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etti una sera passando per Monza… In un palazzetto assediato, tra poliziotti e manifestanti, e con davanti il pubblico delle grandi occasioni, il ministro «più potente al mondo dopo il Pentagono» spiega la scuola che cambia e che sarà: non più per tutti, ma per ciascuno

 

«Il presidente non ci permetterebbe mai di star qua a scaldare la sedia. È molto brianzolo, in questo senso.» Tempo un attimo e scoppia la risata. Poi eccola tornare seria, decisa, il tono grave: «Sono un ministro della Repubblica italiana e in quanto tale rappresento, sì, coloro che protestano, ma ho anche il dovere di rappresentare tutti quelli che mi hanno votato. E sono in tanti: è il Paese.» Mariastella Gelmini è di casa, da queste parti. È stata per anni, in Forza Italia, coordinatrice regionale della Lombardia. Ed è proprio a partire da qui, dal «cuore pulsante che lavora e manda avanti il Paese», che ha deciso di prendere a girare l’Italia per chiedere agli amici di una vita, ai suoi sostenitori, a «voi, persone che ragionate con la vostra propria testa», un aiuto, un’azione concreta per smontare «le bugie e le falsità che una certa sinistra ha messo in giro», complice il «tentativo da parte della stampa di mistificare o di mettere zizzania interna».

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Siamo a Monza, all’Urban Center di via Turati, tra il vecchio scalo merci, oggi Porta Castello, e il settimo binario, l’ultimo, della stazione. Potrebbe quasi sembrare una qualunque sera d’autunno. È lunedì. E c’è un po’ di nebbia in Brianza. La famigerata conferenza stampa dell’«Avviso ai naviganti» sarebbe ancora dovuta venire, da lì a due giorni. Il premier non c’è, ma il ministro sì, attesissimo, anche da diverse centinaia di «facinorosi» (mamme+bimbi+pentole+ragazzi+bandiere, poche). L’occasione è il convegno organizzato da Forza Italia «La scuola italiana che cambia: la scuola del merito e della responsabilità». Una serata a inviti, per lo più indirizzati a politici, imprenditori e amministratori della zona, e senza accredito non si entra. I giornalisti sono pochi (l’iniziativa, causa il timore di possibili proteste, è stata quasi taciuta, tanto che, per farsi confermare l’effettivo svolgimento della serata, il giro di telefonate era in media di cinque / dieci rimbalzi tra vari responsabili locali, addetti stampa e segreterie di assessorato). Numerose, invece, le forze dell’ordine che circondano e proteggono tutti gli ingressi in tenuta antisommossa, modello fornito di ginocchiere, elmetti e tutti i restanti optional.

«La battaglia non ha mai fine.» È un lampo: una frase così ce la si aspetterebbe più da fuori, che dalla sala. E invece: «Siamo stufi delle barriere della Cgil e della sinistra. Vogliamo essere liberi di decidere dove mandare i nostri figli a scuola.» Orgoglioso di essere brianzolo e appassionato di politica – così si presenta sul suo sito – è Massimo Ponzoni a parlare, trentaseienne assessore e consigliere della Regione Lombardia, soprannominato da queste parti Mister Preferenze (più di ventimila consensi nella circoscrizione di Monza e Brianza, primo eletto nelle liste di Forza Italia alle regionali del 2005, del suo discorso di investitura ufficiale a coordinatore provinciale si ricorda: «Berlusconi parlò di lungimirante e visionaria follia. Ebbene, noi siamo quei matti di cui parlava nel 1994. Ancora oggi conservo per questo partito tutto l’entusiasmo di allora e gioisco quando in un comune viene issata la bandiera di Forza Italia: perché so che da quel momento, in quel luogo, ci sarà libertà.»). È lui, con questa battuta, a mettere sul tavolo le prime carte per la discussione: 1. esiste un muro di Berlino sulla libertà di educazione; 2. questo muro, eretto da una certa cultura fin qui dominante (di tipo statalistico-sindacale, frutto, marcio, del ’68), va abbattuto; 3. perché, per noi, diventa fondamentale educare alla libertà: «Ai nostri ragazzi non vanno proposte ideologie ma il cammino verso la verità». Il punto di partenza è, lo ripete anche la Gelmini, la situazione di «emergenza educativa».

Sul palco, accanto al ministro, siedono, da sinistra a destra: Pierfranco Maffè, medico e assessore all’Educazione, Parchi e Villa Reale del Comune di Monza; il sopradetto Massimo Ponzoni, professione imprenditore/dirigente d’azienda, giovane consigliere e assessore regionale alla Qualità dell’Ambiente con delega alla Prevenzione, Polizia locale e Protezione Civile; Gianni Rossoni, vicepresidente e assessore all’Istruzione della Regione e, infine, Renato Farina, nome in codice Betulla, oggi membro della VII Commissione, Cultura, Scienza e Istruzione. Tutti Fi e amici del ministro.

