In tanti anni da cronista giudiziario ne ha vista qualcuna. Dopo 18 anni di presidenza dell’Ordine di Milano, oggi insegna diritto dell’informazione all’Università Bicocca. Francesco (detto Franco) Abruzzo non le manda a dire. E nonostante sia stato “fatto fuori” (parole sue) dall’Ordine continua a occuparsi di giornalismo nel suo sito e con una newsletter quotidiana.
Foto tratta da Caffè News
Abruzzo, lei è stato presidente negli anni di Tangentopoli. Si incominciò a parlare allora di gogna mediatica. Che ruolo ebbe la stampa nei suicidi di Gardini, Cagliari, e adesso di Nugnes? E nell’esilio di Craxi? Esiste una questione morale nel giornalismo?
I giornalisti hanno riportato i fatti ma non hanno nessuna responsabilità. Quello di Cagliari, che peraltro conoscevo, è stato un gesto disperato. I limiti all’esercizio del diritto di cronaca stanno nella deontologia professionale, nel rispetto della dignità della persona e della verità sostanziale dei fatti. Non c’è la libertà assoluta di scrivere tutto. Ci sono il codice penale, la legge sulla stampa e la legge sulla privacy a tutela dei cittadini. Non si possono pubblicare foto di gente in manette. Proprio a Monza il tribunale ha condannato un giornalista per un fatto del genere. Nel nostro paese la deontologia professionale è legge, così come lo è l’autonomia della professione. Il giornalista ha la possibilità di non eseguire gli ordini del direttore, venendo così meno al rapporto di fedeltà prescritto dal codice civile, se sono in contrasto con essa. Se manca la legge, cadono le garanzie all’indipendenza. E il fatto di esercitare il diritto di critica è ciò che rende libero il giornalista.
Quindi lei non ne fa un problema di ordinamento, ma di etica del singolo.
Si. Le leggi ci sono, ma camminano sulle gambe degli uomini. Abbiamo un ordinamento sostanzialmente buono. È il singolo semmai che dovrebbe comportarsi da cittadino e non da suddito. C’è un problema di crescita civile: siamo un paese da 150 anni ma lo siamo diventati dopo 14 secoli di occupazione straniera in cui abbiamo imparato a usare il condizionale. Il carattere degli italiani è stato violentato da queste occupazioni, e non si cambia dall’oggi al domani.
C’è chi guarda all’America.
America ed Europa sono figlie di due modelli diversi. Negli Usa c’è stata la consapevolezza che il paese è nato grazie alla stampa. Il Congresso non far leggi sulla libertà di stampa. La stampa americana non è nata temendo il Parlamento, ed è per questo che il giornalismo può svolgere adesso appieno la sua funzione di controllo. Nel modello francese a cui è ispirato il nostro ordinamento è invece la legge a garantire la libertà di stampa. Comunque, anche la Corte Europea ha riconosciuto i giornalisti come cani da guardia della democrazia.
È di questi giorni il caso di Carlo Vulpio, giornalista del Corriere della Sera che è stato rimosso dagli incarichi di cui si occupava (le inchieste di Catanzaro del pm De Magistris e le controinchieste delle procure lucane - l’inquisito che inquisisce l’inquirente. Il gioco di parole rende bene la situazione).
È il sindacato che deve agire contro il direttore. Ci sono due strade in questo caso: procedere contro il giornalista, o procedere contro il direttore. Io avrei convocato Mieli per spiegarmi le motivazioni della rimozione. Temo che Vulpio abbia preso qualche querela di quelle che io chiamo di “sbarramento”. È un fatto normale, intimidatorio, ma normale, quando si conducono certe inchieste. Si prende una querela anche a scrivere di mafiosi come Liggio o Riina.
Quindi?
