I finanziamenti per l'editoria, i giornali di sinistra, la libertà. Il direttore di Carta analizza lo stato delle cose in Italia.
Foto di Paolo Lafratta
C'è
UNA PAROLA CHE RICORRE CON FREQUENZA, nelle chiacchierate con amici come Marco Revelli ed altri, quando si tratta di indicare in modo semplice quel che è accaduto nel valico tra il Novecento e il nuovo secolo: quella parola è «faglia». Termine geologico, indica una spaccatura nel terreno, nelle rocce profonde, ciò che prima o poi provoca sommovimenti sismici. Usiamo quella parola quando si parla di stati nazionali o forma partito o anche – naturalmente – della crescita economica e della sua deriva suicida. Ecco, quel che penso è che la stampa di sinistra, in Italia, si trova su una faglia le cui scosse si fanno sempre più violente. E, come sappiamo che la sinistra politica potrebbe scomparire se non rinnova radicalmente i suoi modi d’essere, lo stesso vale per i giornali di sinistra. Sebbene giornali e partiti siano, in sé, organismi con fisiologie differenti, che vivono in contesti solo parzialmente paragonabili. E che stanno insieme a fatica, perché un giornale è per sua natura più simile a una zebra che a un cavallo: la differenza non sta nelle strisce bianco-nere, ma nel fatto che uno dei due non è mai stato addomesticato. Nella recente «Assemblea della sinistra e degli ecologisti», nessun workshop era dedicato all’informazione e i soli cenni alla questione, nei discorsi e nei comizi dal palco, alludevano alla «cattiveria» dei grandi media, televisione in testa. Sui media indipendenti, in pratica, nemmeno una parola. Vuol dire che sono inutili?
Quanto ai giornali – di questo stiamo parlando – in primo luogo a spiegarne le difficoltà c’è il mercato editoriale, in Italia particolarmente ostile a forme di vita non adattate alla giungla in cui ogni pubblicazione a stampa lotta per sopravvivere. Siamo uno dei paesi con la minore biodiversità, ossia libertà di stampa, per lo meno tra i paesi del nord, per la semplice e letale ragione che i fenomeni di monopolismo, o oligopolismo, o di cartello – come si dice in gergo economico – sono pienamente sviluppati, nel settore dell’informazione, almeno tanto quanto quello dell’energia, Tre o quattro soggetti governano, in un regime di concorrenza simulato, un mercato piuttosto ristretto [s’impara già all’esame da giornalista che in Italia si leggono tanti quotidiani quanto nel 1939]. La qual cosa ha conseguenza molto concrete.
Il sistema della distribuzione è organicamente ostile alle novità e alle piccole iniziative, ed è a sua volta gestito, dal centro fino all’ultimo edicolante, come un sistema plurimonopolistico [ossimoro apparente] che ha una ragione d’impresa centrata sul massimo guadagno in un mercato appunto piccolo, così che la funzione sociale dell’informazione, e la pluralità dell’offerta [il bene comune della circolazione delle informazioni e delle idee] è sostanzialmente sequestrata dalle strategie di marketing dei grandi editori [Rcs, Repubblica, Sole 24 Ore e pochi altri, che esistono solo a scala regionale]. Così che è invalso l’uso, ad esempio, della «resa anticipata», per cui il singolo edicolante può decidere che quella certa pubblicazione non venderà, dunque non la espone e la restituisce immediatamente al distributore locale come resa: le copie compariranno nei rendiconti come invendute anche se non sono mai state effettivamente offerte. E il sistema è tale, che l’editore, se è piccolo, non ha alcuna possibilità di rivalersi, dato che i distributori locali, che accettano questi comportamenti, sono in generale unici, città per città. Da loro passa ogni cosa. La descrizione di questo sistema della distribuzione della carta stampata potrebbe diventare molto dettagliata, ma non voglio annoiare. In sostanza: non è garantita la possibilità - almeno - di essere offerti ai possibili acquirenti. Se poi, come nel nostro caso, si stampano 25 mila copie, per non indebitarsi troppo con lo stampatore, essere minimamente presenti nelle 40 mila edicole italiane diventa una missione impossibile. Si crea un circolo vizioso: meno sei presente, e meno vendi, meno vendi e meno stampi, e così via. La sopravvivenza diventa impossibile, come testimonia la mortalità così rapida di tante iniziative editoriali, ultimo il Diario della settimana [che per altro si appresta ad uscire come quindicinale, periodicità in Italia praticamente sconosciuta].