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«Non è più tempo di ipocrisie», tuona Mariastella. «La scuola è prima di tutto un servizio, di cui dobbiamo abituarci a misurare i costi, i benefici, la qualità, il grado di soddisfazione degli utenti e di coloro che vi lavorano. Gli italiani hanno diritto ad avere rispetto, a vedere che i loro soldi vengono spesi bene. È un dato di fatto: siamo uno dei Paesi che spende di più in Europa per performance tra le peggiori.» Interviene Farina. Lui, che è andato allo Zucchi, lo storico liceo classico di Monza, vede un chiaro filo rosso che tiene assieme tutto: «Bisogna tornare ad avere al centro della scuola la persona e non il problema sociale degli insegnanti: il merito della persona e la famiglia, che chiede qualità e metodo». Il presidente Berlusconi lo ha già fatto, afferma il ministro, «ha mandato un messaggio molto chiaro ai giovani, facendo sì che una come me, Mariastella Gelmini, diventasse ministro»: una che da 14 anni, ogni giorno, dicono i colleghi, si è costruita con sacrificio e impegno, un esempio di meritocrazia, una «martire», seconda Betulla, «nel senso etimologico del termine, perché è una testimone».

Se non fosse che di Monza si dice essere un centro molto tranquillo, la scena farebbe venire in mente quasi una città post atomica, tipo la Londra del 2020, quella dal futuro inquietante e dalla visione buia e minacciosa, immaginata da Alan Moore nel suo V per Vendetta. La strada, per arrivare al centro congressi, è chiusa. Due vigili danno indicazioni per raggiungere il palazzetto, che si staglia, solo, nella notte, tra i fumogeni colorati della protesta e la foschia. Bisogna oltrepassare a piedi il ponte. C’è da superare la folla – il piazzale davanti all’Urban Center sarebbe deserto, se non fosse per loro – e rompere il semicerchio segnato dagli agenti. Le porte sono sbarrate, dall’interno. Lei però, da dentro, afferma di essere per il dialogo: «Il sale della democrazia è il sapersi confrontare proprio quando si hanno posizioni differenti» (un agente: «Non ho capito perché la Gelmini non ha voluto ascoltare un gruppo di maestre, poteva accettare alcuni di questi che stanno qua a manifestare. La storia del confronto non mi convince…»). Una volta fatti i debiti controlli («Faccia vedere il tesserino… Per chi ha detto che scrive?»), finalmente, riusciamo a entrare.

Tutti ce l’hanno coi bidelli. Basta ascoltare i discorsi sull’autobus o in giro per la città in uno dei giorni in cui sfila una protesta NoGelmini. Di solito, iniziano tutti più o meno così:

– Manifestano… Che, poi, a fare cosa? Io è da quando sono nell’età della ragione che ho capito che quando si prova a toccare la scuola succede un finimondo.

– Ma a lei le pare? L’ha detto anche il provveditorato: ci sono troppi insegnanti… È il Sud che sforna maestri, questi vengono qui da noi, noi siamo costretti a far le classi apposta per loro, e alla fine chiedono pure il trasferimento per tornarsene giù…

– Anziché andare a scuola, se ne vanno in giro tracannando bottiglie di vino alle dieci del mattino… Bel salto di qualità per la nostra scuola!

– Tutti fannulloni! Va’ a’ lavurà!

Fino, poi, al fatidico: «Abbiamo più bidelli (167 mila) che carabinieri (116 mila)». Questo sui bidelli è diventato un vero e proprio motto, un simbolo, in negativo, della malascuola (per gli appassionati del social network Facebook, segnaliamo inoltre che sotto questa sigla è nato anche un gruppo pro Gelmini). «Ai miei tempi c’era solo un bidello per istituto, ora ce ne sono nove, non si sa a fare cosa, o meglio, sì che si sa…», la platea di Monza applaude, «perché poi questi son tutti quelli che hanno due o tre lavori e passano il tempo a scuola, servizio per cui li paghiamo, giocando a carte!», dice Betulla, che, oltre ad aver fatto il Liceo Zucchi di Monza, è stato, all’università, allievo del fondatore di Comunione e Liberazione Don Giussani. È l’idea del: non è che spendiamo poco, anzi, siamo tra quelli che spendono di più, è che lo facciamo male. E questo perché per «una certa ideologia del ’68, la scuola è diventata, come tutta la pubblica amministrazione, un erogatore di stipendi e un ammortizzatore sociale, un serbatoio di posti da assegnare », afferma il ministro, ma il concetto – si potrebbe definire il teorema Brunetta – era già stato espresso a vario modo da tutti i presenti sul palco: «Mariastella, per il personale che ha sotto di lei, è il ministro più potente al mondo, dopo quello del Pentagono! », dice il vicepresidente della Regione Rossoni.

La figura del bidello assume così immediatamente i connotati del fannullone e, tra l’altro, mal si coniuga con la «lavagna interattiva multimediale» che a partire da quest’anno farà il suo ingresso nelle scuole: in mezzo ai tanti risparmi previsti dalla «riqualificazione della spesa per l’istruzione», un investimento di ben 20 milioni di euro per il 2008 più altri 10 per il 2009. Chi si immagina il bidello che, al posto del gesso o del cancelletto, entra in classe per portare il puntatore laser dalla lucina rossa?

