Intervista a Diego Valeri sul rapporto fra adolescenti e violenza
Vent’anni di lavoro educativo con gli adolescenti. I più “vivaci”, soprattutto, cresciuti nelle periferie, che passano giornate per strada. Ragazzini che hanno imparato a girarsi quando la società li chiama “bulli”. Vent’anni di esperienza in quartieri di frontiera, dalla Zona 1 di Milano, dentro le mura spagnole, al quartiere Crocetta di Cinisello Balsamo. Oggi, Diego Valeri coordina il Centro d’aggregazione CSC di Cederna, storico punto di ritrovo di uno dei quartieri più complessi di Monza.
Hai lavorato praticamente per tutta la tua carriera in quartieri “caldi”, luoghi in cui è facile che si concentrino le criticità e il disagio adolescenziale e dove, forse, è più facile incontrare “il bullo”.
In ogni epoca e in ogni nazione esiste il fenomeno dei comportamenti adolescenziali che la società definisce “devianti” o “bullismo”. L’atteggiamento adolescenziale proattivo, violento, per usare un termine più psichiatrico che educativo, è sempre esistito. E dovunque. Certo, i quartieri popolari apparentemente sono più soggetti a racchiudere al loro interno criticità come queste, ma si tratta comunque di dinamiche trasversali alle classi sociali.
“Vorrei” si interroga sul tema della sicurezza. Il “bullismo” come minaccia per la sicurezza percepita dai cittadini, ma qual è l’entità del fenomeno?
Stiamo parlando di un fenomeno che coinvolge una minoranza di ragazzi, la stragrande maggioranza di essi fa esperienze molto diverse, e anche coloro che agiscono comportamenti aggressivi non sono soggetti “monocomportamentali”.
Quanto secondo te la pericolosità percepita è proporzionata al pericolo reale che questi ragazzi mettono in scena e quanto invece il bullismo è un affare mediatico?
La pericolosità percepita è in parte sicuramente frutto dell’attenzione del sistema mediatico che si sofferma su notizie dello stesso tipo in un breve periodo di tempo. Spesso è la reiterazione della notizia che crea il fenomeno, o quantomeno, l’allarme su di esso: come diceva Villetti, un tempo Direttore dell’Avanti, anche le cose più abnormi se le si trova scritte per tre volte su un giornale, si finirà per accoglierle come in qualche modo vere. E quello del bullismo è tipicamente un fenomeno percepito oltre la sua dimensione reale.
Stai suggerendo di analizzare il fenomeno con dovuti “freni”, è così?
Diciamo che il bullismo è certamente un fenomeno che esiste ma è bene discuterne considerando le interazioni con il corpo sociale generale per comprenderlo nella sua complessità. L’adolescenza è un’età che presenta in maniera pressochè universale, parlando di ragazzi in difficoltà, caratteristiche comuni che afferiscono ad una generica mancanza di empatia, una mancanza di riconoscimento dell’altro, tutta una serie di problematiche che rimandano ai luoghi, agli ambienti, ai sistemi di relazioni in cui l’adolescente è inserito e che in una minoranza di casi esplode in episodi di violenza.
Perchè l’adolescente sceglie di esprimere il disagio attraverso la violenza e non canalizza questa energia in maniera creativa?
Non credo che un ragazzo che manifesti comportamenti violenti si esprima solo in un modo. All’interno dello stesso ragazzino coesistono più forme di comunicazione del malessere. Certo, in genere il quadro di un ragazzo con atteggiamenti aggressivi come dicevo comprende violenza e negazione dell’altro, negazione del valore della scuola, dei valori religiosi e politici, di solidarietà, più una serie di atteggiamenti definibili come attacchi al proprio corpo e al “sé”, uso di sostanze, alimentazione scorretta e via dicendo. Quando, tuttavia, lo avviciniamo vediamo che c’è anche altro, un’altra parte del suo mondo che non riesce ad emergere. Hegel diceva che è un errore ridurre un criminale al suo reato. Lo stesso vale per gli adolescenti “violenti”.
Come dire che il bullismo può essere un episodio, una modalità, una fase, un passaggio che viene superato.
A mio avviso, non c’è un determinismo per cui il bullo adolescente si trasformerà in un criminale adulto. E’ possibile che quando il comportamento aggressivo è continuativo nel tempo si rischi di finire in circuiti viziosi poi difficili da recuperare. Perciò è necessario pensare, per quanto concerne le politiche sociali e pedagogiche, di mettere in campo strategie alternative e/o aggiuntive a quelle attuali, che siano in primo luogo indirizzate verso maggiori “prese in carico” da parte della società adulta, della politica, dei modelli disponibili. Non mi si venga a dire che la violenza è un fenomeno adolescenziale perché gli adulti non solo non sono da meno ma sono anche peggio.
