Il capolista della mozione Franceschini a Monza e Brianza "È la persona giusta per creare un grande partito non identitario, è il più adatto a realizzare la sintesi tra le culture che hanno dato origine al Pd".
Il capolista della mozione Franceschini a Monza e Brianza. Incidentalmente, Civati è anche collaboratore di Vorrei. Ma questo non ci ha impedito di fargli domande tutt’altro che accomodanti.
Non ama dire la sua età, Sergio Civati. È stato operaio, impiegato, sindacalista, operatore sociale in politiche giovanili, consulente. Un rappresentate tipico di quella “flessibilità” che è ormai la cifra dell’oggi. Diciamo che è grande abbastanza per sapere come vanno le cose della politica. Ma non tanto da poter essere collegato alle due nomenklature che il Partito Democratico sembra, volente o nolente, avere ereditato dai suoi illustri antenati, la sinistra Dc e il Pci-Pds. Come per molti altri iscritti, per Sergio Civati quella del Pd è la prima tessera di partito che ha preso in vita sua. E questo non è un particolare secondario.
“Ho aderito al Pd perché ho creduto nel progetto originario, quello di cui si era fatto interprete Veltroni”, spiega Civati. “È per questo che sostengo Franceschini. Perché ritengo che fra i tre candidati sia quello che incarna maggiormente la continuità con l’idea fondativa. Un’idea che possiede progettualità, identità e strumenti per attuarle, e lo ha dimostrato coinvolgendo tre milioni e mezzo di persone. Che non può e non deve ricadere nelle vecchie logiche correntistiche, che hanno causato quei gravi problemi del centro-sinistra di cui siamo stati tutti testimoni e che sono stati particolarmente evidenti durante l’esperienza dell’ultimo governo Prodi. Franceschini è la persona giusta per creare un grande partito non identitario, anche per la sua storia personale è il più adatto a realizzare la sintesi tra le culture che hanno dato origine al Pd. E questo è dimostrato anche dal mix molto ampio e diversificato tra i sostenitori della sua mozione, che va da Soru a Furio Colombo, da Realacci a Marini, fino a Debora Serracchiani”.
Un partito non identitario?, chiediamo. Ma non è proprio questo uno dei problemi principali del Pd, quello di non avere una identità precisa, in particolare sui temi eticamente sensibili e sui temi legati all’estensione dei diritti?
“Bisogna intendersi innanzitutto sull’idea di partito. Oggi un grande partito non può che essere aperto e plurale. Questo significa necessariamente accogliere idee e opinioni diverse, anche su temi sensibili, ma non significa non avere valori e opinioni condivise. Per partito non identitario intendo partito non ideologico, post-ideologico. Al Congresso questo si è visto chiaramente: il confronto ha fatto emergere tra i tre candidati più posizioni comuni che divergenze, com’è logico che sia tra persone che, in fin dei conti, militano su un fronte comune. Quando dico ‘non identitario’ non intendo ‘privo di identità’: intendo che l’identità del partito è programmatica, e non ideologica. È basato sulla condivisione delle cose da fare, su un’idea comune delle azioni che vanno attuate per migliorare questo Paese”.