Ad aggravare le cose è poi il fatto che il mercato pubblicitario è a sua volta, proprio come accade con il sistema Rai-Mediaset nella tv, sostanzialmente accaparrato dai soliti tre o quattro editori, che offrono sottocosto le loro pubblicazioni [la Repubblica vende il Venerdì a 30 centesimi, ad esempio]: in cambio, possono offrire agli investitori quel che in gergo pubblicitario si chiamano contatti-cliente. [Nel nostro caso, abbiamo rinunciato fin dall’inizio a cercare investitori commerciali, multinazionali o altro, e abbiamo cercato di inventare un mercato etico di pubblicità fatta da enti locali, altra economia, piccoli editori, ecc.]. Dunque competere, sul piano della quantità e dei prezzi, è per un piccolo editore, una cooperativa, impossibile, per quanti sforzi si facciano per tenere alta la qualità grafica, delle illustrazioni, dei testi, ecc. Semplicemente, quel tipo di qualità non conta nulla, agli occhi del pubblico: quel che conta è che si possa comprare con pochi centesimi un supermercato dell’informazione [si fa per dire] e dell’intrattenimento.
Ultimo dettaglio, non di poco conto: la parte di gran lunga più importante delle provvidenza di Stato all’editoria, che dovrebbero appunto riequilibrare il mercato e assicurare – come vuole la Costituzione – il pluralismo dell’informazione, va ai grandi editori: come dire che piove sul bagnato. Qualcuno ha calcolato che i dividendi che il gruppo Sole 24 Ore [monopolista o quasi dell’informazione economica, con un quotidiano, editoria specializzata, una radio, una televisione satellitare, ecc.], corrispondevano in un certo anno quasi esattamente con la somma che lo Stato aveva versato come contributo sull’acquisto della carta da stampa. I grandi editori sono liberisti di Stato, se ne può concludere.
Il risultato di questa situazione, purtroppo nota e su cui nessuno fa nulla [ed anzi si potrebbe dimostrare, dati alla mano, che il centrosinistra al governo è al servizio dei grandi ediori, per ragioni di - come si dice - «visibilità», ed altre perfino meno nobili], è che viene schiacciata - letteralmente - ogni iniziativa giornalistica atipica. Il pluralismo, di fatto, non esiste. Né lo assicura l’attuale legge per l’editoria, che appunto sostiene più che altro i grandi editori e i partiti, attraverso i loro «organi» che in qualche caso sono veri giornali [come Liberazione] e più spesso sono finti, puri pretesti per aumentare i denari che già i partiti prendono per altre vie, come i rimborsi elettorali. Poi esistono i veri giornali finti organi di partito [come Libero] e le finte cooperative, in un assalto alla diligenza delle provvidenze tipicamente nazionale, ciò che induce trasmissioni come Report o personaggi pubblici come Beppe Grillo a fare di ogni erba un fascio, il manifesto come il Foglio, ecc. Ma questo contesto drammatico – lo è molto più di quanto si voglia riconoscere – renderebbe per paradosso più necessarie pubblicazioni indipendenti, interessate a raccontare quel che davvero accade nel paese o in giro per il mondo, aperte a letture del mondo non ovvie. Ma quotidiani e settimanali con questa vocazione vivacchiano sull’orlo del fallimento, da un punto di vista economico. E certo le ragioni strutturali che ho riassunto ne sono una causa evidente. Però c’è dell’altro, forse ancora più complicato.
Prima di tutto, esiste una crisi progressiva della carta stampata, in tutto il mondo, a causa della diffusione di Internet, fonte inesauribile di informazioni e dibattiti in cui ciascuno può scegliere a piacere, fino a costruirsi una propria rete di fonti. Che sono per di più globali: superato l’ostacolo della lingua, e con una conoscenza appena sufficiente di inglese o spagnolo o francese, si può galoppare in una prateria infinita, nella quale tutti i limiti della stampa nazionale – l’ossessione per la quotidiana rissa politica, l’ossequio ai poteri dell’economia, le cosche accademiche o artistiche – vengono di colpo spazzati via. Navigare in Internet fa l’effetto di spalancare di colpo una finestra, anche se orientarsi in quell’oceano, individuare luoghi d’informazione attendibili e tempestivi, è complicato. Grillo, tra le tante cose, sostiene che bisognerebbe farla finita con la carta stampata: si salverebbero gli alberi e si risparmierebbero i soldi dello Stato. Forse si andrà in quella direzione, però resta il fatto che l’accesso a Internet è, in Italia e ancor più nel mondo, ancora riservato a una minoranza [il «digital divide» è uno dei crucci delle Nazioni unite], e dunque dire «usate Internet» in molti paesi è come dire «se non avete acqua potabile, bevete quella minerale». In più, c’è una sostanza che non si può ignorare: fare dell’informazione su Internet, che non sia puro scambio tra utenti, costa. E chi paga i costi, se l’accesso è gratuito, come nel caso del quotidiano on line di Carta [se è lecito parlare di una piccola iniziativa come la nostra]? Ovvio, paga la pubblicità. Il che significa che l’informazione è tagliata sulle esigenze degli investitori, forse ancor più che nel caso della carta stampata [che, almeno, ancora ottiene dalle vendite un terzo circa dei suoi incassi, come nel caso dei grandi giornali].
