20091211-obama

Le parole di Obama, il presidente in guerra che riceve il Nobel per la pace.
Le parole di Tettamanzi, il cardinale che non pensa abbastanza ai milanesi.

 

Riprendiamo i due discorsi più chiacchierati di fine anno, quello di Obama all'assegnazione del premio Nobel per la pace a Stoccolma e l'omelia di Dionigi Tettamanzi nel giorno di Sant'Ambrogio, così indigesto a Calderoli e ai leghisti.

In un momento storico di appiattimento e superficialità, di muro contro muro, torniamo ai benefici del dubbio e della contraddizione.

 

Il discorso di Obama a Oslo

"Una pace giusta e duratura"

Le parole del presidente degli Stati Uniti in occasione dell'accettazione del premio Nobel per la pace: "A confronto di alcuni dei giganti della storia che hanno ricevuto questo premio i miei successi sono poca cosa"

Vostra maestà, vostra altezza reale, illustri membri del Comitato norvegese per il premio Nobel, cittadini americani e cittadini del mondo intero:

ricevo questo onorificenza con profonda gratitudine e grande umiltà. È un premio che parla alle nostre aspirazioni più alte, che ci dice che, pur con tutta la crudeltà e le difficoltà del nostro mondo, non siamo unicamente prigionieri del fato. Quello che facciamo conta, e possiamo piegare la storia nel senso della giustizia.

Ma sarei negligente se sorvolassi sulle forti polemiche che ha suscitato vostra generosa decisione. In parte queste polemiche nascono dal fatto che io sono all'inizio, e non al termine, delle mie fatiche. A confronto di alcuni dei giganti della storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela - i miei successi sono poca cosa. E poi ci sono gli uomini e le donne in tutto il mondo che vengono incarcerati e picchiati perché cercano giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente nelle organizzazioni umanitarie per alleviare le sofferenze, ci sono quei milioni senza nome che con i loro atti silenziosi di coraggio e di compassione sono di ispirazione anche per il più cinico degli individui. Non posso contestare le ragioni di chi sostiene che questi uomini e queste donne - alcuni noti, altri sconosciuti a chiunque tranne che a quelli che ricevono il loro aiuto - meritano questo riconoscimento molto più di quanto non lo meriti io.

Ma forse il problema maggiore è che io sono il comandante in capo di una nazione impegnata in due guerre. Una di queste guerre sta lentamente esaurendosi. L'altra è un conflitto che l'America non ha cercato, un conflitto a cui prendono parte insieme a noi altri quarantatré Paesi, compresa la Norvegia, nel tentativo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da ulteriori attacchi.

Ciò non toglie però che siamo in guerra e che io sono responsabile del dispiegamento sul fronte, in una terra lontana, di migliaia di giovani americani. Alcuni di loro uccideranno. Alcuni saranno uccisi. Per questo vengo qui con l'acuta consapevolezza di quale sia il costo di un conflitto armato, carico di difficili interrogativi sul rapporto fra guerra e pace e sui nostri sforzi per sostituire la prima con la seconda.

Non sono interrogativi nuovi. La guerra, in una forma o nell'altra, ha accompagnato l'uomo fin dalle origini. Agli albori della storia nessuno ne metteva in discussione la moralità: la guerra era semplicemente un fatto, come la siccità o la malattia; era il modo con cui le tribù e poi le civiltà cercavano di acquisire potere e risolvevano le loro divergenze.

Col tempo, mentre i codici giuridici cercavano di mettere sotto controllo la violenza all'interno dei gruppi, filosofi, uomini di chiesa e statisti cercavano di regolamentare la forza distruttiva della guerra. Emerse il concetto di "guerra giusta", che sottintendeva che la guerra è giustificata solo quando rispetta determinate condizioni: e cioè se viene mossa come ultima ratio o per autodifesa, se la forza usata è proporzionata e se, nei limiti del possibile, i civili vengono risparmiati dalle violenze.

Raramente nella storia si è vista una guerra che rispondesse al concetto di guerra giusta. La capacità degli esseri umani di inventare nuovi modi per ammazzarsi a vicenda si è rivelata inesauribile, al pari della nostra capacità di escludere dalla compassione chi ha un aspetto diverso o prega un Dio diverso. Le guerre fra eserciti hanno lasciato il posto alle guerre fra nazioni, guerre totali dove la distinzione fra combattenti e civili diventava meno netta. Nell'arco di trent'anni, per due volte questo continente è precipitato nel gorgo della carneficina. E benché sia difficile immaginare una causa più giusta della sconfitta del Terzo Reich e delle potenze dell'Asse, la seconda guerra mondiale fu un conflitto dove il numero complessivo delle vittime fra i civili superò quello dei soldati caduti.

