarsi del racconto. Una identificazione in chi si identifica. Una identificazione “di secondo grado”, per così dire. Sentendosene facilitatori.
9 – L’arricchimento della relazione
Il sesto motivo per leggere o raccontare storie ai bambini è che il narrare-ascoltare arricchisce potentemente la relazione affettiva fra adulto e bambino, rendendola più forte, più modulata, più profonda, più “di grande spessore”. È quasi come l’ arricchirsi e l’approfondirsi della relazione fra persone che hanno fatto insieme e condiviso le stesse esperienze, soprattutto se particolarmente drammatiche (spedizioni alpinistiche in paesi lontani; volontariato in situazioni difficili; servizio militare; salvataggio di persone in pericolo; campi scout; ma anche soltanto: un anno scolastico intero nella stessa classe; partecipazione allo stesso corso di preparazione al parto; degenza appena un poco più prolungata nello stesso reparto ospedaliero…).
Se il racconto viene letto, la relazione che si arricchisce è “a pantografo”, sui due fronti: da un lato, fra autore e lettore; e dall’altro, fra lettore e ascoltatore. Tutti noi abbiamo nel cuore un grandissimo amore per certi autori, che sentiamo a noi famigliari, anche se magari non sappiamo neppure che faccia avessero.
L’arricchirsi della relazione affettiva avviene principalmente perché, come accade fra coloro che condividono la medesima esperienza, si struttura una sorta di intreccio di identificazioni. Intreccio vivo e mobile. Intreccio emotivo, intreccio esperienziale.
Il bambino si identifica con i personaggi del racconto, soprattutto col protagonista. E questo è ovvio. Ma il bambino si identifica anche con l’adulto narrante, con colui che osserva le esperienze e le emozioni, le descrive, le riconosce, ne è incuriosito, dà loro valore e vita, vi risuona, vi partec ipa, le condivide. Anche l’adulto, come è ovvio, si identifica con le emozioni e le esperienze dei personaggi della storia, soprattutto con quelle del protagonista. Ma l’adulto si identifica anche col bambino che si affaccia al mondo delle esperienze fondamentali della vita in modo naïf, senza dare nulla per scontato o per risaputo, recuperando, così, la stupita meraviglia della scoperta. Scoperta di sé, scoperta della propria vita mentale, scoperta del senso della vita. Scoperta delle possibili relazioni interumane. Scoperta dell’incontro col dolore, con la morte, con lo smarrimento, con la felicità, con la speranza, con l’insensatezza, con la casualità, con la disperazione, con le risorse inaspettate, con i conflitti intrapsichici e relazionali, con la pacificazione, con l’amore, con la giustizia. Ed – ovviamente – con le emozioni: con tutte le emozioni possibili e immaginabili.
Giova ricordarlo: questo intreccio di identificazioni contribuisce, fra l’altro, a recuperare e a bonificare – da parte di entrambi! – le esperienze in cui l’adulto è stato realmente cattivo colbambino. E a consolidare le esperienze buone.
10 – È bello e piacevole
C’è poi un ultimo motivo per leggere e raccontare storie ai bambini, che fra tutti non è certamente il meno rilevante.
Raccontare e ascoltare racconti, scriverli e leggerli, è piacevole: per chi li legge, per chi li ascolta, per chi li racconta, per chi li scrive. Per chi li inventa e per chi ne usufruisce, “reinventandoli” nella propria mente. E basterebbe già questo solo motivo, per prestarvi attenzione e dedicarvi del tempo.
Si tratta, come qua e là abbiamo in parte anticipat o, di un piacere molteplice, fatto di molti aspetti. Il gusto della scoperta, il gusto della finzione, il gusto della verità emotiva, il gusto del la invenzione, il gusto della contemplazione, il gusto dell’attendere la sorpresa adeguatamente preparata, il gusto del meraviglioso. Ma anche il piacere della creazione, il piacere del partecipare alla creazione (quella che gli intersoggetivisti chiamano la “co-costruzione nella relazione”), il piacere della ri-creazione soggettiva all’interno della propria mente... E tutti i piaceri relazionali cui abbiamo sopra accennato. Ma anche il piacere di sentire la propria mente funzionante, e funzionante all’unisono con un’altra mente...