Ci si può fidare? Grillo aggiunge anche che bisognerebbe abolire i giornalisti. Forse. Magari sarebbe meglio dire che si devono abolire [non fisicamente, spero] i giornalisti in ginocchio davanti ai poteri più o meno come bisognerebbe abolire i comici che non fanno ridere. Resta un ulteriore dilemma: se il mercato è una roulette truccata in cui vince sempre il banco, chi deciderà quali giornali [o comici] vanno aboliti? Con tutto questo, il modello antico del quotidiano cartaceo [di carta stampata, intendo], che è quello su cui la sinistra di ogni tipo ha scommesso fin dalla nascita dell’Avanti!, all’inizio del Novecento, è ormai obsoleto. La transizione, la faglia, non vale solo per le culture politiche, i movimenti o il clima, vale anche per i modi di comunicare. Un «mezzo di comunicazione» che si assegna la missione di non essere conformista dovrebbe pensarsi come «totale», benché nelle piccole dimensioni. Ogni canale di comunicazione è utilizzabile, alcuni - come Internet appunto - non sono nemmeno molto costosi, anche se, senza inserzionisti pubblicitari, non rendono pressoché nulla. Ecco perché, nella sua modestia, Carta si è pensata, fin dall’inizio, non come un settimanale, ma appunto come un mezzo di comunicazione che adopera ogni strumento possibile: la carta stampata [il settimanale e il mensile e i libri], Internet [il sito, il quotidiano on line], la newsletter [30 mila indirizzi, attualmente], la radio [Radio Carta], i video [che alleghiamo spesso], la televisione [se potesse], fino allo scambio di opinioni faccia a faccia [infatti abbiamo creato una nuova sede che è sì redazione ma anche una sala da cento posti, abbiamo organizzato «cantieri» ovunque, ecc.]. L’idea è che la miscela di questi diversi mezzi aiuti prima di tutto a rafforzare il «marchio »: si sa che da quelli lì viene un’informazione a più vie, in qualche caso gratis e di una certa affidabilità, e se non si trova il settimanale in edicola magari capiterà di inciampare in Carta nel web o di partecipare a un dibattito. In certo modo, è come mettere le racchette per camminare sulla neve fresca: non si potrà correre, ma è più difficile affondare. E in più corrisponde al modo effettivo con cui le persone hanno imparato ad informarsi: mescolando a piacere, a seconda della loro cultura e del loro reddito, media differenti, in un cocktail dal sapore [tempi, linguaggi, ecc.] sempre più «personalizzato».
Ma – e qui veniamo al «core business» di un «medium» che pretenda di non rassegnarsi all’ovvio – la radice profonda del problema è alla fine un’altra: sta nel modo in cui la sinistra, in tutte le sue varianti, guarda alle cose. Non c’è ormai dubbio, a noi pare, che una visione del mondo basata sul «progresso» [lo sviluppo delle forze produttive, la crescita economica], sulla classe [la centralità del lavoro, attorno a cui tutto ruota], sulla democrazia delegata [lo Stato-nazione], è una prigione che produce rendite elettorali [e vendite in edicola] sempre più piccole. In generale, specie negli anni novanta, si è tentato, anche da parte di alcuni dei giornali di sinistra di uscirne in modo «moderno», ossia vendendo sul mercato la propria capacità di smontare i vecchi «miti» della sinistra, senza allo stesso tempo lavorare attorno a una critica nuova dello stato delle cose, ossia del dominio dell’ideologia liberista. Penso che questa deriva dipenda da un senso comune piuttosto diffuso in una parte sostanziosa di quel che un tempo era il «popolo della sinistra», specialmente nel ceto medio più angustiato sia dall’obsolescenza della cultura novecentesca, sia dalla volatilità delle risposte «moderne» - alla Veltroni – a questa crisi. Questa stagione è durata più o meno quindici anni, da Mani pulite fino ai «girotondi» dell’ultima era berlusconiana, e ha creato una divisione tra una stampa di sinistra, o con questa origine, ansiosa di abbandonare temi e linguaggi del passato [come l’Unità o il Diario, appunto] e una stampa più incline alla resistenza, sebbene in qualche caso almeno con intelligenza e attenzione alle novità [il manifesto, principalmente, ma oggi anche Liberazione].
