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Abdul, rifugiato politico, viene dal Togo, Ahmed dalla Costa D'Avorio. Entrambi in Italia  per cercare lavoro, l'hanno trovato. Ma il prezzo è stato alto.

La riga di Abdul.
La storia di Abdul, 38 anni,  è probabilmente una storia comune a molti altri rifugiati politici entrati nel nostro paese.
Proveniente dal Togo, un paese africano piccolo ma con una grande tradizione dittatoriale  che si tramanda di padre in figlio, arriva nel nostro paese 10 anni fa, a Roma. Ci vogliono ben due anni di tempo affinché lo Stato gli riconosca lo status di rifugiato politico. Due anni trascorsi nelle vie e nelle piazze della capitale insieme ai connazionali, nella mense Caritas per mangiare e in un Centro di Accoglienza per dormire. Più tardi arriva l’unico lavoro “romano”, come portinaio alla domenica per lo stesso centro  in cui dorme.
Lo stato italiano allora prevedeva per i rifugiati un “bonus” di tre milioni  di vecchie lire da erogare in un arco di 5 anni. Ma Abdul riceve solo la prima rata, perché nel frattempo il  nuovo Governo ha bloccato i fondi.
Passando un centro di  accoglienza  all’altro, Abdul arriva a quello monzese di via Riberti e trova lavoro in una “fabbrichetta”  di 35 dipendenti a Brugherio come operaio semplice, malgrado conosca di 5 lingue.
L’impatto con Monza  gli provoca da  subito nostalgia. Nostalgia  dei grandi spazi delle piazze romane ed anche un po’ della gente della capitale,  perché qui da noi la vita è  sempre quella, e Abdul lo capisce presto: lavoro-casa, casa-lavoro, un giro in centro, e la giornata è già finita. Casa trovata in affitto dopo tre anni di lavoro. Lavoro, che proprio come accade ai nostri giovani, cambia ogni anno con la scadenza del contratto e l’ansia conseguente di restare di nuovo per strada.
Ma com’è  stato l’impatto con i brianzoli?
L’immagine che mi suggerisce Abdul è quella di una riga. E’ la riga formata dai tanti piccoli titolari  che non vogliono immigrati nelle loro aziende. E’ la riga che tira la nostra informazione quando dà dell’Africa un’immagine unica e negativa (fame e guerre),  mentre i 52 paesi del continente sono molto diversi tra di loro... E’ la riga del pregiudizio, per cui quando  Abdul chiede ad  un nostro concittadino l’indirizzo di un via si sente rispondere “No no,  io non faccio l’elemosina”.
Come definiresti il brianzolo medio, chiediamo? “Mediamente ipocrita. Sorridente davanti ma ti parla dietro quando ti  volti”. Nonostante questo, Abdul si è fatto con il tempo un’ opinione equilibrata del rapporto con noi. “Chiusura o accoglienza, disponibilità o pregiudizio dipendono dalle  singole persone”, dice.
Sul finire della chiacchierata, strano, ma è lui che fa delle domande a noi, prendendo spunto dalle impressioni avute dopo un giro in Svizzera. La Svizzera che anche noi conosciamo, la Svizzera  che se butti una sigaretta per terra ti  prendi una multa. “Voi italiani, come potete pretendere dagli immigrati il rispetto delle leggi quando poi  siete i primi a non rispettarle? Come pretendete,  giustamente,  il rispetto delle regole di convivenza, quando siete  proprio voi i primi a romperle? Insomma, come potete essere credibili e di esempio per chi viene in Italia, se pretendete quello  che voi stessi non siete e non fate?”.
E il futuro? domandiamo. “Il futuro non esiste!” risponde. Un’ affermazione in cui si incontrano cultura fatalista africana e realtà italiana… perché domani, il contratto di lavoro e d’affitto me lo rinnovano o no?