I bambini amano sentir raccontare innumerevoli volte sempre le stesse storie, per garantirsi nello stesso tempo sia il piacere della scoperta del nuovo e del perturbante sia quello della rassicurazione nel ripercorrere il noto e il confortevole. In questo percorrere e ripercorrere sentieri già noti, ancorché impervi, il bambino ha modo anche di potersi identificare non solo con il protagonista, ma anche con i suoi aiutanti (maghi, fate, vecchine, coniglietti parlanti...) e con i suoi antagonisti (streghe, mostri, vecchiacce, orchi, rivali...). Per questa via, oltre tutto piacevole, potrà essere più completa e integrata la bonifica degli accadimenti emotivo-relazionali della sua propria esistenza.
11 – Una precisazione importante
Prima di concludere, vorrei mettervi sull’avviso su una questione importante.
Noi adulti possiamo leggere o raccontare storie ai bambini con tre principali differenti finalità. L’una, buona e arricchente, è quella di far entrare i bambini in contatto con la verità delleesperienze fondamentali della vita (nascita, vita, morte, amore, gelosia, invidia, bisogno diattaccamento, bisogno di andarsene per esplorare il mondo, speranza, frustrazione, rabbia, rivalità, gratitudine, tenerezza, sorpresa, piacere della scoperta, piacere di nuove conoscenze, diffidenza, dolore per la perdita di cose e persone, piacere del ritrovamento, fiducia, felicità, paura, angoscia impotente, soddisfazione, successo, sconfitta, noia…).
La seconda finalità (che, con termine rigoroso, pos siamo chiamare “performativa”) è quella di far fare delle cose ai bambini. Per esempio: ti racconto una storia per distrarti, così mangi tutto quello che voglio io, contro la tua volontà.
La terza finalità, infine, è quella di confondere il bambino con falsità, per esempio: raccontandogli la storia della cicogna che porta i neonati; o quella del nanetto che avrebbe rubato il ciuccio che non si trova più, perché magari siamo stati indotti a nasconderlo da un qualche fanatico dell’ortodonzia.
Raccontare, dunque, per esprimere e arricchire la conoscenza emotiva di sé, degli altri e della vita, da un lato; raccontare per confondere o per far fare qualche cosa che altrimenti non farebbe, dall’altro lato. Verità; menzogna e potere.
In posizione intermedia si colloca il raccontare per trasmettere valori (onestà, sincerità, generosità, responsabilità, coraggio, altruismo, la boriosità, astuzia, perseveranza, solidarietà, avventura…), e per sanzionare disvalori (ingordigia, invidia, ira, sprovvedutezza, inganno, superbia, viltà, doppiezza… ).
A questo punto, lascio a voi il compito di ricordare almeno una fiaba per ogni emozione, valore o disvalore che vi ho citato come esempio.
Questo testo è stato presentato il 7 ottobre 2006, a Torino, nell’ambito delle iniziative “Torino Capitale del Libro”, al Seminario “Nati per leggere”, organizzato dalla Regione Piemonte, dalla Sezione Nord Ovest dell’Associazione Culturale Pediatri (ACP/NordOvest) e dall’Associazione Nati Per Leggere. La prima e l’ultima parte di questo lavoro sono state riassuntivamente anticipate nell’articolo “Fiabe come specchi. Riconoscere le esperienze per conoscere le emozioni attraverso la lettura e il racconto di fiabe”, in Un pediatra per amico, Anno 6, n. 4, Settembre/Ottobre 2006, pagg. 12- 13.
Note
- Vale la pena ricordare, en passant, che, nel corso di una psicoterapia, il percepire da parte del paziente che il terapeuta genuinamente risuona con le sue esperienze e le sue emozioni è il fattore terapeutico di base per qualunque tipo di psicoterapia. Questa è la ragione per cui possono essere efficaci in modo simile interventi psicoterapici anche molto differenti, basati su teorie (del funzionamento della mente, dei processi di strutturazione della patologia psichica e relazionale, nonché della natura del processo psicoterapeutico)così differenti fra di loro da essere addirittura incompatibili. (È ovvio, però, che ogni tipo di psi coterapia ha anche propri specifici fattori terapeutici, differenti da quelli di altri tipi di psicoterapia).
- Di solito, più le storie sono ricche di significati, in quanto rappresentano molte e differenti emozioni ed esperienze, e più sono amate da bambini e adulti.