Tuttavia non è questa l’impressione che il Pd trasmette oggi all’esterno. Il messaggio che le dichiarazioni spesso divergenti dei vertici del partito trasmettono all’opinione pubblica è, invece, proprio quello che il Pd sia ‘non identitario’ nel senso di non avere un’identità precisa, specie sui temi etici: è quello che è avvenuto con il caso Englaro e, più recentemente, con il caso Binetti a proposito della legge sull’omofobia…
“Da questo punto di vista la posizione di Franceschini è molto chiara. Sui temi sensibili, all’interno del partito ci si deve ascoltare e confrontare. Anche aspramente, se necessario. Ma poi bisogna decidere, scegliere una posizione univoca. E una volta che sia sta scelta, quella posizione deve essere la posizione di tutti nel partito. Sui temi sensibili bisogna fare un lavoro preliminare, individuando quali temi siano davvero eticamente sensibili e quali no, su quali sia giusto, e in che misura, ammettere la libertà di coscienza del singolo. E quali temi invece appartengono alla piattaforma programmatica e quindi devono essere caratterizzati da una posizione unica nel partito, che rifletta quei valori programmatici condivisi cui accennavo prima. Il problema è che questo lavoro preliminare non è ancora stato fatto nel Pd, per lo meno non in modo strutturato. E questo si è visto chiaramente con il caso di Eluana Englaro e delle proposte di legge per la regolazione del fine vita. Il caso dell’affossamento della legge contro l’omofobia e del voto della Binetti è del tutto diverso e trovo che sia superficiale assimilarlo a una questione etica. Anche su questo Franceschini è stato molto chiaro: la legge contro l’omofobia non era una questione etica, ma una questione di ristabilimento del diritto, oltre che di ordine pubblico. Si tratta di introdurre norme a garanzia di una categoria di cittadini che è oggettivamente più soggetta alla violenza rispetto agli altri e che è attaccata sulla base di una condizione personale. Si tratta quindi di un’azione positiva che mira a ristabilire l’eguaglianza di fatto tra cittadini, e non del riconoscimento a questa categoria di cittadini di uno status particolare sulla base di considerazioni ‘etiche’”.
Dall’esterno, l’impressione è talvolta che anche le vicende ‘etiche’ vengano usate all’interno del partito come arma nello scontro tra correnti…
“In effetti il problema di fondo è proprio questo. Il Partito Democratico deve decidere se vuole essere un partito degli elettori, della gente, o un partito delle correnti e delle tessere. Prendiamo il caso di Monza e Brianza. A Monza il Pd conta circa 400 iscritti, di questi 200 hanno partecipato alle votazioni per il congresso. Alle scorse primarie, invece, hanno votato 7.000 persone e alle ultime elezioni gli elettori del Pd sono stati 24.000. I tesserati che hanno votato sono meno dell’1% dei nostri elettori! Eppure stiamo assistendo in alcuni settori del Pd al tentativo di rifare un partito delle tessere, specialmente in alcune regioni del Sud. Ma la situazione è cambiata, è cambiata profondamente la natura del rapporto tra le persone e la politica. È innegabile che tra la politica e la società vi sia ormai una certa distanza, e non si può più pensare ai membri di un partito solo come a militanti che, finito il turno in fabbrica, vanno in giro tutta notte ad attaccare manifesti. Oggi i sostenitori di un partito sono persone impegnate nella società civile, nell’ associazionismo, nel non profit, nel volontariato, e che spesso combinano questo impegno con attività professionali complesse. Questo tipo di sostenitori non si può coinvolgere con lo schema della tessera e della militanza. Se si vuole evitare quell’inevitabile disaffezione che sfocia sempre più nell’astensionismo, chiamandole semplicemente alle urne quando ci sono le elezioni, queste persone vanno coinvolte anche ‘nel durante’, con le primarie e con altri strumenti partecipativi, e la loro voce deve essere determinante”.
Per fare questo probabilmente occorrono però persone nuove, che non siano cresciute nella mentalità dei vecchi partiti e non siano ancora legate ai loro schemi. E Franceschini dopotutto viene dalla vecchia Dc…
“Franceschini ha sicuramente una propria storia politica personale, ma non può certo essere definito come un membro dell’apparato. È un cinquantenne che, all’epoca del famoso ‘inciucio’, tanto per dire, non era ancora nemmeno in Parlamento. A differenza di D’Alema e di tanti altri esponenti del partito che tentano di riproporsi oggi come ‘il nuovo’. E non a caso Franceschini chiede oggi ‘più’ opposizione, e non meno. E anche questo mi ha convinto che sia la scelta migliore per garantire la continuità e il rilancio del Pd”.