L'esperienza dell'uomo metropolitano è fatta di piccoli frammenti. La spinta inerziale del tram, uno scorcio d'architettura, una particolare qualità di smog. Ogni città custodisce il suo particolare ventaglio di sensazioni. Negli ultimi anni, un nuovo elemento è venuto ad aggiungersi al quadro del pendolare medio. Titoli come «metro», «leggo», «city» sono entrati nel vocabolario urbano del pendolare milanese, e con esso hanno popolato i suoi luoghi di transizione – le uscite della metropolitana, gli ingressi dei bar.
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Quando – sul finire degli anni Novanta – la stampa gratuita fece la sua comparsa sul mercato editoriale ci furono polemiche, in Italia e quasi ovunque – sulla natura sleale della concorrenza che quel tipo di prodotto avrebbe fatto alle tradizionali testate a pagamento.
Sulla questione si sono spese già molte parole, ma forse è interessante tornare a rifletterci oggi, quando anche la free press inizia a mostrare segni di cedimento.
Secondo i dati pubblicati a settembre su «Newspaper Innovation» da Piet Bakker, studioso del settore, il 2008 ha visto il tasso di crescita della diffusione della stampa gratuita toccare il suo minimo storico. In parallelo, l'analista rileva come le sempre più frequenti chiusure di testate stiano spingendo le principali compagini editoriali del settore – prima tra tutte la Metro International – a una strategia di disimpegno rispetto ad alcuni mercati, tra cui la Spagna e gli Stati Uniti. Persistono nel contempo aree – come la Germania – in cui questa modalità di consumo delle informazioni non ha mai preso piede.
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A fronte di tutto questo, Bakker individua alcune possibili cause: il sovraffollamento delle testate, e la reazione messa in campo dai quotidiani tradizionali. Le più recenti strategie commerciali di questi ultimi, infatti, da un lato sperimentano forme di convivenza tra la vendita e la distribuzione gratuita, dall'altro guardano sempre più alla Rete come canale preferenziale per un certo target di lettori. Giovani, cittadini, altamente informatizzati: più o meno la stessa fascia di pubblico tra la quale la free press rivendica maggiore consenso.
Ora, tutto ciò potrebbe interessare pochi specialisti. E tuttavia, sullo sfondo delle sorti di questo modello editoriale si indovinano alcuni tra i nodi cruciali della modernità. La stampa quotidiana tradizionale – che oggi attraversa una crisi apparentemente irreversibile – ha giocato un ruolo storicamente luminoso nell'evoluzione e affermazione delle democrazie parlamentari occidentali, a partire dai loro esordi rivoluzionari fino allo scontro con i totalitarismi degli anni Trenta. E' in quegli stessi anni, peraltro, che l'industria culturale al suo apice celebra l'ascesa dei grandi tycoons, culmine (e superamento monopolista) del giornalismo liberale. Ma la società di massa è alle porte, e con essa l'affermazione della radio: Adorno e Horkheimer (ADORNO T.W. e HORKHEIMER M., Dialektik der Aufklärung: Philosophische Fragmente, Frankfurt am Main, S. Fischer 1986), pensatori critici della scuola di Francoforte, furono i primi a notare come il flusso radiofonico non richiedesse all'ascoltatore l'acquisto del singolo programma, dal concerto sinfonico al notiziario, ricollocando così il valore del singolo contenuto all'interno di quello che per gli autori era un «sistema organico del dominio».
Questo stesso nodo, ribaltato, rischia di costituire uno dei più brillanti paradossi della nostra economia post-industriale. Sempre più astratta, sempre più mediale: eppure, essa ospita al suo interno tendenze che spingono alla derubricazione dal mercato di tutta una fetta di contenuti mediali, soggetta alla forza d'urto della Rete e delle nuove tecnologie. La critica letteraria e cinematografica, il giornalismo partecipativo, il fotogiornalismo: tutti questi settori dell'industria culturale sono in fermento da anni. Qualcosa di simile successe nell'industria cinematografica della Nouvelle Vague, con l'introduzione delle macchine da presa leggere e il conseguente abbassamento delle barriere d'accesso. Ma anche in quel caso il professionalismo non venne messo sostanzialmente in dubbio.
Foto di scre(A)nzatopo
Oggi la cittadinanza – riflette Bakker – si sta abituando a non dover pagare per l'informazione. E la ragione, come si può facilmente intuire, è che l'informazione stessa diventa sempre più l'ambito di un discorso comune, frutto di una peer production in cui la competenza ha perso una precisa funzione professionalizzante.
L'esito non è del tutto apocalittico. Dipende dal punto di vista, come quasi tutte le cose. La qualità della free press è stata oggetto di critiche, ma in un Paese con una tradizione di giornalismo politico, come il nostro, l'introduzione di uno stile notiziario più secco e anglosassone è stata una salutare novità. Inoltre, la distribuzione capillare nei luoghi di passaggio ha rinnovato le modalità di fruizione e le ha ridisegnate sulla forma tabloid, destinata ai tempi morti degli spostamenti, bilanciata sul formato ridotto di questi giornali. Il recente rinnovamento editoriale dell'Unità testimonia a favore del successo di questa formula.
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D'altro lato, ciò che non si paga in carta – e qui sarebbero d'accordo i francofortesi – si paga da qualche altra parte. La pubblicità che mantiene queste iniziative editoriali compra, sia detto con buona brutalità, la nostra attenzione culturale, con ciò riducendola a merce. Spostare il discorso in Rete ci può salvare, ma allora torna il rischio della fine del professionalismo, con la conseguente riduzione delle possibilità materiali di autonomia per chi l'informazione, nonostante tutto, la fa.
Insomma, il futuro dell'informazione è più che mai ibrido e incerto: cartaceo e virtuale, gratuito e retribuito. Di stabile non resta che la necessità di comprendere, e quella – forse – di prendere una posizione.