Questo schema si è rotto nel biennio ’99-2001, quello in cui la faglia si è palesata [anche se i sommovimenti sono iniziati ben prima]: tra la guerra in Kosovo, Seattle, il primo Forum sociale mondiale, Genova, l’11 settembre e la guerra in Afghanistan, per citare gli avvenimenti principali, è iniziata quella che Marco Revelli ha chiamato «la seconda globalizzazione», quella che, dismessa la promessa di infinite opportunità per tutti, ha indossato l’elmetto della guerra permanente. Allo stesso tempo, ha fatto irruzione il nuovo movimento, con i suoi modi d’essere, il suo linguaggio, soprattutto la sua constatazione della fine della democrazia rappresentativa a scala nazionale e della crisi terminale dello «sviluppo ». Nell’ambito di cui parliamo qui, il movimento ha provocato l’esplosione di una comunicazione principalmente «sociale» e «globale», dai tratti radicalmente differenti da quelli della stampa di sinistra del Novecento.
Come un tempo il mezzo esclusivo o quasi era la carta stampata [la sinistra ha sostanzialmente perso, salvo rare eccezioni, la partita dell’apertura a soggetti privati dell’etere radiofonico e talevisivo, tra la fine dei settanta e l’inizio degli ottanta], si preferiva adesso sperimentare modi dell’informazione in internet [siti, newsletter, mailing list e blog], visuali [documentari], radiofonici e, in ultimo ma miscelata agli altri mezzi, anche la carta stampata [l’esperienza principale, in Italia, è proprio Carta, ma esiste una pluralità di pubblicazioni di varia periodicità e spesso locali].
Il luogo simbolico, e per tanti versi pratico [il nostro settimanale è nato lì], di questa nuova fioritura è il «media center» nella scuola Pertini di Genova, nel luglio del 2001, dal lato opposto della strada rispetto alla famosa scuola Diaz. Che poi, negli anni più recenti, molte di queste esperienze siano scomparse, come [ma solo in Italia] Indymedia, significa solo che non sempre gli esperimenti hanno successo, e che quella esplosione aveva bisogno di sedimentarsi, cosa che è accaduta anche al movimento in sé, passato da una forma ad almeno altre due, in una sua evoluzione che è lontana dall’essere studiata con cura, grazie anche al sollievo con cui quasi tutti ne hanno salutato la fine. Questo nuovo tipo di giornalismo non ha solo oltrepassato la distinzione tra «modernisti » e «resistenti» di sinistra, ma ha anche proposto nuovi modi del racconto e dell’elaborazione culturale, o come efficacemente dice Riccardo Petrella, ha iniziato una «nuova narrazione». Fuoco dell’attenzione non è più la classe, ma la società; le aggregazioni che usano questi mezzi di comunicazione non sono più principalmente partiti, sindacati o movimenti «tematici», ma reti cittadine e sociali che eventualmente [come nel caso del «patto di mutuo soccorso» per le grandi opere o del movimento per l’acqua] evolvono in movimenti a tema ma sempre avendo come loro legittimazione i movimenti locali. In ogni caso l’essenziale è il racconto sociale, per svolgere il quale è necessario dismettere gli schemi ideologici del passato e ricercare le forme inedite con cui si ricrea il legame sociale. La distanza dalla politica dei partiti, e delle istituzioni nazionali, è quindi molto aumentata: non solo nel senso che ci se ne occupa di meno, come è giusto per qualcosa che ha una incidenza pratica molto inferiore al passato, ma anche perché non si riconosce una effettiva utilità, ai fini della ricomposizione sociale, alle sedi che i partiti offrono a chi desideri cambiare lo stato delle cose. Infine, l’economia ha un posto molto meno centrale, nei media di questo tipo: non perché non se ne riconosca l’importanza, ma per il fatto che non si crede più che l’essenziale del cambiamento sociale fermenti nella produzione di merci e nel lavoro che essa richiede. O almeno non nelle forme antiche.