Sulla scia di una distruzione tanto vasta, e con l'avvento dell'era nucleare, divenne chiaro sia ai vincitori che ai vinti che il mondo aveva bisogno di istituzioni che prevenissero un'altra guerra mondiale. E così, venticinque anni dopo la bocciatura da parte del Senato americano della Lega delle Nazioni (un'idea per la quale Woodrow Wilson vinse questo premio), l'America guidò il mondo alla costruzione di un'architettura per mantenere la pace: il piano Marshall e le Nazioni Unite, strumenti per regolare la guerra, trattati per difendere i diritti dell'uomo, impedire genocidi e limitare le armi più pericolose.

Sotto molti punti di vista, questi sforzi ebbero successo. Sì, sono state combattute guerre terribili e sono state commesse atrocità. Ma non c'è stata nessuna terza guerra mondiale. La guerra fredda si è conclusa con folle entusiaste che distruggevano un muro. I commerci hanno legato insieme gran parte del pianeta. Miliardi di individui sono usciti dalla povertà. Gli ideali di libertà, autodeterminazione, uguaglianza e Stato di diritto si sono fatti timidamente strada. Noi siamo gli eredi della forza d'animo e della lungimiranza delle generazioni passate, ed è un'eredità di cui il mio Paese va giustamente fiero.

Ora che è passato un decennio dall'inizio del nuovo secolo, questa vecchia architettura comincia a cedere sotto il peso di nuove minacce. Il mondo forse non trema più al pensiero di una guerra fra due superpotenze nucleari, ma la proliferazione delle armi nucleari rischia di rendere più probabile una catastrofe. Il terrorismo è un'arma tattica usata da molto tempo, ma la tecnologia moderna consente a pochi, piccoli uomini con una rabbia smisurata di assassinare un numero terrificante di innocenti.

Inoltre, le guerre fra nazioni sono sostituite sempre più dalle guerre all'interno delle nazioni. La resurrezione di conflitti etnici o settari, la crescita di movimenti secessionistici, guerriglie e Stati allo sbando intrappolano sempre di più i civili in un caos senza fine. Nelle guerre odierne vengono uccisi molti più civili che soldati: si gettano i semi di conflitti futuri, si devasta l'economia, si lacera la società civile, si accumulano i profughi e si lasciano segni indelebili sui bambini.

Non ho qui con me, oggi, una soluzione definitiva ai problemi della guerra. Quello che so è che per affrontare queste sfide servirà la stessa capacità di visione, lo stesso duro lavoro, la stessa perseveranza di quegli uomini e di quelle donne che alcuni decenni fa hanno agito con tanto coraggio. E servirà un ripensamento dei concetti della guerra giusta e degli imperativi di una pace giusta.

Dobbiamo partire della consapevolezza di una verità difficile da mandare giù: non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui le nazioni, agendo individualmente o collettivamente, troveranno non solo necessario, ma moralmente giustificato l'uso della forza.

Dico questa cosa pensando a quello che disse anni fa, in questa stessa cerimonia, Martin Luther King: "La violenza non porta mai una pace permanente. Non risolve nessun problema della società, anzi ne crea di nuovi e più complicati". Io, che sono qui come conseguenza diretta dell'opera di una vita del reverendo King, sono la testimonianza vivente della forza morale della nonviolenza. Io so che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di ingenuo, nelle idee e nella vita di Gandhi e di Martin Luther King.

Ma in quanto capo di Stato che ha giurato di proteggere e difendere la mia nazione non posso lasciarmi guidare solo dai loro esempi. Devo affrontare il mondo così com'è e non posso rimanere inerte di fronte alle minacce contro il popolo americano. Perché una cosa dev'essere chiara: il male nel mondo esiste. Un movimento nonviolento non avrebbe potuto fermare le armate di Hitler. I negoziati non potrebbero convincere i leader di al Qaeda a deporre le armi. Dire che a volte la forza è necessaria non è un'invocazione al cinismo, è un riconoscere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione.

Sollevo questo punto perché in molti Paesi oggi c'è una profonda ambivalenza sulle azioni militari, qualunque sia la causa che le muove. In certi casi, a questa ambivalenza si aggiunge una diffidenza istintiva nei confronti dell'America, l'unica superpotenza militare del pianeta.

Ma il mondo deve ricordarsi che non sono state solo le istituzioni internazionali, non sono stati solo i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità al pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale. A prescindere dagli errori che abbiamo commesso, il dato di fatto puro e semplice è questo: gli Stati Uniti d'America hanno contribuito per più di sessant'anni a proteggere la sicurezza globale, con il sangue dei nostri cittadini e la forza delle nostre armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e ha consentito alla democrazia di insediarsi in luoghi come i Balcani. Abbiamo sopportato questo fardello non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà. Lo abbiamo fatto per interesse illuminato, perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e siamo convinti che la loro vita sarà migliore se altri figli e nipoti potranno vivere in libertà e prosperità.

Dunque sì, gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace. Ma questa verità deve coesistere con un'altra, e cioè che la guerra, per quanto giustificata possa essere, porterà sicuramente con sé tragedie umane. C'è gloria nel coraggio e nel sacrificio di un soldato, c'è l'espressione di una devozione per il proprio Paese, per la causa e per i commilitoni. Ma la guerra in sé non è mai gloriosa e non dobbiamo mai sbandierarla come tale.

