Per scelta, per caso o per necessità si lascia la Brianza per studiare lontano. Si viaggia leggeri, senza nostalgie. Ma qualcosa di questa terra resta appiccicata addosso.

 

Luglio si è aperto sulle pagine di Vorrei con il bel dossier dedicato alle anime migranti: storie di uomini liberi e di scelte obbligate, di persone che hanno deciso di andarsene e altre che sono arrivate.

A poco meno di un mese di distanza, abbiamo pensato di aggiungere a quelle storie un piccolo contributo. Si tratta di tre interviste, una personalissima inchiesta priva di ogni rilevanza statistica, condotta su un campione selezionato dall'amicizia e dalla reciproca conoscenza. Gli intervistati sono tre studenti brianzoli, tutti e tre fuori sede da qualche anno. Le domande – si vedrà – hanno cercato di portare alla luce il senso di questi spostamenti, e il significato che la brianzolitudine può avere per dei ventenni lontano da casa.

Margherita, monzese, sta finendo il secondo anno di laurea specialistica in giurisprudenza, indirizzo diritto processuale. Studia a Pisa, presso l'Università La Sapienza, e contemporaneamente presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, dove ha vinto una borsa di studio quinquennale nel 2004. Sta scrivendo una tesi sull'aggiotaggio finanziario, e “da grande” vorrebbe svolgere una professione giuridica tradizionale.

 

Prima domanda. Hai avuto delle esperienze all'estero, fino ad ora?

«Il mio percorso di studi si presta poco all'internazionalizzazione; tuttavia ho comunque ritenuto importante studiare all'estero per alcuni periodi. In particolare, l'anno scorso mi sono recata all'École Normale Superiéure di Parigi per un progetto di ricerca e all'Università di Freiburg per un semestre erasmus. Inoltre tendo a seguire corsi di diritto presso università straniere, un po' perchè è interessante, un po' perchè me li pagano, e questo ad esempio è stato il motivo del mio viaggio a Bruxelles.»

 

Il futuro?

«Dovrei laurearmi a ottobre, poi dovrò fare necessariamente due anni di pratica forense, e quindi dovrò trovare qualche sistema per sopravvivere fino al concorso di avvocato, ma su questo sono in realtà ancora parecchio confusa..»

 

Veniamo a questioni meno personali. Al di là delle ragioni oggettive (mancanza di centri di istruzione superiore qualificata, necessità di esperienze diverse) pensi che ci sia qualcosa da cui fuggire nell'esperienza di vita monzese? Non so, un certo grado di provincialismo, una stanzialità nascosta, qualcosa di difficile da accettare per un giovane?

«La ragione della mia “dipartita” dalla Brianza è stata determinata unicamente dal desiderio di uscire presto di casa e di vedere il mondo, ma non trovo nulla di negativo nella mia città/zona d'origine. Anzi, credo che sia un posto molto più bello, civile e dinamico di tanti altri che ho visto in questi anni, e in cui ogni volta che torno mi sento sempre bene. In realtà da un punto di vista accademico e professionale Monza e Brianza non si possono considerare disgiunte da Milano, città che per altro corrisponde in pieno ai miei interessi di studio, ma che potrebbe credo offrirmi opportunità anche in altri ambiti, se decidessi di cambiare idea. Io credo che per queste cose Monza segua a ruota Milano, e quindi problemi non ne vedo. anzi, credo che dopo un altro quinquennio "a giro", come si dice a Pisa, non mi spiacerebbe rientrare.»


Ma il confronto con punti di vista esterni non ha modificato questa tua opinione?

«In realtà no. dopo essermi trasferita e aver conosciuto ragazzi di svariata provenienza mi sono resa conto più pienamente che la mia zona è moderna e dinamica e offre molte opportunità. può darsi che, non vivendo più qui, io non abbia una esatta percezione dei problemi, e che la memoria renda tutto migliore. Però a me pare di venire da un posto interessante. Anzi, sarò curiosa di leggere nella vostra intervista quello che dicono i ragazzi che sono rimasti in Brianza più di me.»


Un'ultima domanda. Secondo te esiste ancora qualcosa come il pragmatismo lombardo, quell'etica del lavoro e del sacrificio mezza catara e mezza puritana che ha fatto la storia di quella terra? Ti senti di rappresentarlo, in qualche modo?

«Spesso gli amici di Pisa, scherzando ma non troppo, rimarcano la mia ossessione puntual-efficientista, oltre che la mia attitudine puritano-censoria, spesso legandole alla mia origine geografica, e quindi proprio a quell'"etica del lavoro" brianzola e lombarda. E ovviamente di questo vado fiera.

Tuttavia, sotto il Po la Lombardia e la Brianza rappresentano anche l'"etica della fabbrichétta", un cocktail micidiale fatto di Rotary, mazzette, immigrati sfruttati, imposte evase, lavoro-guadagno-spendo-pretendo e ghepensimismi vari. E quindi su questi aspetti devo sempre prendere le distanze. Quanto alle conoscenze fatte all'estero, non c'è consapevolezza delle differenze regionali, e in quanto italiana, purtroppo, la domanda standard è se conosco mafiosi..»

 

Filippo, seregnese, studia a Bologna da un paio d'anni. Si è laureato a Milano, studiando il teatro e la televisione. Ora si sta specializzando in nuovi media, e a breve si trasferirà a Parigi per scrivere la tesi.