Da questi pochi accenni [su un tema che dovrà prima o poi produrre un dibattito sulla comunicazione non liberista, quella che sta fuori dal circuito dell’intrattenimento] si ricava abbastanza facilmente dove, secondo noi, stia il problema. La stampa di sinistra è sì una specie minacciata da un eco-sistema estremamente ostile; è sì, come ogni altra pubblicazione di carta stampata in tutto il mondo, resa tendenzialmente obsoleta dalle nuove forme della comunicazione; ma è soprattutto invecchiata nei suoi schemi culturali, e di conseguenza nel suo rapporto con i lettori, che vengono anzi obiettivamente selezionati: tutti coloro che lavorano attorno ai nuovi movimenti, da quelli comunitari all’altra economia, e così via, si sentono – in quanto lettori – sempre più eccentrici, di fronte a giornali che sembrano parlar d'altro, o che parlano delle questioni che stanno loro a cuore in modi che paiono estranei.
E Carta? Potrà sembrare strano, dato lo sforzo di ormai quasi dieci anni per allargare la faglia tra noi e i giornali di sinistra, tant’è che nel primo numero di una cosa di carta stampata con questo nome ci definivamo «giornale sociale» [coltivare la differenza è una cosa che abbiamo sempre fatto con la massima attenzione a non riprodurre le cattive abitudini del passato, le scissioni e l’inimicizia], ma noi siamo in realtà un ibrido. Vi sono state pubblicazioni accademiche che, elencando i media del movimento dopo il 2001, non citavano Carta perché lo intendevano come un giornale di sinistra vecchio tipo; vi è una pubblicistica corrente che, nell’elencare i giornali di sinistra, non cita Carta, visto come un «mezzo di comunicazione » troppo atipico. E d’altra parte, a scorrere le liste di coloro che negli anni [a diverse riprese, ormai più di cinquecento persone o gruppi] hanno sottoscritto quote di partecipazione all’impresa di Carta, si troveranno fianco a fianco missionari e associazioini dell’altraeconomia e dirigenti e parlamentari della sinistra, sindacalisti, ecc. In verità, quel che tentiamo di fare è di trasportare oltre la faglia, per quanto ne siamo capaci, la migliore tradizione del giornalismo di sinistra, e di fare in modo che i nuovi modi di comunicare, nel secolo che si è appena aperto, se ne giovino. Appunto, la relativa solidità della nostra esperienza, che certo ogni tanto vacilla e ha bisogno dell’aiuto dei lettori e dei soci [ma tra una campagna di questo tipo e l’altra passano cinque anni], dipende dal fatto che ci siamo lungamente allenati alla lotta per la sopravvivenza nel manifesto, che riesce a resistere ormai da trentasei anni.
Ma, in conclusione, quel che permette a Carta di vivere non è qualcosa che si impara nelle scuole di giornalismo [benché non guasti avere rudimenti di questo mestiere, meno improvvisato di quanto non si creda]. Siamo forse una specie di via di estinzione, noi giornalisti «irregolari», perciò non priva di interesse. Ciò che fa del nostro un mestiere unico è l’equilibrio con il quale corriamo sul filo teso tra la necessità di essere esaurienti e affidabili nel raccontare gli eventi e, dall’altra parte, l’essere parte di quel che avviene. Noi dichiariamo esplicitamente da che parte stiamo, e cerchiamo di farne conseguire una narrazione cui anche chi sta da un’altra parte possa dare fiducia. L’esatto opposto di chi, giornalista di un grande giornale, vanta la sua obiettività usando tutti gli arnesi del mestiere [mai scrivere in prima persona, citare solo fonti ufficiali, ecc.] e in effetti legge quel che accade con gli occhiali dell’ideologia [liberista] corrente. Perciò possiamo proporci con un certo successo – almeno a giudicare dalla quantità enorme di messaggi che ci segnalano eventi, iniziative, comitati, manifestazioni, e così via - di fare da mediatori culturali. Né fabbricatori di realtà virtuali né dispensatori di ribellioni codificate: noi siamo il nodo della rete che sa ricevere, tradurre e ritrasmettere informazioni e idee da e per il mondo «di sotto», quello che per comunicare ha bisogno di propri canali, dato che quelli maggiori [e talvolta anche quelli di sinistra] non sono sufficientemente aperti. A saperlo apprezzare, pur nella fatica e nella precarietà permanente, è il mestiere più bello del mondo. Esagero, ma a noi pare così.
Per gentile concessione di Carta. Tratto dal n. 10 del 2007
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