Un resoconto dei due incontri di Novaluna sui costi della sanità e delle cure. Ospiti Marco Sardina, Mauro Venegoni, Gherardo Colombo e Antonio Ardizzola. Gli organismi nazionali si trovano a fronteggiare una richiesta di salute pubblica con risorse insufficienti e contemporaneamente le aziende farmaceutiche che tendono a massimizzare i loro profitti: un duro compito
Era inevitabile che la vicenda dei mutui subprime, con le sue reazioni a catena, avrebbe messo in crisi i vari sistemi welfare. La minore disponibilità di risorse ha comportato una riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato ai vari centri di spesa (pensioni, ammortizzatori sociali, sanità etc), con altrettanta diminuzione di quantità e talvolta qualità dei servizi erogati. E questo succede quando l’andamento demografico, pensiamo soprattutto all’Europa, ne richiede un aumento. Chi usufruisce oggi del Servizio Sanitario Nazionale non può fare a meno di constatare un peggioramento del servizio, per esempio rispetto a dieci anni fa, in termini di tempi di attesa e talvolta di qualità delle prestazioni. Sempre più forte, per chi può, la tentazione di rivolgersi alla sanità privata.
Osservando questo settore, pubblico o privato, si assiste, nell’ambito di un fisiologico aumento dei costi, ad una particolare impennata dei prezzi dei farmaci. Nei mesi scorsi articoli di stampa avevano destato attenzione sul tema dei costi di alcuni farmaci e delle politiche “commerciali” di alcuni grandi produttori. Si era parlato, ad esempio, del sofosbuvir che in 12 settimane di terapia è in grado di guarire una epatite C alla modica cifra di 72.000 Euro, e del caso Aventis-bevacizumab (Roche) – Lucentis-ranibizumab (Novartis), ambedue efficaci per la cura della degenerazione maculare (pupilla): il primo costa 70 volte meno del secondo, ma la Roche non ne chiede l’autorizzazione per quella patologia così gli operatori sanitari possono prescrivere solo il farmaco più costoso. Si sospetta un accordo di cartello tra le due multinazionali.
Così, nel mese di marzo, Novaluna ha pensato di organizzare due interessanti incontri per esaminare questo particolare aspetto della sanità (pubblica) nei suoi riflessi economici ed etici, oltre che quelli sanitari. Ha perciò invitato Marco Sardina, direttore ricerca e sviluppo di Zambon Farmaceutici, Mauro Venegoni, consulente del Centro di Farmacovigilanza della Lombardia, Carlo Sini, filosofo, già membro del comitato etico nell’istituto Tumori di Milano, e Antonio Ardizzoia, direttore di Oncologia Medica dell’ospedale di Lecco. Quattro voci da quattro prospettive diverse per una obiettiva comprensione dei fatti. Moderatori, di volta in volta, un medico, Alessandro Colombo, direttore del reparto Radioterapia dell’ospedale di Lecco , e un (ex) magistrato, Gherardo Colombo. Ecco in sintesi le loro presentazioni (le immagini proiettate sono disponibili nel sito di Novaluna www.novalunamonza.it):
Marco Sardina. La ricerca farmaceutica richiede forti investimenti (in media quasi 2 miliardi di dollari per portare un prodotto sul mercato) e già questo spiega perché è quasi esclusivo appannaggio di grandi società multinazionali, il cui primo obiettivo è il profitto. Bisogna poi considerare che i brevetti scadono dopo un certo tempo, dopodiché cadono drasticamente i ricavi. Questo può “giustificare” i prezzi. Come oggetto di ricerca si è passati dai prodotti naturali e dai loro derivati (penicillina, sulfamidici, aspirina) della prima metà del ‘900 alla biologia molecolare dei giorni nostri; nel primo caso destinatari dei farmaci erano larghi strati della popolazione mondiale, affetti cronicamente o periodicamente da epidemie o patologie di larga diffusione. Oggi si ricercano farmaci che tengano conto della genetica di individui o di gruppi “limitati di numero” in modo da migliorarne l’efficacia; così però i costi della ricerca si distribuiscono su meno pazienti, dunque il costo lievita. E in futuro, sull’onda dei grandi progressi della biologia negli ultimi cinquant’anni, si studieranno il genoma e le proteine, parti vitali degli organismi viventi, per avere farmaci sempre più efficaci. Arriveremo ai farmaci individuali? E con quali costi?
Mauro Venegoni. Il SSN è finanziato con la fiscalità generale. Nel 2013 la spesa farmaceutica è stata in totale di 26 miliardi di Euro, di cui ¾ a carico del SSN. Lo Stato stabilisce annualmente un tetto alla spesa farmaceutica convenzionata e, all’interno di questa alla spesa farmaceutica ospedaliera. Se il tetto viene superato l’importo eccedente dovrà essere saldato dalle imprese farmaceutiche e dalle Regioni responsabili del disavanzo.