La nostra sfida dunque consiste in parte nel riconciliare queste due verità apparentemente inconciliabili. La guerra a volte è necessaria e la guerra è, a un certo livello, espressione di sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo indirizzare i nostri sforzi al compito che il presidente Kennedy invocava molto tempo fa. "Concentriamoci", diceva lui, "su una pace più pratica, più raggiungibile, basata non su un improvviso capovolgimento della natura umana, ma su una graduale evoluzione delle istituzioni umane".

Come dovrebbe essere questa evoluzione? Quali potrebbero essere queste misure pratiche?

Per cominciare, io sono convinto che tutte le nazioni, sia le nazioni forti che le nazioni deboli, devono aderire a dei parametri per regolare l'uso della forza. Io, come ogni capo di Stato, mi riservo il diritto di agire unilateralmente, se necessario, per difendere la mia nazione. Resto tuttavia convinto che aderire a delle regole sia qualcosa che dà maggior forza a chi lo fa e che isola - e indebolisce - chi non lo fa.

Il mondo si è stretto intorno all'America dopo gli attacchi dell'11 settembre e continua a sostenere i nostri sforzi in Afghanistan in virtù dell'orrore suscitato da quegli attacchi insensati e del principio riconosciuto dell'autodifesa. Allo stesso modo, il mondo ha riconosciuto la necessità di affrontare Saddam Hussein quando questi invase il Kuwait, un consenso che inviò un messaggio chiaro a tutti sul prezzo che devi pagare se vuoi compiere un'aggressione.

L'America non può pretendere che gli altri rispettino le regole della strada se lei si rifiuta di rispettarle. Perché quando non lo facciamo le nostre azioni appaiono arbitrarie e minano la legittimità di interventi futuri, non importa se giustificati o meno.

Questo diventa particolarmente importante quando lo scopo dell'azione militare va al di là dell'autodifesa o della difesa di una nazione da un aggressore. Tutti siamo alle prese sempre di più con difficili interrogativi su come impedire massacri di civili da parte del loro stesso governo, o su come fermare una guerra civile che rischia di risucchiare nelle violenze e nelle sofferenze un'intera regione.

Io sono convinto che l'uso della forza possa essere giustificato per ragioni umanitarie, come è stato nei Balcani o in altri posti segnati dalla guerra. Restare a guardare lacera la nostra coscienza e può condurre a interventi più costosi in un secondo momento. Ecco perché tutte le nazioni responsabili devono accettare il ruolo che possono giocare le forze armate, con un mandato chiaro, per il mantenimento della pace.

L'impegno dell'America nei confronti della sicurezza del mondo non verrà mai meno. Ma in un mondo dove le minacce sono più diffuse, e le missioni più complesse, l'America non può agire da sola. Questo vale per l'Afghanistan. Questo vale per Stati allo sbando come la Somalia, dove il terrorismo e la pirateria si accompagnano a fame e sofferenze. E purtroppo continuerà a valere ancora per anni a venire nelle regioni instabili.

I dirigenti e i soldati dei Paesi della Nato, e di altri Paesi amici e alleati, dimostrano questa verità attraverso la capacità e il coraggio di cui hanno dato prova in Afghanistan. Ma in molti Paesi c'è uno scollamento fra gli sforzi delle truppe e l'ambivalenza della cittadinanza. Io capisco i motivi dell'impopolarità della guerra. Ma so anche questo: pensare che la pace sia auspicabile di solito non basta per ottenere la pace. La pace richiede responsabilità. La pace comporta sacrificio. Ecco perché la Nato resta indispensabile. Ecco perché dobbiamo rafforzare le operazioni di peacekeeping dell'Onu e regionali, e non lasciare che siano pochi Paesi a farsene carico. Ecco perché rendiamo omaggio a chi ritorna a casa da operazioni di peacekeeping e addestramento, a Oslo e a Roma, a Ottawa e a Sydney, a Dacca e a Kigali: rendiamo omaggio a queste persone non come costruttori di guerra, ma come edificatori di pace.

Voglio dire un'ultima cosa sull'uso della forza. Anche quando prendiamo la difficile decisione di cominciare una guerra, dobbiamo pensare chiaramente a come questa guerra va combattuta. Il Comitato per il Nobel lo riconobbe assegnando il primo Nobel per la pace a Henry Dunant, il fondatore della Croce rossa e uno dei principali promotori delle Convenzioni di Ginevra.

Laddove è necessario usare la forza, abbiamo un interesse morale e strategico ad attenerci a determinate regole di comportamento. E anche quando affrontiamo un avversario crudele, che non rispetta nessuna regola, sono convinto che gli Stati Uniti debbano continuare a farsene portatori. È questo che ci rende diversi da coloro che combattiamo. È anche da qui che ricaviamo la nostra forza. È per questo che ho vietato la tortura. È per questo che ho ordinato la chiusura della prigione di Guantánamo. Ed è per questo che ho riaffermato l'impegno dell'America al rispetto delle Convenzioni di Ginevra. Perdiamo noi stessi quando scendiamo a compromessi proprio su quegli ideali che lottiamo per difendere. E onoriamo quegli ideali se li rispettiamo non soltanto quando è facile farlo, ma anche quando è difficile.

