Intervista a Giovanni Sabbatucci, storico ed editorialista del Messaggero,
autore di uno dei più diffusi manuali di storia in uso nei licei.
Siamo riusciti a incontrarlo al termine del suo intervento dal titolo "Costituzione: sana e robusta?" tenuto giovedì 14 maggio e organizzato dall'associazione Novaluna al Binario 7. L'impressione è quello di un uomo lucido e dalla cordialità non affettata, che sorride spesso, ma dai cui giudizi trapela, con amarezza, un certo disappunto nei riguardi della politica attuale. I politicanti di ieri erano di ben altro livello, si sa. Quelli di oggi al confronto sono poco più che onesti mestieranti. Ma proprio quando ti aspetti che stia per cominciare la solita filippica, che si appresti, come un qualsiasi capopopolo, ad arringare la folla, il rigore dell'uomo di scienza riporta l'eloquio sui binari più consoni della discussione pacata. Parla a lungo, Sabbatucci. Il tono si carica, in certi passaggi. Ma la storia lo aiuta a mantenere i piedi per terra. Ultima impressione: è raro trovare uno studioso così attento nel rispondere alle domande del pubblico, e così disponibile a comprenderle e a sviscerarle.
Professor Sabatucci, quanto è ancora attuale la Costituzione nel 2009? C'è anche chi sostiene che debba subire modifiche profonde, qualcuno parla di una riscrittura dato il particolare momento storico in cui è stato redatto il testo...
Io penso che in linea di massima il testo costituzionale abbia ancora nel complesso una sua validità . Si tratta di un testo coerente, ben strutturato, e quindi non c'è necessità urgente di cambiarlo. Ma ci sono questioni su cui sarebbe decisamente opportuno intervenire. Si tratta di modificare alcuni passaggi non fondamentali, ad esempio riguardo al bicameralismo perfetto, al numero dei parlamentari, al rapporto dei poteri locali nei riguardi del potere centrale. Per quanto riguarda una revisione più generale, non penso che la si possa escludere in linea di principio, perché rientra nelle prerogative della sovranità popolare. Penso però che per mettere mano alla Costituzione serva uno "spirito costituente", un'atmosfera, un clima che oggi non vedo e in assenza del quale penso che sia opportuno astenersi da interventi troppo forti. Da una riscrittura, insomma.
Per quanto riguarda l'antipolitica, la gente non si riconosce nei partiti. Come si esce secondo lei da questa situazione di sfiducia, e dove cercare sprazzi di quello "spirito costituente" che permetta un adeguamento del testo costituzionale?
Se lo sapessi ne sarei felice. Ma quello che voglio sottolineare è che polemizzando bruscamente contro gli eccessi politici si è finito, come si dice, per buttar via il bambino con l'acqua sporca, distruggendo il tessuto intermedio, connettivo fra i poteri costituzionali e i cittadini che in qualche modo i partiti assicuravano. Oggi c'è una specie di vuoto tra queste due componenti, e questo non giova alla democrazia. E' giusto togliere ai partiti le prerogative improprie che si erano assunti negli anni, quella ad esempio di nominare i dirigenti delle aziende, i giornalisti Rai, o i rettori delle università. Ma il partito secondo me ha ancora una sua funzione, e lo ripeto, ha ancora una sua utilità anche in quanto canale di reclutamento di una classe dirigente. Qualche cosa che un tempo c'era e che non è stato ancora sostituito. Quindi io penso che, ridimensionati nelle loro strutture, nelle loro prerogative, i partiti possano avere ancora una funzione, e che questo gioverebbe alla funzionalità della nostra democrazia.
La questione del federalismo fiscale. Lei ha sostenuto che più che di federalismo si dovrebbe propriamente parlare di ecentramento amministrativo, o al limite di autonomia. Mi riallaccio a questo per farle una domanda particolare: c'è il timore che le risorse spostate in questo modo aggravino la situazione di un Sud già provato? Esiste ancora in Italia una questione meridionale?
Esiste senza dubbio, anche se diversa da quella delineata a partire dalla fine dell'800. I dati al riguardo sono eloquenti. Credo però che una qualche forma di responsabilizzazione fiscale degli enti locali, e delle Regioni in particolare, potrebbe giovare alle economie del Sud del paese, e costituire una terapia shock capace di avere nell'insieme una qualche utilità. In questo senso forme di delega e di responsabilizzazione delle istanze locali possono essere utili, senza dimenticare la solidarietà, la supplenza, l'integrazione, e tutti i valori tipici di uno Stato che vuole essere tale.
Lei è professore ordinario alla Sapienza di Roma, quindi conosce da vicino la situazione e lo stato dell'Università. Vorrei concludere con questo. Le chiedo con una battuta: chi siamo e dove stiamo andando?
Non basterebbe un'ora per rispondere. Penso che la riforma Berlinguer non sia stata così disastrosa come molti pensano, ma che abbia al contrario adeguato la struttura dell'università italiana a quella che è la realtà: un'università di massa, senza più i grandi maestri, senza più i corsi come si facevano un tempo. Non è stata bene applicata, forse, ma qualche pregio potrebbe averlo. In generale, però, per quanto io sia per l'autonomia, penso che l'università non possa essere lasciata interamente nelle mani dei professori. Se questo dovesse accadere, dovrebbe esserci una completa liberalizzazione, con l'abolizione del valore legale del titolo di studio e dando agli atenei la libertà di fissare le tasse in un sistema di tipo americano. Altrimenti, piuttosto che le vie di mezzo, forse è meglio mantenere una qualche forma di controllo centrale. Perché non sono sicuro che la classe docente, come forse anche quella dei magistrati e dei medici , sia in grado di autogovernarsi nel migliore dei modi.