Il risultato elettorale e la tradizione politica del territorio,
fra Ilvo Diamanti, Ponti, Allevi e Giuseppe Longoni.
Quanto pesa la storia di un territorio sulle sue scelte elettorali? Nella tradizione della storiografia francese del ‘900, abbiamo provato ad analizzare il “caso” Monza e Brianza. Lo abbiamo confrontato con un recente saggio di Ilvo Diamanti e con l’opinione di Giuseppe Longoni, brianzolo e studioso di storia contemporanea. Che avverte: nel clima di omogeneizzazione culturale di oggi, spesso fare appello alle specificità identitarie è solo un alibi. Per coprire interessi molto più concreti.
Sono gli zeri, diceva Bertolt Brecht, che messi dopo l’uno lo rendono importante. Per lungo tempo, però, la storiografia si è occupata solo degli “uno”: Giulio Cesare o Napoleone; Garibaldi, Mazzini e Cavour... O, su una scala un po’ più da carneadi – absit iniuria – Prodi contro Berlusconi e, giù giù localizzando, Ponti contro Allevi. Almeno finché il modello della democrazia rappresentativa reggerà agli urti della globalizzazione, comunque, in nessuna occasione come nelle elezioni sono gli zeri che determinano se l’uno è destinato a vincere o a mordere la polvere. Sono sedimenti di abitudini, visioni del mondo, storie personali e collettive, che inevitabilmente finiscono nell’urna.
I risultati delle prime elezioni per la Provincia di Monza e Brianza ne sono, in qualche modo, una clamorosa conferma. Sembrerebbe non avere avuto nessun peso il lavoro svolto da Gigi Ponti nella legislatura uscente (lo sottolineiamo al di là delle simpatie di schieramento) come responsabile del Progetto Monza e Brianza, ancora nell’ambito della Provincia di Milano. Cioè, di fatto, la creazione dal nulla della nuova provincia, con un innovativo approccio orizzontale e partecipato. È possibile che le argomentazioni di Allevi siano state più convincenti. Ma è forte il sospetto che il peso dell’abitudine, se si vuole della storia, vicina e lontana, sia stato preponderante: la Brianza ha tenuto fede alla sua nomea di “Vandea bianca”, con l’unica variante recente della Lega.
Gli zeri alla ribalta
È solo dalla seconda metà del secolo scorso che gli storici iniziano a interessarsi agli “zeri”, a guardare agli eventi storici dalla prospettiva delle moltitudini anziché dei grandi personaggi. Soprattutto in Francia, una nuova generazione di storici e sociologi incomincia a raccontare storie di povera gente, di piccoli paesi, di fenomeni “marginali”: i malati negli ospedali, i “matti” nei manicomi, frati e suore nei loro conventi, contadini nelle loro campagne. Ma anche storie di eletti e di elettori, e dei loro legami con la “grande storia”.
Nel 1971 esce in Francia un saggio dello storico Paul Bois che suscita all’epoca una certa risonanza, Paysans de l’Ouest (tradotto da noi nel 1975 da Rosenberg & Sellier con il titolo Contadini dell’Ovest). Bois analizza nell’arco di oltre un secolo i risultati elettorali della Sarthe, il dipartimento nel nordovest con capoluogo Le Mans, e dimostra la stretta relazione, comune per comune, tra l’orientamento elettorale e la più o meno forte presenza nei singoli paesi, all’epoca della rivoluzione del 1789, della chouannerie, fenomeno di rivolte reazionarie dei contadini contro la nuova egemonia della borghesia di città.
Il grafico dei risultati delle elezioni legislative del 1956, per esempio – oltre centocinquant’anni dopo la rivoluzione – si sovrappone quasi perfettamente a quello della concentrazione degli chouannes nei diversi villaggi: Fresnay, Conlie o Sablé, fortemente reazionari all’epoca dei fatti dell’89, votano a destra, mentre continuano a votare a sinistra località che erano state repubblicane, come Montfort, St. Calais o La Chartre.
La Brianza “Vandea Bianca”?