Caso della Epatite C: si stima che in Italia da 1 al 2% della popolazione sia affetto da questa patologia, si tratta cioè di centinaia di migliaia di individui. Il Ministero della Salute ha stanziato un miliardo di Euro specificamente per questa cura e, visto il prezzo del farmaco (vedi caso sofosbuvir di sopra), potrà essere somministrato a circa 25000 persone. E gli altri? Per tamponare le inevitabili ingiustizie le società scientifiche hanno stabilito un criterio di priorità secondo le condizioni dei pazienti. Ma se gli esclusi si rivolgessero alla magistratura (come è già successo nei caso Stamina)?
Caso della degenerazione maculare (citata in precedenza): visto il comportamento di Roche e di Novartis l’Autorità garante della Concorrenza li ha multati per 180 milioni di Euro. In seguito l’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, ha inserito il bevacizumab (più economico) nella lista dei farmaci prescrivibili in regime SSN ai pazienti interessati, anche in assenza di richiesta da parte della Roche. In conseguenza di ciò l’associazione delle aziende farmaceutiche europee ha denunciato l’Italia alla Commissione Europea con la motivazione che l’Italia ha privilegiato considerazioni economiche piuttosto che la tutela della salute pubblica. Vedremo come finirà!
Conclusione. Gli organismi nazionali si trovano a fronteggiare una richiesta di salute pubblica con risorse insufficienti e contemporaneamente le aziende farmaceutiche che tendono a massimizzare i loro profitti: un duro compito, non c’è che dire!
Nella seconda serata Gherardo Colombo ha voluto stimolare gli interlocutori con le seguenti domande:
E’ senza limiti il desiderio dell’uomo di procrastinare la fine della vita?
Quanto costa alla collettività questo desiderio di vivere il più possibile?
Si arriverà a dover scegliere chi salvare (curare) e chi no?
Carlo Sini. La nostra società rifugge dall’idea della morte. Siamo figli di tre secoli di rivoluzione industriale, di progresso sociale, di benessere materiale, di vita nelle città moderne e anche di indifferenza nei rapporti umani. Non siamo più abituati a considerare i “vantaggi” della morte. La cultura, il progresso, sono una successione di vita e di morte, che è connaturata alla vita dell’uomo. In natura la morte prepara la vita. Nelle società arcaiche la morte è accettata come un evento naturale: presso gli antichi esquimesi vigeva l’usanza secondo cui chi sentiva vicina l’ora si allontanava dalla comunità per non essere più di peso.
Certo, la nostra società è più articolata e moderna, ci sono ragioni per vivere ad ogni età, se si mantiene una qualità accettabile. Ma allora bisognerebbe stabilire che il budget della Sanità deve avere la precedenza nella sua definizione rispetto, ad esempio, a quello della Difesa (perché comprare i nuovi caccia per la spesa di miliardi di euro?). Oppure bisognerebbe ridurre l’evasione fiscale, non il budget della Sanità. Uno Stato che si rispetti dovrebbe avere come obiettivi principali la salute e l’educazione dei cittadini. Se non riusciamo a far questo dovremmo essere pragmatici come gli anglosassoni e prendere decisioni anche scomode: l’SSN inglese, ad esempio, ha stabilito che certi farmaci costosi non saranno somministrati a suo carico. Stabilirlo prima aiuta a non creare aspettative. E i nostri modi di pensare si stanno avvicinando a quelli anglosassoni…
Antonio Ardizzoia. Ogni anno si presentano dai 3 ai 400.000 nuovi malati di tumore. E’ un impatto sociale enorme: ciascuno di noi ha o ha avuto un parente, un conoscente, un amico malato di tumore. Da 25 anni ad oggi la farmacologia oncologica ha fatto enormi progressi: oggi ci sono molti più farmaci, anche specifici per tipo di tumore. Con questa disponibilità si ottiene il 50% di guarigioni mentre per il restante 50% si può prolungare la vita, anche di anni. Naturalmente prolungare ha senso se si mantiene una qualità accettabile. A fronte di questa situazione, tutto sommato incoraggiante, c’è il problema dei costi: i farmaci oncologici rappresentano una importante componente della spesa sanitaria. Secondo il trend attuale nel 2020 la spesa diventerà insostenibile: potremmo arrivare a dover decidere se praticare cure oncologiche o, ad esempio, fare le vaccinazioni. Cosa potrebbe succedere? Uno scenario Stamina è sempre possibile!
Una soluzione di tipo anglosassone sarebbe auspicabile: si stabilisca a priori come la Sanità si comporterà nelle varie situazioni e le aspettative si adegueranno.
Dipenderà anche dai pazienti. Quelli che vengono dalle valli di Lecco (civiltà contadina) sanno accettare meglio la morte rispetto ai “cittadini”. Il problema etico-economico sarebbe meno angosciante se, come i valligiani, accettassimo l’idea che si deve comunque morire.
Sia come sia, non sarà facile per i nostri politici fare quelle scelte che tra poco si imporranno.