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L'elezione di Obama è un fatto storico eccezionale, dovuto a meccanismi di competizione politica ben funzionanti, regole chiare e libera circolazione delle idee: una vittoria del metodo democratico. Ora ha tante promesse da mantenere. E molto probabilmente si muoverà con estrema cautela, a causa della crisi economica, ma anche per scelta politica. Fra i primi test a costo zero, nomine alla Corte suprema, chiusura di Guantanamo, aborto e cellule staminali. Ma dovrà intervenire anche per stimolare l'economia e per riformare la sanità. L'incognita della politica estera.

Barack Obama è il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti.
Cominciamo dalle certezze, ossia dai fatti. E dalle cose che possiamo imparare in Italia dalla sua elezione.

I FATTI

È una vittoria che, seppure scontata da un mese a questa parte, era ancora in dubbio due mesi fa e appariva impossibile l'anno scorso. Da questo punto di vista, che si provi o meno simpatia per Barack Obama, la sua vittoria è la vittoria dell'under-dog, dello sconfitto di sempre, dell'escluso e dell'illuso rispetto agli insiders, ai saggi con i piedi di piombo, a quelli che "comunque appartengono" e che, da sempre, contano. Per questo la presidenza di Obama è un fatto storico eccezionale. Ed è dovuto anche a meccanismi di competizione politica ben funzionanti, regole chiare e libera circolazione delle idee. Una vittoria del metodo democratico e di istituzioni fondamentalmente solide che resistono e vincono, alla fine, su tentazioni bonapartiste, o peroniste che dir si voglia.
Crediamo sia il caso di tenerne conto, specialmente in quei paesi dove queste cose non ci sono e, quindi, vincono sempre e comunque quelli che appartengono al giro giusto.
Tenere conto, soprattutto, che nonostante i diffusi giudizi sulla decadenza americana e sulla fine del ruolo degli Stati Uniti come nazione "guida" del mondo democratico e capitalista, questo paese riesce a sparigliare il gioco di tutti. La sostanza è che gli Usa sono ancora una nazione innovatrice. Hanno stupito il mondo per la loro disponibilità ad assumersi un rischio che molti scettici avevano escluso. Potrà andar bene o male, questo lo vedremo, ma in questo momento il segnale di cambiamento è forte ed è quello dominante nelle piazze di questo paese, a quest'ora.

FONDAMENTALI LE PRIMARIE

A novembre dell'anno scorso era chiaro che un democratico avrebbe vinto, era molto meno chiaro che avrebbe vinto Obama. La vera sorpresa quindi è venuta dalle primarie. Un candidato istituzionale dei democratici c'era ed è stato sconfitto. Ecco la prima lezione: le primarie sono un meccanismo efficiente di selezione di un leader solo se la base elettorale dei partiti le prende sul serio e se esiste nei media una competizione sufficiente a permettere anche all'under-dog di parlare ed essere sentito, e poi ascoltato. Questa reputazione va guadagnata, questa libertà nella circolazione delle idee va costruita. In Italia sarebbe il caso di cominciare a pensarci sul serio, invece di litigare sulle preferenze.
Le campagne future saranno finanziate in larga parte attraverso internet, con una partecipazione attiva degli elettori. Il finanziamento pubblico dei partiti negli Stati Uniti è morto e non tornerà mai più. Obama ha annientato McCain sul piano dei contributi. I repubblicani hanno visto, studiato e promettono vendetta con un piano da un miliardo di dollari nel 2012.
Queste sono anche le elezioni che vedono il principio della fine dei grandi mezzi di comunicazione, i giornali in primo luogo. La loro popolarità è pari a quella del Congresso, che è più bassa di quella di Bush. Una larga maggioranza degli elettori ha dichiarato che i grandi mezzi di comunicazione hanno favorito Obama, e bisognava essere ciechi e sordi per non accorgersene. Interi network, Msnbc in particolare, si sono trasformati in cinghie di trasmissione di un candidato. È enorme la differenza con un momento storico simile: la fine della presidenza Nixon-Ford, grazie al Washington Post. Oggi Obama vince nonostante il New York Times lo appoggi. Vale la pena rifletterci.
Obama è di origini umili, ma è stato selezionato da un sistema di grandi università di elite, come la grande maggioranza degli altri presidenti. Si può non essere d'accordo con il taglio ideologico di quelle università, ma  è innegabile che insegnano e selezionano. Chi crede che un sistema elitario serva solo a garantire il mantenimento di posizioni di privilegio ma allo stesso tempo è entusiasta del suo successo, dovrebbe fare meglio i propri conti. Una scuola forte, con accesso di massa è necessaria, ma un vertice fatto di istituzioni a cui solo pochi, altamente meritevoli, possono accedere è vitale per il funzionamento democratico di una nazione. Selezione sul merito, senza condizioni di favore per nessuno, ma pur sempre selezione.
Riflettere anche su questo, nei giorni delle occupazioni e delle misure tampone, non sarebbe una brutta idea.