Ho parlato degli interrogativi che dobbiamo tenere presenti nel cuore e nella mente quando scegliamo di muovere guerra. Ma ora voglio soffermarmi sugli sforzi che possiamo fare per evitare scelte tanto tragiche, e voglio parlare di tre vie per costruire una pace giusta e duratura.

La prima riguarda l'approccio da adottare nei confronti di quelle nazioni che violano le regole e le leggi: sono convinto che dobbiamo sviluppare alternative alla violenza che siano sufficientemente efficaci da modificare i comportamenti, perché se vogliamo una pace duratura allora le parole della comunità internazionale devono avere un significato. Quei regimi che violano le regole devono essere chiamati a risponderne. Le sanzioni devono essere realmente incisive. All'intransigenza bisogna rispondere con un incremento della pressione, e una pressione di questo genere può esistere solo quando il mondo si presenta unito.

Un esempio urgente è lo sforzo per prevenire la diffusione delle armi nucleari e per arrivare a un mondo senza bombe atomiche. A metà del secolo scorso, le nazioni accettarono di essere vincolate da un trattato i cui termini sono chiari: tutti avranno accesso all'energia nucleare a scopi civili, chi non ha armi nucleari rinuncerà ad averle e chi ha armi nucleari si impegnerà a eliminarle. Io mi impegno perché questo trattato sia rispettato. È un punto centrale della mia politica estera e sto lavorando insieme al presidente russo Medvedev per ridurre gli arsenali nucleari in possesso dei nostri due Paesi.

Ma è dovere di tutti noi insistere perché nazioni come l'Iran e la Corea del Nord non giochino d'azzardo col sistema. Chi afferma di rispettare il diritto internazionale non può distogliere lo sguardo quando le sue regole vengono trasgredite apertamente. Chi ha a cuore la propria sicurezza non può ignorare il pericolo di una corsa agli armamenti in Medio Oriente o nell'Asia orientale. Chi cerca la pace non può restarsene inerte mentre altre nazioni si armano per una guerra nucleare.

Lo stesso principio si applica a chi viola il diritto internazionale per brutalizzare il proprio stesso popolo. Il genocidio nel Darfur, gli stupri sistematici nel Congo o la repressione in Birmania non possono rimanere senza conseguenze. E più saremo uniti, meno ci troveremo a dover scegliere fra l'intervento armato e la complicità nell'oppressione.

Questo mi conduce a un secondo punto: il tipo di pace che vogliamo. Perché la pace non è solamente l'assenza di conflitto aperto. Solo una pace giusta basata sui diritti intrinseci e sulla dignità di ogni individuo può essere veramente duratura.

Fu questa l'intuizione alla base della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dopo la seconda guerra mondiale. Sulla scia delle devastazioni lasciate dal conflitto, quelle persone riconobbero che senza protezione dei diritti umani la pace è una promessa vuota.

Eppure troppo spesso queste parole vengono ignorate. In alcuni Paesi, il mancato rispetto dei diritti umani viene giustificato con la falsa tesi che questi princìpi sono figli dell'Occidente e che sono estranei alla cultura locale o a determinate fasi dello sviluppo di una nazione. E all'interno dell'America c'è da tempo tensione fra chi si autodefinisce realista e chi si autodefinisce idealista, una tensione che lascia intendere un'alternativa drastica fra il perseguimento meschino di interessi e una campagna infinita per imporre i nostri valori.

Io rifiuto questa scelta. Sono convinto che la pace è instabile laddove ai cittadini viene negato il diritto di parlare liberamente o di venerare il dio che preferiscono, di scegliere i propri leader o di riunirsi senza pericolo. Il risentimento represso si inasprisce, e la repressione dell'identità tribale o religiosa può produrre violenza. Noi sappiamo che è vero anche il contrario. Solo quando è diventata libera l'Europa ha finalmente trovato la pace. L'America non ha mai combattuto una guerra contro un Paese democratico e i nostri amici più stretti sono governi che proteggono i diritti dei loro cittadini. Negare le aspirazioni degli esseri umani non è nell'interesse dell'America (e nemmeno del mondo), per quanto cinica e ristretta possa essere la definizione di interesse che viene adottata.

Quindi, pur rispettando la cultura specifica e le tradizioni dei diversi Paesi, l'America spezzerà sempre una lancia in favore di quelle aspirazioni che sono universali. Daremo testimonianza della silenziosa dignità di riformatori come Aung San Suu Kyi, del coraggio degli abitanti dello Zimbabwe che vanno a votare nonostante i pestaggi, delle centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato silenziosamente per le strade dell'Iran. È significativo che i leader di questi governi temano più le aspirazioni del loro stesso popolo che il potere di un'altra nazione. Ed è dovere di tutti i popoli liberi e di tutte le nazioni libere far capire a questi movimenti che la speranza e la storia sono dalla loro parte.