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E intanto, nella diatriba sui tagli che ci saranno, anzi non ci saranno; sull’informazione versus la realtà; sulle bugie versus la verità – temi, questi ultimi, da sempre cari al Presidente – ci si perde, forse, un po’ di realtà. Come, per esempio, il fatto che nella sola Milano manchino più di mille bidelli (fonte: Il Giornale, 22 ottobre).

Milan, Milan, l’è bela Milan. Il modello lombardo-brianzolo è molto presente nell’azione di «manutenzione ordinaria e straordinaria » di questa emergenza educativa: a partire dall’idea di scuola come «la più grande azienda italiana», si legge in un articolo dal titolo «Scuola protagonista del programma Pdl», uscito in piena campagna elettorale sul Giornale della Libertà. E poi lo dice la stessa Gelmini, qualche ora prima del convegno all’Urban Center, in una visita ufficiale all’Associazione In-Presa del Liceo paritario Don Gnocchi, a Carate Brianza, poco distante da Monza.

La saletta è stracolma. Moltissimi i ragazzi, quasi tutti studenti del Don Gnocchi. Ci sono naturalmente i consueti rappresentanti, consiglieri, personalità del mondo della scuola della zona (compreso il sempre presente Ponzoni) e poi tanti, ma davvero tanti, genitori e famiglie. Il luogo scelto non è casuale. In-presa è un’associazione, nata 15 anni fa su iniziativa di una donna volenterosa, Emilia Vergani, che organizza a Carate corsi di formazione professionale con lo scopo di accogliere «tutti quei ragazzi che il sistema ha lasciato alla porta».

Pietro è l’unico ragazzo deputato a parlare. È un ex Don Gnocchi, oggi al primo anno di medicina. «Scusa», chiedo al ragazzo seduto vicino a me, «ma perché interviene lui e non uno di voi, uno studente che frequenta ancora?» E lui: «Ehm… Io non sono di questa scuola…» Va beh. Pietro prosegue: «Quando mi sono trovato davanti al test di medicina per me erano tutti argomenti nuovi, cioè, ho capito che vale la pena studiare, che mi serve un metodo e questo, cioè, l’ho imparato qui. Qui mi sono stati dati gli argomenti per affrontare la vita.» Una scuola che funziona, dunque. E, tra l’altro, dice Ettore Villa, presentato ai più come «presidente cowboy» del Don Gnocchi, «senza aiuti pubblici, ma solo grazie a un gruppo di persone che si sono date da fare» (andate a leggere l’appello online pubblicato sul sito www.forzagelmini.com, nato a favore della riforma: «… attivare quella scuola paritaria che ha dato prova in questi anni di costare meno al contribuente e di dare migliori risultati al Paese…» ).

Da realtà come quella di Carate, dalla scuola paritaria, dice il ministro, «io recupero l’idea di autonomia e di sussidiarietà», ovvero della prevalenza delle scelte dei cittadini su quelle dello Stato. Autonomia e sussidiarietà sono due parole care da tempo al Pdl. «Vogliamo scuole più autonome sia sul piano finanziario sia sulla possibilità di selezionare i docenti, a prescindere dalle graduatorie», dice Valentina Aprea, presidente della Commissione Cultura della Camera, già responsabile scuola di Forza Italia ed ex sottosegretario del ministro Moratti. «Con una partecipazione aperta anche ai rappresentanti delle imprese», prosegue. «E possibilità di carriera interna degli insegnanti con “premi di produzione”, proprio come nelle aziende.» È uno dei pilastri del modello lombardo della scuola, fortemente voluto da Formigoni e Rossoni, il punto di arrivo della legge 19/2007 della Regione Lombardia, impugnata e bloccata dal precedente governo e che la Gelmini, invece, ha già detto di voler rendere effettiva. Lo slogan con cui la legge veniva sintetizzata era «Una scuola non più per tutti ma per ciascuno», con il sottotesto: per tutti = bassa qualità, mentre per ciascuno = alta qualità. Il passaggio, anche solo dalla riforma Moratti, che mirava a una scuola «per tutti e di ciascuno», è notevole. E se prima la parità pubblico-privato era auspicata, oggi è assodata.

Educare alla libertà, questa sarebbe la loro missione. Partire da una scuola nuova, per avere un’Italia nuova. Ecco perché diventa fondamentale creare un «nuovo orizzonte culturale ». Si capisce, allora, anche l’incoraggiamento alla «battaglia », tutto il tono della serata monzese. Non nuovo, a dir la verità. «Militia est vita hominis super terram. La vita dell’uomo è combattimento sulla terra e la battaglia a cui il nostro popolo è chiamato è questa», si era sentito un paio di settimane fa a Gubbio, alla Scuola di formazione del Pdl.

«Invertire la rotta non sarà una passeggiata. Ma abbiamo un mandato popolare che, in termini di ampiezza e di significato, forse non ha precedenti nella storia della Repubblica. Se non ora, quando?»

Foto all'interno del teatro di Antonio Piemontese, foto dei manifestanti di Simone Camassa.

Articolo pubblicato per gentile concessione di Diario, tratto dal n. 20 del 31 ottobre 2008.