C’è un motivo perché da qui, dalla Brianza, ci interessiamo – e proprio ora – a dove mettono le loro crocette, nel segreto dell’urna, i discendenti dei contadini reazionari della Sarthe. Al di là del valore paradigmatico per la tesi in generale, la storia di Bois e dei suoi paysans suonerà in parte familiare a più di un orecchio monzese e brianzolo. Ai tempi d’oro della Democrazia Cristiana, il nostro territorio veniva chiamato, come s’è detto, “Vandea bianca” d’Italia: dove il riferimento alla Vandea sta per regione conservatrice per antonomasia, quella che, in Francia, più di altre si era opposta all’avanzare della Rivoluzione dell’Egalité-Liberté-Fraternité. E il bianco, naturalmente, sta per la Balena Bianca che regnava sull’Italia pentapartitica.
In realtà, più che alla proverbiale Vandea Monza e la Brianza sembrano somigliare alla Sarthe di Bois: “La Sarthe, anche nei suoi angoli più conservatori, non è affatto simile al monolito vandeano; è una regione dove c’è più movimento di uomini e di idee… […] è un errore diffuso considerare le masse contadine inerti e passive, materia malleabile animate solo dal pensiero dei propri interessi materiali… […] esiste nei contadini una personalità di forza disuguale, di cui essi prendono coscienza solo in occasione di avvenimenti importanti che sconvolgono i loro sentimenti. L’esistenza di popolazioni dotate di una fisionomia originale [a un livello così locale, Ndr], risultante di tutto un complesso economico e sociale, è stata per noi una scoperta progressiva. Tale esistenza implica un’opposizione, sia pure confusa e incosciente… tra la gente di campagna e la gente di città…”1.
La teoria generale che Bois dimostra a proposito della Sarthe, cioè l’influenza, anche a distanza di secoli, degli avvenimenti storici sugli orientamenti elettorali, si può applicare anche a Monza e alla Brianza? Quanto ha pesato e pesa tuttora nelle scelte politiche dei brianzoli quella “personalità disuguale” di cui parla lo storico francese, quel desiderio di contrapporre un proprio modello di vita a quello della “città” con (molto di) ciò che essa rappresenta (nel nostro caso, l’ingombrante vicinanza della metropoli milanese)? Quali “avvenimenti importanti che sconvolgono i sentimenti” hanno cambiato il sentiment del brianzolo-tipo?
Come la Sarthe, anche la Brianza è un territorio sì conservatore (ma in che senso?), ma tutt’altro che monolitico. E molto più del dipartimento preso in esame da Bois è stato ed è crocevia di uomini e idee. Da molto, molto prima dell’epoca di Danton e Robespierre. Senza risalire indietro fino alle suggestioni celtiche (il cui retaggio meriterebbe un saggio a sé), basterebbe ricordare l’importanza nella Brianza medievale del catarismo, eresia di origine est-europea diffusa in Occidente soprattutto in Provenza e nella “gemellata” (anche linguisticamente) Lombardia – intesa, nel senso dell’epoca, come gran parte del Nord Italia. Il catarismo italiano aveva il suo maggiore centro di diffusione italiano a Concorezzo, in Brianza, per ragioni in parte tuttora non del tutto chiarite. Senza entrare nel merito teologico (influenzati dallo gnosticismo, i catari credevano nella natura malvagia della materia e negavano la doppia natura umana e divina di Gesù), quel che interessa in questa sede è l’atteggiamento etico dei catari: persino i detrattori erano costretti a riconoscere il loro grande rigore morale, che essi esprimevano anche in un forte attaccamento al lavoro. Ma anche parte del cattolicesimo ortodosso si muoveva nel Medioevo lungo questi binari, spesso con una certa indipendenza da Roma: è noto, ad esempio, il contributo dato dall’Ordine degli Umiliati alla crescita economica della Lombardia, in particolare l’impulso dato alla produzione e commercializzazione della lana, come racconta Carlo Pirovano in Sotto il cielo di Lombardia.
Il catarismo, insomma, insieme con una sorta di “gallicanesimo” locale, sarebbero un po’ gli antesignani di quel “calvinismo lombardo” a cui tanto peso si attribuisce nel successo economico delle nostre terre. Anche dopo lo sterminio dei catari ad opera dell’inquisizione (istituita ad hoc per lottare contro di loro), secondo molti autori le idee catare continuarono a permeare la società lombarda (milanese e brianzola in particolare) almeno fino al ‘400-‘500 e non sarebbero quindi estranee proprio a quella vena calvinista che anima in Lombardia la Riforma cattolica (non controriforma) dei Borromeo, attraversa la prima e la seconda rivoluzione industriale e sigilla le soglie dei salotti buoni della finanza milanese, impedendo alla ricchezza e al potere di tracimare in lusso e ostentazione. Almeno fino alla Milano da Bere e ai suoi epigoni berlusconiani.