IL FUTURO

Veniamo alle ipotesi sul futuro.
Cosa farà Obama? Difficile dirlo, visto che ha cambiato posizione su tutte le questioni essenziali. Ma una cosa è certa: Obama governerà a centro-sinistra e non a sinistra. Lo farà in parte per necessità, perché la crisi economica è reale e rimane tale. E lo farà anche per scelta, perché il suo oscillare su diversi punti essenziali è risultato strumentale alla costruzione del consenso che lo ha eletto oggi. Di più: lo farà anche per saggezza politica, non solo per necessità economica. Deve realizzare molte promesse. Ma una prima grande trasformazione è già avvenuta: nulla sarà come prima nella società civile, non solo in quella politica, americana. E gli elettori neri non sono ingenui: basta vedere come hanno accuratamente studiato il nuovo venuto prima di appoggiarlo incondizionatamente. Ancora a gennaio, prima delle primarie in Iowa, il candidato degli elettori neri era Hillary Clinton. Hanno visto che una strategia ”senza mosse brusche” è una strategia vincente, e hanno imparato la lezione.
I test della sua azione politica? Le cose che non costano e che si possono fare subito o quasi subito: dalle nomine, quando sarà il momento, alla Corte suprema all'aborto per il quale non è impossibile che dopo tanto tempo si arrivi a un minimo di legislazione federale che tagli il nodo gordiano; dai diritti degli omosessuali alla ricerca sulle cellule staminali, alla chiusura di Guantanamo: tutte riforme che la maggioranza dei cittadini americani appoggia, e che non costerà molto intraprendere, seguendo il modello di Zapatero nella Spagna post 2004.
Un Obama di sinistra realizzerebbe la Fairness Doctrine, intesa sostanzialmente a limitare il potere mediatico delle radio di destra. Non crediamo che lo farà. Un Obama di sinistra realizzerebbe l'Efca, Employee Free Choice Act, un provvedimento che elimina il voto segreto nelle elezioni sindacali e contro il quale persino il vecchio "comunista" McGovern si è schierato. Si tratta di un vero test, perché i democratici al Congresso hanno già votato a favore. Lo stesso per gli accordi commerciali: un Obama di sinistra li cambierebbe molto, quello che abbiamo visto al lavoro nei mesi passati ne parlerà molto. Ma i democratici al Congresso hanno già votato contro alcuni tentativi precedenti (CAFTA).
I provvedimenti che costano dovranno aspettare, anche se qualcosa si farà per un pacchetto di stimolo all'economia e per la riforma della sanità. Ma non ci sono i 430 miliardi di dollari anno che il programma intero prevede. In parte, dipenderà dai tempi, più o meno rapidi di uscita dall'Iraq e dai risparmi che se ne potranno ricavare. Poi ci sono le tasse e i contributi alla sicurezza sociale: li alzerà davvero, come promesso, o andrà passin passetto? Propendiamo per il passin passetto, e non solo per l'incombente recessione.

L'INCOGNITA DELLA POLITICA ESTERA

La grande incognita? La politica estera. Per i giovani nel mondo, la vittoria di Obama è un messaggio di innovazione e di speranza. Altri avranno la tentazione di leggerlo in un modo diverso. Ricordiamo: il 9 aprile 2003 la guerra in Iraq era popolare, con 139 morti. La stessa guerra è diventata impopolare quando i morti hanno superato soglia mille. Qualcuno potrebbe pensare che soglia mille è il prezzo massimo che oggi un presidente americano può pagare in politica estera se l'opzione militare diventa realtà. Per fare un confronto, la svolta in Vietnam avvenne nel 1968, dopo 20mila morti. Ci potrà quindi essere la tentazione di interpretare questa elezione come un momento di debolezza. Per combattere questa tentazione, Obama dovrà avere più che la politica della speranza. John F. Kennedy fu messo alla prova subito dopo la sua elezione e dalle sue incertezze nacquero il muro di Berlino e la guerra del Vietnam.
Il futuro? Obama vuole lavorare per il lungo periodo. Ha in mente una grande trasformazione per realizzare la quale mancano tutti i dettagli tecnici anche se è riuscito a farne intravedere ai suoi elettori l'obiettivo essenziale: la riduzione dell'ineguaglianza economica. Ma come raggiungerlo? Obama non ha la ricetta magica in tasca, e lo sa, come lo sanno i suoi consiglieri. Non è però disposto a rischiare le sue carte con una sconfitta come quella che nel 1994 (quando i Repubblicani vinsero con “Il Contratto con l'America”) cambiò la presidenza Clinton solo due anni dopo la sua prima vittoria, sceglierà perciò di essere molto cauto nell'avviare il processo che dovrebbe portare a una riduzione delle diseguaglianze economiche di oggi. Per questo la sua vittoria è probabilmente più significativa di quanto non lo sembri oggi, per quanto importante essa appaia. Se gli Stati Uniti sono il paese della libertà e l'Europa quello dell'uguaglianza, oggi si sono mossi in direzione dell'Europa. L'uguaglianza come ideale politico ha un prezzo, ma lo si vede e lo si paga solo nel lungo periodo. La nostra ipotesi è che Barack Obama, non potendo calcolare ancora quanto sia alto quel prezzo, procederà con cauti esperimenti invece che con la coraggiosa baldanza che ha caratterizzato la sua corsa alla presidenza. Ma l'uomo, avendoci sorpreso già un paio di volte, potrebbe farlo di nuovo.

Da LaVoce.info