La storia italiana dice che i politici sono abituati a compiere atti di intimidazione, e non è un fatto recente. Anche ai tempi di Giolitti era così. Poi è arrivato Mussolini che certe faccende le risolveva a modo suo. Ma l’abitudine non è mai cambiata. Il potere politico vuole i giornali in ginocchio. La frase potrebbe essere questa, “io sono il potere e tu non rompermi i c…”. Quella di Orson Welles di “Quarto Potere” è una bella definizione ma credo non sia applicabile all’Italia.
In Italia è assente la figura dell’editore puro. Quanto conta questo nel nostro sistema informativo?
I gruppi economici usano i giornali per i loro affari, e la stampa in Italia è stata ad essi assoggettata. Diceva Mario Missiroli nel suo cinismo che “il bilancio dei giornali andrebbe guardato nel contesto dei bilanci delle società che fanno capo agli editori”. Se il core-business, l’attività principale del gruppo sta altrove, il giornale diventa solo il braccio dell’imprenditore nella comunicazione. Del resto è stato D’Alema a dire che lui parlava con gli editori, non coi giornalisti.
Viene da pensare che siamo i soli. Torna il paragone con l’estero. Si tratta di un’anomalia italiana, o all’estero la stampa e più in generale i mezzi di informazione funzionano?
Non voglio dire che negli altri paesi non esistano condizionamenti. Negli Usa, dove la libertà di stampa è sacra, i condizionamenti vengono dalla pubblicità. Gli inserzionisti cercano di condizionare la linea politica dei giornali. Che dire poi dai cosiddetti “redazionali” che hanno preso piede anche da noi soprattutto sulle riviste femminili? Il concetto è che se io leggo un giornale devo essere in grado di capire quale è un pezzo giornalistico e quale no. Un pezzo che sotto mentite spoglie incensa un prodotto non è giornalismo, è pubblicità. Fare il pubblicitario è un bellissimo mestiere, ma è un’altra cosa. I settimanali ormai sono diventati dei cataloghi.
Siamo alle solite. Gli strumenti normativi ci sono ma è un fatto che la situazione non migliora.
Le sanzioni possono essere comminate solo dopo che un abuso è stato commesso e dimostrato. La verità è che i “poteri forti” riescono a condizionare anche l’Ordine dei giornalisti che dovrebbe vigilare. Il consiglio dell’Ordine, visto il ruolo che ha, dovrebbe essere formato solo da gente in pensione. Non si può chiedere ai giornalisti in attività di essere degli eroi.
La colpa è anche dei direttori dei giornali che i redazionali li consentono.
Questa è un’altra questione. Anche loro sarebbe auspicabile avessero più di 60 anni, niente figli da sistemare. Noi degli anni ’70 abbiamo provato a portare avanti la nostra battaglia per l’indipendenza. Ma gli editori ci hanno fregato. In primis, affidando i giornali ai quarantenni. Un uomo a quell’età ha troppo da perdere. Non rischierà il posto per tornare a fare il redattore. L’altra mossa? Hanno affidato il commento, la “polpa” dell’informazione ad ambasciatori e professori universitari. Si tratta di gente che scrive a gettone perché pagata, e naturalmente risponde a chi la paga.
Da quel che dice l’Ordine potrebbe essere abolito. Ma lei ne è stato presidente per 18 anni.
Chi vuole abolire l’Ordine vuole fare un favore agli editori. L’Ordine va aggiornato, questo è assodato, bisogna semplificare le procedure disciplinari e rafforzare il collegamento con le università. Spero che il Parlamento agisca in questo senso. Ma serve. Il sindacato si occupa del contratto, l’Ordine della disciplina degli iscritti. Ci sono istituzioni equivalenti in tutti i paesi, chi dice il contrario non conosce la realtà. La questione di costituzionalità è stata sollevata e risolta più volte dalla Corte. Pannella? Era contro l’Ordine perché non voleva dare il contratto giornalistico ai suoi redattori di Radio Radicale. Quando abbiamo condotto questa battaglia, da loro abbiamo ricevuto solo applausi. Il Parlamento, quando ha cioncesos il contributo a radio radicale, ha imposto l’applicazione del contratto.