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Foto di Eugenio Viceconte
(Tutte le foto di questo dossier, salvo dove indicato diversamente, non raffigurano gli intervistati)

 

Il calcio al pallone di Ahmed.
Ad Ahmed piace il calcio. Gioca “benino” (parole sue). Ahmed è un immigrato come tanti altri, ma scoprirà col tempo che il pallone può essere la “chiave d’entrata” per sfondare la dura porta dei pregiudizi italiani e brianzoli.
Trentacinque anni, nato in Costa D’Avorio, alle spalle un diploma e un lavoro da geofisico,  sente “puzza di guerra civile” nel proprio paese e 10 anni fa, un anno prima della nascita del conflitto interno. Arriva così in Italia, ufficialmente con un permesso “di commercio”.
I primi sei mesi sono durissimi anche perchè “la piazza” prescelta dai suoi parenti e connazionali è quella di Bergamo. Le barriere della lingua, del freddo intenso, dei pregiudizi, delle ostilità tipiche dei luoghi le vive sulla propria pelle, la pelle nera  di un “vu cumprà” come i tanti che incontravamo fino a poco tempo fa.
A Bergamo è dura. Ahmed  tenta allora un’altra strada, e si sposta a Napoli.
Di Napoli ricorda una maggiore sintonia culturale con i meridionali, i tanti lavoretti in nero nelle officine e abbassando gli occhi mi racconta anche delle notti all’addiaccio in stazione o  sotto i ponti e il dormire ammucchiati in trenta in stanze fatte per poche persone. Ma proprio a Napoli inizia a sperimentare che  giocare a calcio crea empatia, rompe le  barriere e facilita comunicazione e rapporti.
Il ritorno però, nella bergamasca prima e attualmente in un paesotto dell’alta Brianza, è inevitabile se vuole trovare un lavoro più stabile ed una reddito che gli permetta di mantenere anche sua moglie e la loro  bimba.
Per fortuna e bravura, così avviene. La situazione si stabilizza con un contratto indeterminato in una fabbrica brianzola vicina a casa.
Ma Ahmed come definirebbe il tipico l’imprenditore brianzolo? Glielo chiediamo. Lui sorride e “spara” la sua definizione: “Il sogno dell’imprenditore brianzolo è quello di guadagnare tanto, facendoti lavorare tanto e se possibile  gratis” . E infatti è proprio sul luogo di lavoro che Ahmed incontra i problemi più grossi nella relazione e nell’inserimento. “Quando c’è un errore sul lavoro la colpa è sempre tua – racconta -  è tua anche quando non tu non c’entri, anche quando non stai bene e chiedi di andare a casa. Dicono che non è vero che non stai bene, che cerchi di fare il furbo...”. A parità di situazione tra immigrati di colore e colleghi italiani la discriminazione è chiara, è pesante e fa male.
Fuori, nel paese, invece va meglio. L’inserimento con la gente viene facilitato, indovinate da cosa? Dal gioco del calcio.  Ahmed entra a far parte della squadra dell’oratorio, a grazie a questo la socializzazione con giovani e adulti viene da sé, al di là del colore della pelle e della diversa religione.
Ma il gol più importante Ahmed  lo realizza in fabbrica. Un giorno infatti il titolare lo invita ad una cena aziendale con i colleghi.  Ahmed ci va malvolentieri, visto che i rapporti non sono buoni. Ma di che cosa si parla a cena? Proprio di  calcio, finchè al termine della serata, prima dei saluti, ci si lascia con la voglia di organizzare una partita tra colleghi. Detto fatto. Ahmed (centrocampista avanzato) fa gol, e ancora un volta il benedetto pallone aiuta a rompere diffidenze e distanze. Da allora il clima in fabbrica migliora.
Pe quanto riguarda la religione, Ahmed ne parla solo nel finale della chiacchierata e solo su nostra domanda. Dice d’essere di musulmano e spiega  che fino ad ora questo non ha costituito un problema, innanzitutto perché in Costa D’Avorio e nella sua famiglia c’è una lunga tradizione di convivenza tra cristiani e musulmani, e poi perchè lui è convinto dell’esistenza di un solo Dio, anche se professato da diverse religioni. Infine, con una “furberia” un po’ italica, mi spiega che ogni volta che sente odore di intolleranza religiosa, lui “mica lo va a dire che è musulmano...”.
Come tanti italiani, Ahmed è attualmente in cassa integrazione,  ed è preoccupato per il  cambio di colore della giunta del suo paese. Ma lascia comunque spazio al futuro, un futuro costellato di “se”: “ Se in Costa d’Avorio cambierà la situazione… Se continuerò ad avere un lavoro... Se mia  figlia da grande lo vorrà…allora perché no, un giorno  tornerò al mio paese”.