In giro per i negozi del centro e i supermercati di Monza
dove anche dopo 10 giorni di saldi trovi ancora tutti i numeri di scarpa
Crisi: assurda parola che si incrina proprio sulla s, abbattendo la speranza. Il solo pronunciarla porta disgrazia, perché insinua concetti deprimenti e noi vogliamo scamparla e tenerla lontana.
Quello che segue è un giro tra via Italia e corso Vittorio Emanuele a Monza più Rondò dei Pini, ma è lecito a chi lo voglia - soprattutto a chi non capisce un accidente di latino, ma da bravo paesano riconosce molto bene i negozi - di alzare lo sguardo dalle nostre quattro strade al resto, considerando la capitale brianzola una sorta di imago mundi, di specchio del mondo.
I negozianti parlano volentieri del problema, ma hanno timore di venire citati, di essere fraintesi, di sbagliare le risposte e sembrare troppo pessimisti. Se i consumi vengono troppo scoraggiati per via delle previsioni nere per loro è un disastro. Vorrebbero farle un esorcismo, per togliersela dai piedi, la crisi, ma sanno che ignorarla potrebbe costare caro. Sono confusi anche loro, come tutti. Fanno fatica a parlare, perché in questo caso domande e risposte generano incertezza e non chiarimento, sospetto e non fiducia. La paura è quella atavica e arcana che le cose possano non andare più come prima. Perché come prima già non funziona, appare chiaro al primo negozio. Un panettiere, che non vende più pizze e focacce. Sono tutte lì, a mezzogiorno e mezzo. All’agenzia di viaggi ci spiegano che tutto è sempre prenotato. Facile: i tour operator al posto di prenotare trecento stanze all’albergo Le Mille Mummie Blu di Sharm El Sheik, ne fermano solo trenta così riescono a piazzarle tutte, ma resta il fatto che ci vanno un decimo dei clienti dell’anno scorso. Al Grande Magazzino la ragazza è nervosa perché i clienti, pochi, chiedono di vedere tutto. “Non hanno soldi e sono rognosi.” Parole testuali.
A essere sinceri fino a qualche mese fa eravate rognosi anche voi venditori, quando pareva che ci facevate un favore, a venderci durante i saldi beni di consumo con sconti pulciosi. Il concetto di bene di consumo si sta evolvendo in fretta. Il bene non pare più così un bene e la sua consumazione dipende dal prezzo.
L’enoteca lavora bene, per adesso, perché i vini hanno prezzi ancora accessibili. Dieci euro è una cifra ancora accettabile per un regalino o un piccolo lusso privato. I vini da mille euro erano comunque già appannaggio di pochi. Stessa cosa in libreria.
Il negozio di scarpe dopo dieci giorni di saldi ha quasi tutti i numeri disponibili. Un monomarca ha chiuso, un gran bel negozio trendy di giovani stilisti trendy mostra una vetrina piena di cipolle. Vuole evocare il pane e cipolla che ci aspetta o significare che l’acquisto di un maglioncino porterà a mangiare da poveri in canna per almeno tre mesi, al fine di colmare nel digiuno almeno parte del buco finanziario familiare generato da tale improvvido investimento? A pane e cipolla, questo è certo, si dovranno abituare pure loro, i negozianti di questi esercizi un po’ fuori esercizio.
Sinceramente quanto dispiacere suscita che questi vampiri del pedonale, questi Dracula del cartellino del prezzo si trovino in parziale disarmo? E se per i saldi arrivano a fare il 70 per cento di sconto, che ricarico praticavano in precedenza? Non potevano mantenersi nei limiti della moderazione prima che la bancarotta si diffondesse tra i cittadini?
Però, un momento. Quelli che vedi nei negozi, i ragazzi e le ragazze di bella presenza, spesso non sono i proprietari, bensì i commessi, che lavorano in imprese con meno di quindici dipendenti e quindi sono eliminabili senza grossi problemi. Sono più deperibili delle merci negli scaffali, se vogliamo. Crolla la galassia centrale e noi, di fronte all’inarrestabile pioggia di stelle cadenti che illumina il nero cielo, che facciamo? Vorremmo sentirci dire che non è vero, che è tutta un’invenzione. Comprensibile, ma non verosimile. La mancanza, in questo frangente economico, emerge dall’abbondanza. Ci si rende conto delle vacche magre per la troppa merce esposta nei negozi, e pure nei supermercati. È lì perché nessuno la compra. Ci avevate pensato? Non contate che duri poco. Se ipotizzavano una soluzione veloce non facevano le carte di credito di povertà ricaricabili, ma al limite vi spedivano dieci euro con la posta. Se vi trovate al campeggio per una sera accendete un fuocherello estemporaneo o costruite un camino in muratura con parete affrescata?
Foto di Laura Elena Innocenti Bri
Lasciati i cipollosi fasti del pedonale, il centro commerciale si presenta piuttosto deserto.
La solfa non cambia nemmeno qui, ma il sottofondo di desolazione, in questi ampi spazi chiusi, rimbomba a vuoto come i passi dei pochi acquirenti.
Non si avvertono segnali positivi, ma ci sono persone positive. La giovane che vende abbigliamento di un certo gusto ha rilevato il negozio dalla vecchia padrona indebitandosi fino al collo. Lei vuole credere a tutti i costi che le cose andranno benissimo e che la crisi deriva da un temporaneo stato allucinatorio indotto da politici e giornalisti depressi. Sarà. La signora della merceria ha deciso nei prossimi mesi di chiudere e ristrutturare: onore al merito, e alla fiducia nel futuro. C’è un signore che sta aprendo una panetteria con forno a vista. È convinto che la sua attività avrà successo. “Perché la gente in questo modo può guardarmi mentre faccio il pane a tutte le ore. E sono certo che poi lo compra”.
Noi siamo certi che, da qui a qualche mese, ce ne sarà un bel po’ di gente che avrà abbastanza tempo libero per guardarlo confezionare michette. Speriamo non quelli che ora lavorano nei negozi vicini. Sia reso onore al suo desiderio di andare avanti.
Il miglior tempo per esercitare la fede è quello della desolazione.