“E noi lombardi come siamo? – si chiede Luca Doninelli su Ideazione. – Se il Piemonte è francofilo e il Veneto decisamente asburgico (e questo vale da Verona a Trieste), la Lombardia ubbidisce alla sua vocazione di terra mediana, la cui ricchezza naturale ha attratto popoli e culture diverse, attratti qui dalla miseria, dalla sete di guadagno, ma anche dal puro amore. Nessuna terra, in Italia, ha accolto un numero così grande di forestieri per tante ragioni diverse. In un contesto simile, la Chiesa ha giocato un ruolo fondamentale. Il cattolicesimo, qui, non si è presentato con il volto del potere, ma con il volto dell’impresa, del lavoro, della solidarietà. Da Stendhal a Manzoni alle Casse Rurali all’enorme quantità di opere sociali, cattoliche e laiche, la Lombardia è terra di cultura e d’impresa non solo per la sua ricchezza naturale, ma anche per la sua estrema permeabilità”.
Fedi e territori
Un’inconsueta miscela di religione dei pater-ave-gloria con la religione del lavoro, della chiusura con la permeabilità, sarebbe la cifra del nostro territorio. Il territorio è, in effetti, il convitato di pietra nel dibattito politico attuale in Italia. Lo evidenzia da tempo, tra gli altri, Ilvo Diamanti. Che ha recentemente pubblicato Mappe dell’Italia politica (Il Mulino): un saggio che ripercorre la storia delle scelte di voto degli italiani in un’ottica simile a quella di Bois, ma su un arco temporale più contenuto, sostanzialmente dal dopoguerra a oggi.
Il confronto tra le “mitiche” elezioni del 1948 e quelle del 2008 offre risultati non troppo dissimili da quelli di Bois. La sovrapposizione delle “macchie” colorate è quasi perfetta: in Emilia-Romagna, in Toscana, nel Centro Italia dove nel ’48 aveva trionfato il Fronte Popolare, sessant’anni dopo continua a imporsi il Pd. Nel Nordest, in Lombardia, in alcune zone del Piemonte dominate dalla Dc nell’immediato dopoguerra, oggi regna la Lega. Nei feudi democristiani del Sud oggi è il Pdl, con qualche sprazzo di Udc, a imporsi. Secondo Diamanti, il successo del centrodestra e in particolare di Berlusconi si deve in parte anche al fatto che continua a guardare al territorio, come il sociologo spiega a L’Espresso: “Berlusconi governa guardando il territorio. E proprio dal territorio possono arrivargli dei guai perché le priorità non sono per tutti uguali…”. Anche nella prima Repubblica “…i partiti stavano sul territorio, ma la politica aveva un quadro di riferimento altamente simbolico… Certo, non tutto è sovrapponibile e ci troviamo adesso in una situazione diversa, nell’epoca della ‘democrazia del pubblico’ (per usare la definizione di Bernard Manin), che sostituisce le persone ai partiti e la comunicazione all’organizzazione. Ma tutto poi si coniuga comunque sul territorio”.
“La seconda Repubblica è nata proprio dalle rivendicazioni territoriali che la Lega ha portato avanti – racconta Diamanti– e che hanno scardinato il precedente quadro politico. Bandiera, slogan oltre che progetto. E adesso la Lega cerca di uscire dai suoi confini, cerca di sfondare, ad esempio, nel Centro Italia con un’offerta di sicurezza contro la paura del mondo, contro le minacce che vengono da fuori; per questo il suo messaggio, anche e non è più rivolto solo al Nord, resta fortemente topico. È come si dicesse: io vi difendo dal mondo esterno con le ronde che altro non sono se non la comunità locale in divisa”.
Mentre il centrosinistra, paradossalmente, sembra secondo Diamanti avere intrapreso un percorso inverso: “Berlusconi… usa il territorio. – La sinistra, che è sorta e cresciuta sul territorio, oggi sembra irretita dal modello mediatico. Da utopica è diventata atopica. Ha tentato di diventare tricolore, di scavalcare il suo muro di Berlino costituito a nord dal Po e a sud dal Tevere. Ma senza risultato, perché le sue zone di forza continuano a essere quelle. Come se, caduto il muro di Berlino, si fosse ritrovata di fronte al muro di Arcore”.