Voglio dire anche un'altra cosa: promuovere i diritti umani non può voler dire limitarsi all'esortazione. A volte questa va affiancata da una scrupolosa azione diplomatica. Lo so che trattare con regimi repressivi non consente l'appagante purezza dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni senza la sensibilizzazione - e la condanna senza dialogo - possono produrre un immobilismo disastroso. Nessun regime repressivo sceglierà di percorrere una strada nuova se non gli si lascerà una porta aperta.

Di fronte agli orrori della Rivoluzione Culturale, l'incontro di Nixon con Mao appare imperdonabile, eppure sicuramente quell'incontro ha contribuito a spingere la Cina lungo una strada che ha consentito a milioni di suoi cittadini di uscire dalla povertà e di entrare in contatto con le società aperte. Il dialogo di papa Giovanni Paolo II con il regime polacco ha creato spazi non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per leader sindacali come Lech Walesa. Gli sforzi di Ronald Reagan per la riduzione degli armamenti e l'appoggio alla perestrojka non servirono solo a migliorare i rapporti con l'Unione Sovietica, ma diedero più forza ai dissidenti in tutta l'Europa orientale. Non c'è una formula unica. Dobbiamo fare del nostro meglio per bilanciare isolamento e dialogo, pressioni e incentivi, per favorire il progresso nel tempo dei diritti umani e della dignità.

In terzo luogo, una pace giusta non include solo i diritti civili e politici, deve includere la sicurezza economica e l'opportunità. Perché pace giusta non vuol dire solo libertà dalla paura, ma libertà dal bisogno.

È indubbiamente vero che raramente c'è sviluppo stabile senza sicurezza; è vero anche che la sicurezza non esiste laddove gli esseri umani non hanno accesso a cibo a sufficienza, o all'acqua pulita, o alle medicine di cui hanno bisogno per sopravvivere. Non esiste laddove i bambini non possono aspirare a un'istruzione decente o a un lavoro che permetta di mantenere una famiglia. L'assenza di speranza può corrodere una società dell'interno.

Ecco perché aiutare i contadini a dare da mangiare alla loro famiglia, o aiutare le nazioni a dare un'istruzione ai loro figli e a curare i malati, non è pura e semplice carità. Ecco anche perché il mondo deve unirsi per combattere i cambiamenti climatici. Quasi tutti gli scienziati concordano che se non faremo nulla ci troveremo a fare i conti con altre siccità, altre carestie e altre migrazioni di massa, che alimenteranno altri conflitti per decenni. Per questo non sono solo gli scienziati e gli ambientalisti a chiedere un'azione pronta e decisa, sono i vertici delle forze armate nel mio Paese e in altri Paesi, che capiscono che in palio c'è la sicurezza di tutti.

Accordi fra nazioni. Istituzioni forti. Difesa dei diritti umani. Investimenti nello sviluppo. Sono tutti ingredienti fondamentali per realizzare quell'evoluzione di cui parlava Kennedy. Ma io sono convinto che non avremo la volontà, o la perseveranza, di portare a termine questo compito senza qualcosa di più, e questo qualcosa è l'espansione costante della nostra immaginazione morale, la convinzione che c'è qualcosa di irriducibile che ci accomuna tutti.

Man mano che il mondo diventa più piccolo, dovrebbe diventare più facile per gli esseri umani riconoscere quanto siamo simili, capire che fondamentalmente vogliamo tutti le stesse cose, che speriamo tutti di avere la possibilità di vivere le nostre vite in modo più o meno felice e realizzato, per noi stessi e per le nostre famiglie.

Ma considerando il ritmo forsennato della globalizzazione e il livellamento culturale che porta la modernità, non c'è da sorprendersi che la gente abbia paura di perdere quello che più ama delle proprie identità specifiche, la razza, la tribù e, forse più forte di tutte, la religione. In alcune zone questa paura ha scatenato dei conflitti. A volte sembra addirittura che stiamo facendo dei passi indietro. Lo abbiamo visto in Medio Oriente, con il conflitto fra arabi ed ebrei che sembra inasprirsi. Lo abbiamo visto in nazioni lacerate dalle divisioni tribali.

La cosa più pericolosa è che lo vediamo nel modo in cui viene usata la religione per giustificare l'omicidio di innocenti da parte di chi distorce e svilisce la grande religione islamica, quelli che hanno attaccato il mio Paese dall'Afghanistan. Questi estremisti non sono i primi a uccidere nel nome di Dio: le atrocità delle Crociate sono ben note. Ma ci ricordano che nessuna guerra santa può essere una guerra giusta. Perché se credi veramente di stare eseguendo il volere divino, allora non hai necessità di mostrare alcun ritegno, non hai necessità di risparmiare la donna incinta, o il medico, o addirittura una persona della tua stessa fede. Una visione tanto distorta della religione non è solo incompatibile con il concetto di pace, ma anche con lo scopo della fede, perché l'unica regola fondamentale di ogni religione importante è fare agli altri quello che vorremmo che gli altri facessero a noi.