Ecco, infatti, il ruolo della società e degli adulti nella determinazione del fenomeno.
Un ruolo fondamentale. Nel parlare di bullismo parliamo dei ragazzi come se questi fossero monadi che agiscono e vivono in una società separata. L’età adolescenziale tutto sommato, presenta caratteri simili in tutte le epoche: il nodo interessante è dato dai grandi cambiamenti che riguardano l’età adulta, il cambiamento dei nuclei familiari e dei ruoli all’interno di questi sistemi umani e culturali.
In passato l’adulto era riconosciuto dai ragazzi come una risorsa a cui appellarsi, in funzione della sua “adultità”. Ora, spesso, pur interpellato, l’adulto abbassa gli occhi e tira dritto. I Comuni si affidano alle telecamere, forme sostitutive del guardare quello che succede e intervenire, sintomo di una società che certifica la sua cecità.
Vari cambiamenti a cui abbiamo assistito hanno in qualche modo messo a repentaglio e modificato questa immagine dell’adolescente verso l’adulto. Coppie separate, nuclei familiari che, una volta spezzati nella loro forma originaria, si ricostituiscono con altri pezzi di famiglie. I genitori di oggi vivono la genitorialità diversamente rispetto ai loro padri. Credo che tutto ciò rappresenti una criticità poiché la sofferenza degli adulti ha inevitabili ricadute sui figli.
Come dire che mancano figure di riferimento granitiche? In passato la percezione dell’altro veniva costruita all’interno del rapporto con la famiglia, col padre, la madre. E oggi?
Un dato interessante credo il diverso approccio ai mezzi di comunicazione. I ragazzi nati, diciamo dalla fine degli anni Novanta, sono inseriti in un circuito di comunicazione molto particolare, internet, cellulari, blog e community virtuali. Un sistema che genera delle modalità di comunicazione del tutto nuove e particolari, inesistenti nel passato e che hanno a che fare con la percezione dell’altro. Percezione che in tal modo inevitabilmente muta.
Qual è la percezione del bullo da parte dei coetanei, della società, delle figure educative e non?
Credo si tratti di una percezione che si fonda sulla co-partecipazione del bullo alla percezione stessa della sua funzione o del suo ruolo. Tendo in generale a non seguire la logica assolutistica per cui vi sono dei carnefici e delle vittime, sapendo bene che chi picchia non è il picchiato. I ruoli del bullo e della vittima vengono in parte co-costruiti all’interno dei sistemi relazionali e umani: il fatto che qua possa esistere un bullo dipende anche da me e dal mio comportamento nei confronti di questa persona, dipende dal fatto che l’ambiente relazionale preserva un ruolo di quel tipo a quella persona. Per questo la percezione del bullo dovrebbe essere inquadrata all’interno di sistemi relazionali, culturali e affettivi ai quali partecipiamo tutti.
In questo senso come declinare la responsabilità del minorenne?
Nella nostra cultura tendiamo a declinare il concetto di responsabilità addizionandolo oppure imponendo una sottrazione, diciamo: questo ragazzo è molto responsabile, devi prenderti la responsabilità, sei irresponsabile e via dicendo. A mio avviso il termine andrebbe usato in maniera neutra: sei responsabile per quello che fai.
E assieme a questo concetto legherei quello di scelta: hai fatto questo perché hai compiuto una scelta e tutte le scelte comportano delle conseguenze, negative o positive.
Ognuno è libero di uscire da un gioco che non gli piace: la libertà di scegliere è una possibilità che in generale viene preservata. I genitori dovrebbero, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, comportarsi tenendo dritta la barra su questa questione. Se un figlio sbaglia gliene si riconosca la responsabilità, non si accettino giustificazioni che tendano a neutralizzare l’atto. Non si fa il loro bene.
In che modo intervenire?
Credo non si debba scordare che siamo in uno Stato di diritto: per i minorenni che compiono degli atti che si configurano come reati c’è il Tribunale dei Minori, in genere un organo che agisce a tutela dei ragazzi. Penso che valga sempre la pena, ove vi siano gli estremi per farlo, di ricorrere a questo sistema. Per comportamenti critici che non configurino reati c’è l’accompagnamento, la condivisione, il lavorare insieme agli adolescenti per cercare significati nuovi e costruire sguardi diversi, sia in chi educa che in chi è educato (educare non è mai un’attività monodirezionale) lavorare sulle risorse, sui sogni, sui bisogni e sui desideri.