 

Prima domanda. Tu sei andato via dopo tre anni di università a casa. Com'è cambiato il tuo rapporto con il territorio da quando sei fuori
sede?

«Il mio rapporto con il territorio è cambiato, principalmente, per una ragione: sono passato da un ambito di vita pendolare provincia-città, ad una vita completamente cittadina. Questi cambiamenti mi hanno portato di sicuro ad avere una percezione diversa di come ho vissuto i primi 22 anni della mia vita, offrendomi la possibilità del confronto.»

Il risultato di tale operazione non è facile da esprimere, ma credo che le boccate di ossigeno - in senso metaforico, s'intende - che sento di prendere le poche volte che torno in Brianza dicano qualcosa.»

 

Quindi sei diventato più consapevole di quello che ti contraddistingue come brianzolo? Non credi che si tratti più di una retorica che di effettive differenze?

«Non credo si tratti proprio di retorica, le differenze culturali ci sono e sono evidenti, sono belle. La retorica, semmai, è nella strumentalizzazione di queste differenze, ma non credo sia l'occasione giusta per aprire un discorso politico.

Alla fine la gioia più grande che mi abbia dato il trasferimento è proprio il confronto con le altre identità culturali, soprattutto italiane, e perciò, si, sono diventato più consapevole di quello che mi contraddistingue come brianzolo.»


Ha ancora senso (se mai lo ha avuto) il concetto di provincialismo,
secondo te?

«Guarda, è lo stesso discorso di prima. Il confronto di cui parlavo si può aprire anche alla distanza tra città e provincia e alle differenze tra i due habitat, che sono ben lungi ancora dall'essere assimilati l'uno all'altro. Quindi si, ha ancora senso, ma il senso, si sa, dipende dagli individui che lo cercano.»

 

Pensi di tornare?

«No, non stabilmente.»


Michele studia a Gorizia, in una sede distaccata dell'Università di Udine. Seregnese, si è laureato a Milano due anni fa, e ora sta prendendo un master in Scritture per il cinema, dopo il quale conta di tornare a casa per la specialistica.

 

Stessa domanda anche per te. Credi che esista qualcosa come la
brianzolitudine, e - se sì - come te la senti addosso?

«Sì, credo che esista una forma di attaccamento affettivo al territorio. Tutti i giovani, non solo quelli brianzoli, in qualche modo trasfigurano le proprie origini ed il proprio vissuto, ricorrendo all'idea di radici culturali e di una memoria “geografica”, per così dire.

Io mi sento brianzolo in quanto sono cresciuto da queste parti: la tradizione, le usanze, la mentalità e la storia ufficiale di questi luoghi mi lasciano però indifferente. Diciamo che sono legato alla Brianza perché ci sono cresciuto, ma non mi sento brianzolo.

Sarei legato alla Versilia o al Collio goriziano da un medesimo affetto se mi fosse capitato di nascere da quelle parti. Per quanto mi riguarda la “brianzolitudine” è solo un fatto di memoria e di stagioni della vita.»


Tu studi cinema, ma nonostante la nomea produttiva di Milano hai
abbandonato la regione e la capitale del lavoro: il mito dell'efficienza e della concretezza vale solo in certi settori della formazione?

«No. Ricordo ancora i corsi alla Statale di Milano, frequentati per lo più da brianzoli. Spesso molte persone facevano riferimento alla mancanza di effettiva spendibilità di alcune lezione, di stampo “troppo” umanistico-letterario.

Una certa mentalità pragmatica sopravvive anche nei settori della formazione meno concretamente produttivi. Non so se sia un bene o un male. Per quanto mi riguarda ho fatto in modo che il mio corso di studi assecondasse le mie passioni ed i miei interessi. In me comunque sopravvive un certo pragmatismo, che però scompare se paragonato alla media dell'operosità lombarda di molti miei coetanei.»


Una domanda più tecnica, per te che ti occupi di cultura e immaginario. Dal punto di vista della rappresentazione del territorio, credi che sia possibile provare a riformulare per i giovani l'immagine della provincia, magari a a partire da forme di creatività dal basso? Come?

«Credo che si debba prendere atto del cambiamento in corso. La percezione del territorio, almeno da parte dei giovani, è una trama sfilacciata di luoghi comuni per molti, e buone intenzioni per alcuni.

Andiamo verso una società molto stratificata e complessa. La domanda è: a chi interessa riformulare per i giovani un'immagine del territorio? Il territorio nasce quando si prende atto di una condivisione di valori, storia e vissuto. Questa consapevolezza comune non esiste più, inutile resuscitarla. Dovrebbe nascere forse una consapevolezza civile più ampia, un senso di appartenenza superiore.»

 

Ma questa consapevolezza civile, non potrebbe essere coltivata e incentivata in qualche modo?

«Si può pensare all'industria culturale e creativa, ma quello è un altro discorso. Festival cinematografici locali, musica dal vivo e varie iniziative fermentano un po' ovunque. La “creatività dal basso” sta lentamente sfatando il mito dei grossi centri culturali e di formazione e, di conseguenza, porta i giovani ad avere un rapporto più attivo con il territorio.

Però penso che ascrivere questo discorso ad una progettualità di immagine territoriale sia forzato...  forse le amministrazioni locali si muovono in tal senso, ma credo questi fenomeni risultino  tanto più efficaci quanto più riescono a conservare una certa autonomia, essere sì espressione di una consapevolezza, ma di una consapevolezza spontanea.»

Gli autori di Vorrei
Pasquale Cicchetti