Non tutti però ritengono che l’evoluzione del voto verso le destre in Brianza dipenda da una consequenzialità così stretta con i processi storici. È il caso di Giuseppe Maria Longoni, docente di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, al quale abbiamo chiesto qualche commento alla luce dei suoi studi sui fenomeni economici e culturali legati ai processi di modernizzazione, in particolare nell’area lombarda e nel territorio di Monza.
L’alibi della “brianzolitudine”
“Contrariamente all’immagine che spesso ne viene data, Monza non è sempre stata conservatrice. Anzi. – racconta Longoni – Dalla fine del 19.mo secolo fu prevalentemente una città operaia e dunque ‘rossa’. Avversari dei rossi erano i ‘bianchi’, ma nel senso che aveva allora il termine ‘popolare’, non certo clerical-moderati. E in tutta la Brianza, il fascismo non attecchì mai, fin dalle elezioni pilotate del 1924 per tutto il ventennio. Ma la cittadinanza era a-fascista piuttosto che antifascista. Ancora alle amministrative del 1946 i socialisti ebbero 15.000 voti, 6.000 i comunisti, e 20.000 la Dc, nella quale prevalsero le componenti favorevoli alla collaborazione con le sinistre”.
Ma sono poi “…gli scontri ideologici, la paura dell’Unione Sovietica, ma soprattutto la crisi dell'industria del cappello, poi quella strisciante del tessile, solo in parte compensate dai progressi della meccanica e della chimica, a mutare il quadro. Progressivamente scemano gli investimenti industriali e crescono quelli immobiliari e finanziari: molti imprenditori separano i loro interessi dalla città e li spostano altrove. L'industria ancora prospera in Brianza, ma da Monza scivola gradualmente via. La ‘città del lavoro’ muta la sua identità senza peraltro acquisirne un’altra ben definita, non è più un laboratorio economico e sociale”.
I primi cambiamenti si intravedono a cavallo del Sessantotto: “Nel ’68, tra i giovani monzesi molti lavoravano già dai quattordici anni e socializzavano con lo sport, la musica. Erano già attirati nel consumismo di massa. Tra gli studenti c’erano fermenti diversi, tipici dell’epoca e le contraddizioni crescevano. E il consumismo, fenomeno epocale, era, ai vari livelli, e come sempre, il sostrato culturale di fondo della destra”.
Ma è con gli anni ’80 e ’90 che le vecchie categorie vengono definitivamente superate ed è un fenomeno che riguarda l’intera società nazionale. “In quegli anni cambiano le categorie di riferimento. Dalle ceneri della propaganda anticomunista, privata del suo oggetto, nasce con la cooptazione della nuova classe media, del ‘popolo delle partite Iva’, un nuovo blocco sociale costruito su una aspettativa ‘mitologica’ di efficienza e di antipolitica. I brianzoli sono distanti dalle metodologie e cercano di cogliere l’elemento oggettivo comunque presente in quella che è soprattutto la percezione di un approccio al governo del territorio”.
In questo scenario, conclude Longoni, la “brianzolitudine” finisce per essere più che altro un alibi: con il passaggio delle imprese dalle prime alle seconde e terze generazioni – quelle già nate negli agi, che hanno studiato all’università e hanno visto il mondo fuori da qui – anche in Brianza la religione calvinista del lavoro ha da tempo ceduto il passo a un mero culto della ricchezza e del successo personale ad ogni costo. Su questa deriva, che non è solo brianzola e nemmeno solo nazionale, è cresciuta una nuova classe politica “glocal” che è sostanzialmente uguale ovunque. Le declinazioni locali, come la Lega con le sue venature xenofobe e il suo blando federalismo,non sono che le espressioni delle maggiori o minori difficoltà, e con diverse modalità, a gestire localmente la globalizzazione.
Le esperienze amministrative spesso si equivalgono: vi sono naturalmente esempi di buona o di cattiva amministrazione nell’una come nell’altra parte. Tutto si gioca sulla capacità di proporsi come punto di riferimento serio per il territorio. Tanto attesa dagli uni quanto osteggiata dagli altri, che la nuova provincia, da chiunque amministrata, riesca in questo intento è tutt’altro che scontato.
1 Paul Bois (1971), Contadini dell’Ovest. Milano: Rosenberg & Sellier. p. 378