Per essere concreti, credo che le vittime di aggressioni debbano ricorrere alla denuncia. Non solo la denuncia porta sollievo a chi riceve minacce e soprusi, ma spesso anche i protagonisti in negativo ne traggono vantaggio: l’intervento dei professionisti tende a riposizionare tutti gli attori del sistema.
In questo senso è utile anche il lavoro dei Cag di quartiere. I centri di aggregazione giovanile sono presidi pedagogici della città e possono essere utilizzati anche per queste situazioni. I ragazzi sotto lo schiaffo del bullo possono rivolgersi ai centri, troveranno sensibilità, accortezza e competenza nel gestire le situazioni o anche solo per ricevere consigli.
Si ma come trovare le risorse? In fondo parliamo di adolescenti in crisi.
Tutti hanno le risorse. Nel campo delle dipendenze, per esempio, alcuni pensano che le risorse che una persona mette in campo per “farsi” sono così funzionali allo scopo e al raggiungimento dell’obiettivo che il tossicodipendente diventa addirittura un “creativo”. Se utilizzassimo le stesse risorse, le grandi capacità di essere creativi e riuscissimo ad indirizzarle diversamente, per fare cose più “sane”, avremmo trovato la giusta forma di aiuto.
Prima parlavi del Tribinale dei Minori: ma il sistema giuridico non rischia di eccedere in una diagnosi di devianza e il tutto esitare in una profezia che si autoavvera? Dal bullo al criminale passando per il Tribunale?
Credo che, ancora, la definizione criminale dipenda dalla co-costruzione tra media, società e coloro i quali commettono gli atti. Non è un legame di causa-effetto ma una compartecipazione che si gioca all’interno di un contesto complesso. Altrimenti qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai a Napoli ci sono quartieri come Scampia e quartieri della stessa città che apparentemente sembrano un altro mondo. Ma non lo sono, gli uni vivono in stretta relazione con gli altri. Voglio dire: quando passiamo accanto ai palazzi di Scampia e vediamo centinaia di ragazzini che vanno a prendersi la bustina di eroina, beh, la chi ci passa? I genitori, gli zii, gi amici. Gli adulti di quella città, da li passano e se ne vanno a lavorare. Certo, ci sono ragazzini che fanno una scelta ben chiara, ma nello stesso tempo c’è il mondo adulto che ne fa un’altra e altrettanto significativa e di responsabilità: quella di tirare dritto e spostare lo sguardo.
Non c’è il bullo senza il suo contesto. È questo che intendi?
C’è il bullo e il contesto, e sono in relazione. I sistemi umani hanno questa caratteristica: tutti gli attori presenti sono in relazione tra loro. Un’esperienza significativa in tal senso, è accaduta ultimamente al Csc. L’equipe ha lavorato intorno ad un ragazzino problematico che nel contesto del gruppo di pari manifestava comportamenti oppositivi. Attraverso l’utilizzo di spazi e modalità di relazione diverse abbiamo cercato di svincolare il ragazzino dal sistema in cui era inserito e oggi abbiamo una persona che è tornata a giocare serenamente, smettendo di utilizzare atteggiamenti oppositivi e aggressivi. Come mai? Non sono le cattive compagnie, ma i sistemi che si creano per la condivisione dei ragazzi alla costruzione della cultura del gruppo.
E viene da se’ che sia quindi necessario favorire la possibilità di fare esperienze, costruire le possibilità perche i ragazzi possano viaggiare e scoprire il bello del mondo, organizzare luoghi dove potersi esprimere ed essere accolti.
Sei da poco a Cederna, luogo denso di “criticità”: ci sono stati episodi di interesse?
Una situazione che abbiamo cercato di ricostruire con l’equipe e sulla quale stiamo lavorando molto: un gruppo di adolescenti che stavano vivendo una situazione di etichettamento. Hanno un nome, che deriva dal luogo che frequentano, e svolgono la funzione per cui vengono nominati, assumendo un ruolo attivo all’interno del loro etichettamento. Utilizzano modalità di comunicazione, a volte violente, con tutti i criteri standard della letteratura in merito alla costruzione del deviante: mancanza di empatia, atteggiamento violento e proattivo, scuola poco seguita, ecc.
Quando ci abbiamo messo le mani abbiamo capito che c’era anche altro: buone risorse rispetto alla voglia di fare esperienze diverse, creatività, e la ricerca/bisogno di persone adulte con le quali confrontarsi. Certo, inizialmente con le loro modalità. E così in breve si è passati da un primo periodo in una sorta di corpo a corpo ad una altro nel quale stiamo facendo un’esperienza molto diversa.
Credo fermamente nella possibilità di modificare questa percezione, sia loro che della società. Perché abbiamo a che fare con persone intelligenti. Le persone sono intelligenti.