Rispettare questa legge d'amore è da sempre lo sforzo fondamentale della natura umana. Siamo fallibili. Commettiamo errori e cadiamo vittime delle tentazioni dell'orgoglio, del potere, e talvolta del male. Anche quelli fra noi che sono animati dalle migliori intenzioni possono non mettere riparo a un torto che viene commesso di fronte a loro.

Ma non abbiamo bisogno di pensare che la natura umana sia perfetta per continuare a credere che la condizione umana possa essere perfezionata. Non dobbiamo vivere in un mondo idealizzato per continuare a perseguire quegli ideali che lo renderanno un posto migliore. La nonviolenza praticata da uomini come Gandhi e come Masrtin Luther King forse non è pratica o non è possibile in tutte le circostanze, ma l'amore che loro hanno predicato, la loro fede nel progresso dell'umanità dev'essere sempre la stella polare che ci guida nel nostro viaggio.

Perché se perdiamo questa fede, se la liquidiamo come qualcosa di stupido o ingenuo, se la separiamo dalle decisioni che prendiamo sulla guerra e sulla pace, allora perdiamo quello che c'è di migliore nell'umanità. Perdiamo il nostro senso di possibilità. Perdiamo la nostra bussola morale.

Come hanno fatto altre generazioni prima di noi, dobbiamo rifiutare quel futuro. Come disse Martin Luther King in questa stessa occasione molti anni fa, "io rifiuto di accettare la disperazione come risposta finale alle ambiguità della storia. Rifiuto di accettare l'idea che la presente natura umana, che preferisce 'le cose come stanno' ci renda moralmente incapaci di conseguire l'eterno 'dover essere' con cui dobbiamo sempre confrontarci".

E dunque, sforziamoci di conseguire il mondo che deve essere, quella scintilla del divino che ancora brilla in ognuna delle nostre anime. Da qualche parte oggi, qui e adesso, un soldato vede che il nemico ha più potenza di fuoco, ma tiene la posizione per conservare la pace.
Da qualche parte, oggi, in questo mondo, un giovane manifestante sa che il suo governo reagirà con la forza bruta, ma ha il coraggio di continuare a marciare. Da qualche parte, oggi, una madre che deve fare i conti con una straziante miseria trova ancora il tempo per insegnare al suo bambino, che è convinto che in un mondo crudele ci sia ancora spazio per i suoi sogni.

Dobbiamo vivere secondo il loro esempio. Possiamo riconoscere che l'oppressione non sarà mai sconfitta, ma nonostante questo continuare a lottare per la giustizia. Possiamo ammettere che la depravazione è impossibile da sconfiggere, ma nonostante questo continuare a lottare per la dignità. Possiamo essere consapevoli che ci sarà la guerra, e nonostante questo continuare a lottare per la pace. Possiamo farlo, perché questa è la storia del progresso umano, questa è la speranza di tutto il mondo; e in questo momento di sfide dev'essere il nostro compito, qui sulla Terra.

(Traduzione di Fabio Galimberti - da repubblica.it)

 

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Solennità di sant’Ambrogio
Omelia
Milano-Sant’Ambrogio, 7 dicembre 2009

SUL VOLTO DI AMBROGIO

BRILLA L’IMMAGINE DEL “BUON PASTORE

Carissimi,

“Gesù disse: ‘Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore…’” (Giovanni 10,11). Inizia così la pagina del Vangelo di Giovanni che la liturgia d’oggi, solennità di sant’Ambrogio, ripropone alla nostra meditazione e alla nostra preghiera.

L’invito, dunque, è a guardare a Cristo con gli occhi della fede, a contemplare con amore e con gioia il suo volto, a penetrare nell’intimo del suo cuore: è il volto e il cuore del “buon pastore”.

E mentre ci avviciniamo a Cristo, noi ritroviamo noi stessi, riscopriamo la nostra identità di discepoli del Signore, di pecore del suo gregge, ossia di destinatari dell’amore e della cura di Gesù, il buon pastore. Proprio così: entrando nel suo cuore entriamo nel nostro stesso cuore, un cuore che viene colmato dall’amore premuroso e provvidente, compassionevole e misericordioso di Cristo, un cuore colmato dal dono della sua vita: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”.

Oggi, solennità di sant’Ambrogio - patrono della città di Milano e dell’intera nostra Chiesa -, contempliamo il volto di Cristo vedendolo riflesso in quello del Vescovo Ambrogio, il cui ministero e la cui vita ci si presentano come immagine viva e splendida, come specchio limpido e fedele di Gesù, il buon pastore. Sul volto di Ambrogio ritroviamo i lineamenti propri del volto di Cristo: e questo è il frutto della grazia che il Signore gli ha elargito chiamandolo alla guida episcopale della Chiesa di Milano, e insieme è il risultato della risposta libera e generosa che Ambrogio – con i suoi sentimenti e con le sue opere – ha dato alla chiamata del Signore.

Seguiamo allora lo stesso sant’Ambrogio che nei suoi scritti ha commentato i passi evangelici riguardanti Gesù come buon pastore. Ci è dato così di riascoltare la voce del nostro Santo, di condividere i suoi atteggiamenti interiori, di accogliere le sue prospettive pastorali, di fare nostra la sua preghiera a Cristo Signore. Ambrogio continua così ad esserci maestro e guida spirituale nell’addentrarci sempre di più nel mistero di Cristo e della sua Chiesa.

1. Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me

La pagina di Giovanni che ci parla di Gesù il buon pastore trova il suo centro vivo e palpitante nel singolarissimo rapporto di conoscenza e di amore che esiste tra il pastore e le pecore: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (Giovanni 10,14-15). E il vertice della comunione d’amore sta nel dono della vita: “e do la mia vita per le pecore”. Ora è davvero sorprendente il fatto che il rapporto tra Gesù e noi non è un rapporto generico, indistinto, di massa – siamo il suo “gregge” -, ma un rapporto personale, personalissimo: tocca ciascuno di noi nella propria unicità e irripetibilità. Viene da pensare alla confessione dell’apostolo Paolo: “Ha amato me e ha dato se stesso per me” (Galati 2,20).

Sant’Ambrogio sottolinea questo aspetto, insieme commovente e responsabilizzante, ponendo in luce la premura del buon pastore nei riguardi della centesima pecora, l’unica dell’intero gregge andata smarrita. Il rapporto tra le novantanove pecore che vengono lasciate e l’una che viene ricercata manifesta il valore eminente della salvezza anche di una sola pecora. Così scrive nel Commento al Salmo 118: “Nel suo Vangelo fu il Signore Gesù ad affermare che il pastore ha abbandonato le novantanove pecore per andare alla ricerca dell’una che andava errando. La pecora, che Egli chiama errante, è la centesima: la perfetta interezza di questo numero è di per se stessa istruttiva e significativa. E non senza ragione quella pecora viene preferita a tutte le altre, perché vale di più l’essersi sottratti al vizio che l’averne quasi ignorata l’esistenza” (Commento al Salmo 118, XXII, 3). E nel commento a Luca sant’Ambrogio scrive “Egli (Cristo) è dunque un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà”. E riferendosi poi alla gioia degli angeli per il ritrovamento della pecora perduta, si rivolge al singolo cristiano con questo invito fiducioso: “Anche tu, allora, sii motivo di gaudio per gli Angeli, essi si allietino per il tuo ritorno” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 210).

2. Offro la vita per le pecore

Questo rapporto personalissimo tra Gesù il buon pastore e ciascuno di noi pecora del suo gregge trova la radice profonda, il segreto che ne spiega tutta la preziosità e la bellezza, e insieme tutta la gioia che ne deriva, nel dono totale di Cristo sulla croce, nella sua redenzione. Scrive sant’Ambrogio: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato riposo” (Ibid., II, 209). E ancora: “… quella pecora, una volta trovata, viene issata sulle spalle del pastore. Tu puoi vedere qui in forma certa il misterioso modo con cui viene rianimata la pecorella stanca, dal momento che la condizione umana così stanca non può essere richiamata alla vita se non grazie al sacro segno della Passione del Signore e del sangue di Gesù Cristo, di cui il principio sta sulle sue spalle. Su quella croce infatti Egli ha sorretto le nostre debolezze, per cancellare lì i peccati di tutti. Con motivo gioiscono gli angeli, quando colui che errava ormai non erra più, ormai ha scordato il suo errore” (Commento al Salmo 118, XXII, 3).

Questo rapporto personale della singola pecora con Gesù conduce il cristiano ad una preghiera confidenziale, da cuore a cuore, con la gioia intima di poter dare del “tu”– nella forma più intensa e vibrante – al proprio Signore. Le preghiere, talvolta brevissime ma sempre ardenti, infuocate, che Ambrogio rivolge a Cristo e che abitualmente pone tra le righe dei suoi scritti, anche quelli più dottrinali, sono una bellissima testimonianza del suo rapporto personale affettivo con Gesù.

Nello stesso tempo, questo rapporto personale non si esaurisce nella preghiera, ma diviene principio, forza, slancio nell’accogliere da Gesù, con libera e grande serietà, i doni di grazia e gli impegni che ci sono dati per vivere da autentici discepoli del Signore, per essere pecore che “conoscono” e amano sempre più lui, il pastore delle nostre anime. Scrive sant’Ambrogio nel suo commento a Luca: “Noi siamo pecore, preghiamolo che si degni di condurci ad acque che ristorano; siamo pecore, ripeto, chiediamogli i pascoli; siamo dramme, teniamo alto il nostro valore; siamo figli, affrettiamo il passo verso il padre” (Esposizione del Vangelo secondo Luca II, 211).

3. Il buon pastore come modello dei vescovi e dei presbiteri

Un altro passo interessante di sant’Ambrogio ci mostra come il buon pastore guida il suo gregge non solo personalmente – dice, infatti, quasi con amore estremamente geloso: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” –, ma anche attraverso altri “pastori”, che da lui incaricati lo rappresentano, ne fanno in qualche modo le veci, sono i suoi strumenti vivi nella cura del gregge.

Il nostro Santo rileva come prima della nascita di Cristo la condizione dei popoli della terra era simile a quella di tanti greggi abbandonati, erranti, indifesi dagli assalti delle belve. Ora però la situazione è cambiata, perchè il buon pastore ha raccolto questi greggi nel suo ovile per mezzo dei suoi pastori e li ha affidati alla loro custodia. E i pastori sono quaggiù i vescovi e in cielo angeli di Dio. Riferendosi al testo evangelico che marra come alla nascita di Gesù i pastori vegliavano all’aperto e stavano a guardia del loro gregge, Ambrogio scrive: “Guardate i primordi della Chiesa che sorge: Cristo nasce, e i pastori cominciano a vegliare per radunare nell’atrio della casa del Signore le greggi dei Gentili, che vivevano come tante pecore, affinchè non subissero le irruzioni delle bestie spirituali, favorite dalla tenebre incombenti della notte. E bene si dice che i pastori vegliamo, perché lo stesso buon Pastore è il loro modello di vita. Pertanto il gregge è il popolo, la notte il mondo, e i pastori sono i vescovi. Oppure pastore è anche colui al quale si dice: Sii vigilante e rafforza, perché il Signore ha incaricato della cura del gregge non soltanto i vescovi, ma vi ha destinato anche gli angeli” (Esposizione del vangelo secondo Luca II, 50).

Da questo testo di Ambrogio emerge, anche se solo per rapidissimi accenni, la fisionomia pastorale propria dei Vescovi. Ad essi è affidata – come da preciso incarico – la cura, la custodia del gregge, ossia del popolo di Dio. E’ una custodia che comporta di riunire il gregge e in particolare di vigilare sul gregge e così difenderlo dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di quei lupi rapaci che sono gli eretici. Scrive al riguardo il vescovo di Milano in un altro passo del commento a Luca: “Non sono forse da paragonare a codesti lupi gli eretici, i quali stanno in agguato presso gli ovili di Cristo, e fremono attorno ai recinti più di notte che di giorno? E’ sempre notte per gli increduli, i quali, per quanto è loro possibile, si danno da fare per offuscare e oscurare la luce di Cristo con le nebbie di interpretazioni sinistre… Stanno a spiare quando il pastore è assente, e per questo fanno di tutto sia per uccidere sia per esiliare i pastori delle Chiese, perché se i pastori sono presenti, non possono assalire le pecore di Cristo” (Ibid., VII, 49-50).

Come si vede, nell’interpretazione di Ambrogio il vigilare del pastore sul gregge è un aspetto della sua missione evangelizzatrice, del suo compito di far risplendere – nella notte del mondo non credente - la luce di Cristo, di pascere le pecore con la dottrina, la verità del Signore. Rileviamo ancora come nella custodia vigilante dei pastori rientra anche il compito più ampio di condurre il gregge ai verdi pascoli della sapienza divina, della grazia, delle virtù.

In una parola riassuntiva: i pastori sono chiamati a seguire il Signore Gesù come modello di cura del gregge loro affidato: “Lo stesso buon pastore è il loro modello di vita”.

Proprio questa parola di Ambrogio voglio interpretare come un prezioso invito alla serenità e alla responsabilità, di cui devono essere segnati coloro che fanno le veci di Cristo nel guidare il gregge ai pascoli di vita eterna: in particolare i vescovi e i presbiteri. Serenità e responsabilità vogliamo chiedere al Signore, in questo anno sacerdotale proposto a tutta la Chiesa dal papa Benedetto XVI, per i vescovi e tutti i presbiteri della nostra Chiesa ambrosiana: serenità perché Gesù non è solo un modello quanto mai affascinante di vita, ma anche la sorgente inesauribile di grazia e di forza per ogni suo ministro; e insieme responsabilità, perché di fronte alla propria coscienza e all’intero popolo di Dio il ministro è chiamato a mostrare sul proprio volto i lineamenti di amore e di santità che splendono sul volto di Cristo Signore, il buon pastore che offre la vita per noi.

Carissimi fedeli, pregate per noi vescovi e presbiteri, preghiamo insieme tutti gli uni per gli altri, facendo nostra la confessione di fede e di amore che sant’Ambrogio ha rivolto a Cristo come a Colui che è buono, anzi è la stessa bontà. Ecco la sua invocazione: “Questo ‘bene’ venga nella nostra anima, nell’intimo della nostra mente… Questi è il nostro tesoro, questi è la nostra via, questi è la nostra sapienza, la nostra giustizia, il nostro pastore e il buon pastore, questi è la nostra vita. Tu vedi quanti beni ci sono in un solo bene” (Lettera XI, 6).

+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano